Visualizzazione post con etichetta letteratura anglosassone. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta letteratura anglosassone. Mostra tutti i post

15/05/23

"Via dalla Pazza Folla", lo straordinario romanzo di Thomas Hardy


Thomas Hardy viene giustamente considerato uno degli scrittori in assoluto più "pessimisti", uno dei più vicini alla visione schopenhaueriana della vita: sorta di condanna che tocca vivere, lottando tenacemente, ma senza speranza, contro una volontà superiore - quella delle forze naturali - che agiscono "nonostante" noi, oltre noi, in una specie di lotta impari e senza senso, nella quale si può soltanto soccombere.
Hardy, dal profondo della campagna in cui quasi per tutta la vita si rinchiuse - la sua biografia è una delle più povere di eventi, nella storia della letteratura - immaginò storie cupe e dolorose, ma anche estremamente vitali, ambientate in una regione immaginaria chiamata Wessex, che ha molte caratteristiche dei luoghi in cui effettivamente viveva.
484 pagine vanno via nello scorrere di capitoli titolati e in genere brevi, lungo i quali si dipana la vicenda di Bathsheba (le donne sono quasi sempre le protagoniste dei suoi romanzi), bella giovane e determinata, che da semplice contadina, si ritrova fittavola e proprietaria di un grande fondo.
Tre sono i corteggiatori di Bathsheba: il leale Gabriel Oak, il primo a farsi avanti, che ne diviene poi il fattore, l'uomo di fiducia; il fittavolo benestante e misantropo Boldwood, che perde la testa completamente per Bathsheba dopo che lei gli ha tirato un crudelissimo scherzo; e il belloccio Troy, sergente dell'esercito britannico, cinico e scapestrato, del quale è innamoratissima - e fidanzata - l'ingenua Fanny.
Naturalmente, tra i 3 candidati possibili, Bathsheba sceglierà quello che di gran lunga è il peggiore, cioè Troy, garantendosi così un'infelicità grandissima, costellata di delusioni, tradimenti, disillusioni ferocissime.
Nella prima parte del romanzo e anche fino a poco oltre, ci si diverte molto. Bathsheba è uno dei personaggi femminili più riusciti della letteratura dell'Ottocento. Hardy ne tratteggia la personalità in modo vivissimo, con tutte le sue irrisolte contraddizioni, inserendo questo carattere tipicamente femminile nell'ambiente naturale selvaggio della campagna, di cui Hardy è maestro di descrizione.
Nella seconda metà del romanzo, la storia si incupisce, diventa crudele con i suoi personaggi, soprattutto con Bathsheba - chiamata ad affrontare la nemesi inevitabile - ma anche con tutti gli altri.
Hardy però risparmia almeno il finale, che una volta tanto non si chiude nel baratro della tragedia ma spalanca proprio nelle ultime pagine un possibile lieto fine.
La caduta di Bathsheba e delle sue ambizioni è in fondo molto moderna. E moderni sono i suoi desideri, le fragilità, i conflitti nascosti dietro l'apparente imperturbabilità di un personaggio "forte".
L'immaginazione e la storia si sposano felicemente - come sempre in Hardy - con l'introspezione e lo studio dei caratteri psicologici.
Una lettura magnifica.

Fabrizio Falconi - 2023

06/02/23

Henry James: "L'ultimo dei Valeri", uno splendido racconto tutto ambientato a Roma

Henry James

Ho recuperato un racconto di Henry James che finora non avevo mai letto, "L'ultimo dei Valeri" (The Last of Valerii), scritto nel 1874, quando James aveva 31 anni.

Com'è noto, la produzione di Henry James, tra romanzi, racconti, romanzi brevi, è veramente sterminata. Ma ovunque si trovano gemme del suo talento sconfinato.
"L'ultimo dei Valeri" è ambientato a Roma e racconta la semplice vicenda di un pittore, la cui figlioccia, Martha, venuta in Italia, si innamora del conte Valerio, discendente della nobilissima gens Valeria, risalente alla Roma Repubblicana, che ha ricoperto per ben 74 volte la carica di Console (seconda sola ai Cornelii).
Il pittore-narratore si trova di fronte questo bellissimo italiano, che sembra uscito da un bassorilievo antico, con i capelli ricci e folti come quelli di Marco Aurelio, dal fisico massiccio e di carattere ombroso.
La narrazione prende il via quando, dopo il matrimonio, il Conte decide di esaudire il desiderio di Martha e di portarla a vivere nella sua grande villa di famiglia, da parecchio tempo lasciata andare in rovina.
Il Conte - che si chiama Camillo - fa restaurare la villa, e accoglie anche l'idea di riprendere gli scavi nei giardini, che si dice, custodiscano enormi tesori del passato.
Così è: dal primo sondaggio di scavo, emerge una meravigliosa e antica Venere (o Giunone) che sembra essere stata appena sepolta.
Con la gioia per il ritrovamento del prezioso reperto, sale però, insieme, l'improvvisa freddezza del Conte, che comincia misteriosamente a ignorare la moglie.
Il pittore ne scopre il perché: Camillo è letteralmente soggiogato dalla statua che è stata scoperta. Giunge a prostrarsi di fronte a lei, di notte, come un pagano invasato dal suo culto.
La forza del passato, del mito; i fantasmi dei morti e dell'ombra sono anche qui, come in molta della sua opera, al centro del racconto di James.
E la descrizione della Roma dell'epoca - c'è una sublime scena notturna al Pantheon - vale da sola la lettura.
Si tratta di un James ancora acerbo, non quello sontuoso della vecchiaia. Ma il suo spirito di osservazione, unico, c'è già tutto.
E sentite come disegna in due righe il tratto di questo "italiano" di così nobili discendenze:
"La mia figlioccia viveva in una felicità idilliaca ed era completamente innamorata. Ero costretto ad ammettere che anche delle regole rigide hanno le loro eccezioni e che, in qualche caso, un conte italiano è una persona onesta."
Formidabile.

Fabrizio Falconi - 2023

29/06/22

Elogio di James Salter, un grande scrittore americano che merita di essere scoperto



Ha scritto soltanto sette romanzi, nella sua vita ma James Salter è uno degli scrittori più interessanti del Novecento americano, anche se purtroppo da noi è ancora poco conosciuto. 

Tra gli editori, non solo italiani, va di moda il detto secondo cui Salter è "il tipico scrittore che piace molto agli scrittori", con questo intendendo implicitamente che forse non è adatto ai gusti di un pubblico ampio. 

Ma non è così. Tra le molti doti, la prosa di Salter, ha quella di poter essere apprezzata da chiunque, senza per questo essere facile o banale. 

Ma chi è James Arnold Horowitz che prese il nome d'arte di James Salter? 

E' nato nel New Jersey nel 1925, e morto pochi anni fa, il 19 giugno 2015.

Ex ufficiale di carriera e pilota dell'Aeronautica Militare degli Stati Uniti , si dimise dall'esercito nel 1957 in seguito alla pubblicazione di successo del suo primo romanzo, I cacciatori

Dopo una breve carriera nella sceneggiatura e nella regia cinematografica, nel 1979 Salter pubblica il romanzo Solo Faces. Ha vinto numerosi premi letterari per le sue opere, compreso il tardivo riconoscimento di opere originariamente criticate al momento della loro pubblicazione. 

Suo padre era un agente immobiliare e uomo d'affari che si era laureato a West Point nel novembre 1918 e aveva prestato servizio nel Corpo degli ingegneri sia con l'esercito che con la riserva dell'esercito. 

Il giovane James, sebbene avesse intenzione di studiare all'Università di Stanford o al MIT, entrò a West Point il 15 luglio 1942, su richiesta del padre, che si era arruolato nel corpo degli ingegneri nel luglio 1941, in previsione dello scoppio della guerra.

Come suo padre, il tempo trascorso a West Point da Horowitz fu breve a causa dell'aumento delle classi in tempo di guerra e della drastica riduzione del programma di studi. Si diplomò nel 1945 dopo soli tre anni, classificandosi al 49° posto per merito generale nella sua classe di 852 allievi. 

Completò l'addestramento di volo durante il suo primo anno di corso, con l'addestramento primario a Pine Bluff, Arkansas, e l'addestramento avanzato a Stewart Field, New York.

Durante un volo di navigazione nel maggio 1945, il suo volo si è disperso e, a corto di carburante, ha scambiato un cavalletto ferroviario per una pista, facendo atterrare il suo T-6 Texan contro una casa a Great Barrington, nel Massachusetts. 

Forse a causa di questo ciò, fu assegnato all'addestramento multimotore sui B-25 fino al febbraio 1946. 

Ricevette il suo primo incarico nelle Filippine, alla base aerea di Naha, Okinawa, e alla base aerea di Tachikawa, in Giappone. 

Nel marzo 1950 è stato assegnato al quartier generale del Tactical Air Command a Langley AFB, in Virginia, dove è rimasto fino a quando si è offerto volontario per la guerra di Corea.

Arrivò in Corea nel febbraio 1952 dove volò in più di 100 missioni di combattimento tra il 12 febbraio e il 6 agosto 1952 e gli è stata attribuita una vittoria su un MiG-15 il 4 luglio 1952. 

Successivamente Salter fu dislocato in Germania e in Francia, promosso maggiore e assegnato alla guida di una squadra di dimostrazione aerea; divenne ufficiale operativo di squadriglia, in linea per diventare comandante di squadriglia.

Nel tempo libero scrisse il suo primo romanzo, The Hunters, pubblicandolo nel 1956 con lo pseudonimo di "James Salter". I diritti cinematografici del romanzo permisero a Salter di lasciare il servizio attivo nell'aeronautica statunitense nel 1957 per scrivere a tempo pieno. 

Dopo aver prestato servizio per dodici anni nell'aeronautica militare statunitense, di cui gli ultimi sei come pilota di caccia, Salter trovò difficile il passaggio a scrittore a tempo pieno.

L'adattamento cinematografico del 1958, I cacciatori, interpretato da Robert Mitchum, fu acclamato per le sue potenti interpretazioni, la trama commovente e la rappresentazione realistica della guerra di Corea. 

Pur essendo un adattamento eccellente per gli standard hollywoodiani, era molto diverso dal romanzo originale, che trattava della lenta autodistruzione di un pilota di caccia trentunenne, che un tempo era stato considerato un "pezzo grosso", ma che trovava solo frustrazione nella sua prima esperienza di combattimento, mentre altri intorno a lui raggiungevano la gloria, in parte forse inventata. 

Il suo romanzo del 1961, "Il braccio di carne", si basa sulle sue esperienze di volo con il 36° stormo di caccia alla base aerea di Bitburg, in Germania, tra il 1954 e il 1957. 

Salter, tuttavia, in seguito disdegnò entrambi i suoi romanzi "Air Force" come prodotti della giovinezza "che non meritano molta attenzione". Dopo diversi anni di servizio nella riserva dell'aeronautica, nel 1961 si dimise completamente dall'incarico dopo che la sua unità fu richiamata in servizio attivo per la crisi di Berlino. 

Si trasferì a New York con la famiglia. Salter e la sua prima moglie Ann divorziarono nel 1975, dopo aver avuto quattro figli: le figlie Allan (1955-1980) e Nina (nata nel 1957), e i gemelli Claude e James (nati nel 1962). 

A partire dal 1976 ha vissuto con la giornalista e drammaturga Kay Eldredge. Hanno avuto un figlio, Theo Salter, nato nel 1985, e Salter ed Eldredge si sono sposati a Parigi nel 1998.

Salter si è dedicato alla scrittura cinematografica, prima come autore di documentari indipendenti, vincendo un premio alla Mostra del Cinema di Venezia in collaborazione con lo scrittore televisivo Lane Slate (Team, Team, Team). Ha scritto anche per Hollywood, pur disdegnandola. La sua ultima sceneggiatura, commissionata e poi rifiutata da Robert Redford, è diventata il suo romanzo, Solo Faces.

Scrittore molto apprezzato della narrativa americana moderna, Salter è stato critico nei confronti del proprio lavoro, avendo affermato che solo il suo romanzo del 1967, A Sport and a Pastime, si avvicina ai suoi standard. 

Ambientato nella Francia del dopoguerra, A Sport and a Pastime è un'opera erotica che coinvolge uno studente americano e una giovane francese, raccontata sotto forma di flashback al presente da un narratore senza nome che conosce a malapena lo studente, desidera la donna e ammette liberamente che la maggior parte della sua narrazione è frutto di fantasia. 

Molti personaggi dei racconti e dei romanzi di Salter riflettono la sua passione per la cultura europea e, in particolare, per la Francia, che egli descrive come una "terra santa secolare".

La prosa di Salter mostra l'apparente influenza di Ernest Hemingway e Henry Miller, ma nelle interviste con il suo biografo, William Dowie, Salter afferma di essere stato influenzato soprattutto da André Gide e Thomas Wolfe. 

La sua scrittura è spesso descritta dai recensori come "succinta" o "compressa", con frasi brevi e frammenti di frase, e il passaggio tra prima e terza persona, così come tra il tempo presente e passato. I suoi dialoghi sono attribuiti solo quando è necessario per chiarire chi sta parlando, altrimenti lascia che il lettore tragga deduzioni dal tono e dalle motivazioni. 

Il suo libro di memorie del 1997, Burning the Days, utilizza questo stile di prosa per raccontare l'impatto che le sue esperienze a West Point, nell'aeronautica e come pseudo-espatriato in Europa hanno avuto sul modo in cui ha visto i suoi cambiamenti di stile di vita. 

Sebbene sembri celebrare numerosi episodi di adulterio, in realtà Salter sta riflettendo su ciò che è accaduto e sulle impressioni che ha lasciato su di lui, proprio come la sua struggente reminiscenza sulla morte della figlia. 

Un verso de I cacciatori esprime questi sentimenti: "Non sapevano nulla del passato e della sua santità". 

Salter ha pubblicato una raccolta di racconti, Dusk and Other Stories, nel 1988. La raccolta ha ricevuto il PEN/Faulkner Award e uno dei suoi racconti ("Twenty Minutes") è diventato la base del film Boys del 1996. Nel 2000 è stato eletto membro dell'American Academy of Arts and Letters. Nel 2012, la PEN/Faulkner Foundation lo ha selezionato per il 25° PEN/Malamud Award affermando che le sue opere mostrano ai lettori "come lavorare con il fuoco, la fiamma, il laser, tutte le forze della vita al servizio della creazione di frasi che scintillano e fanno bruciare le storie"

Il suo ultimo romanzo, All That Is (qua sotto la traduzione italiana), è considerato il suo capolavoro. 

È morto il 19 giugno 2015 a Sag Harbor, New York.

In Italia l'editore Guanda sta pubblicando la sua intera opera. Che merita davvero di essere conosciuta. 

Fabrizio Falconi - 2022 



04/06/22

* La bellissima e infelice Assia Wevill, poetessa, musa e amante di Ted Hughes, il cui destino si intrecciò al suo e a quello di Sylvia Plath.*



Assia Wevill era nata a Berlino nel 1927 da una famiglia di origine tedesca, russa ed ebrea.
Di bellezza straordinaria, mischiò il suo destino in maniera imprevedibile a quello di Ted Hughes, che all'epoca era il marito di Sylvia Plath. La poetessa americana aveva sposato Hughes nel 1956 e aveva avuto da lui due figli. Il matrimonio durò ben poco. Appena sette anni dopo, la Plath si tolse la vita, a soli trent'anni, infilando la testa nel forno del suo appartamento.
Sulla strada di un matrimonio già di per sé molto problematico, era infatti comparsa anche Assia.
Per sfuggire alla Shoah, Assia da bambina era emigrata a Tel Aviv, ma a sedici anni fuggì a Londra con un sergente della RAF, che divenne il suo primo marito. Il secondo marito era invece stato un intellettuale, professore alla London School of Economics, mentre il terzo, il poeta canadese David Wevill, di otto anni più giovane, l'aveva conosciuto quando lui era ancora studente a Cambridge.
Dal matrimonio, contratto nel 1960, non nacquero figli. David aprì ad Assia le porte dei circoli letterari di Londra, dove ella poté fare la conoscenza, tra gli altri, del poeta Nathaniel Tarn, che diventerà suo intimo confidente durante la frequentazione con Hughes, con cui intraprese una relazione.
Nel 1961 Ted Hughes e Sylvia Plath diedero in affitto il loro appartamento di Londra ad Assia e David e si stabilirono a North Tawton, nel Devon, in una casa chiamata Court Green.
Fu durante una visita agli Hughes, nel maggio 1962, che tra Assia e Ted scoccò la scintilla. Tramite un abbozzo di poesia, che rievoca quella visita, sappiamo che a fine serata Hughes era già succube del fascino della Wevill; il mattino dopo era innamorato.
Forse perché nella morale hughesiana la salvaguardia dell'istinto animale era un'azione etica, Ted si lanciò a capofitto in una nuova storia, e dal luglio di quell'anno, lasciata a Court Green una Plath a conoscenza di tutto e per questo distrutta, si trasferì a Londra, dove cominciò a frequentare Assia regolarmente, inaugurando una relazione di dominio pubblico, con David Wevill al corrente di loro ma per nulla intenzionato al divorzio. Al momento del suicidio di Sylvia, nel febbraio 1963, Assia era incinta di Ted, ma abortì poco dopo.
I primi mesi successivi alla disgrazia, che la videro a fianco del vedovo, le diedero la possibilità di leggere "de visu" gli scritti lasciati dalla Plath, che se la ipnotizzarono, la ferirono anche per una buona misura; la base di quell'ossessione nei confronti della poetessa morta, che in Assia si manifesterà in comportamenti emulatori e di invidia, fino all'ultima tragedia, ha origine in questo periodo.
Passata la tempesta, il 13 marzo 1965, Assia diede alla luce Alexandra Tatiana Elise, detta "Shura": anche se ricevette il cognome da David Wevill, il vero padre era Hughes, e verso la fine dell'anno Assia lasciò definitivamente il marito per Ted, con il quale non si sposò però mai.
Assia che si trovò a rivaleggiare dal punto di vista creativo con la Plath, sentiva che non avrebbe mai potuto prendere il suo posto nella considerazione artistica di Ted e cominciò a soffrirne. Inoltre, incapace di sopportare la disapprovazione di cui era oggetto a Court Green da parte dei genitori di Hughes, Assia traslocò a Clapham, Londra, con la figlia, nell'autunno 1967.
Fin dai primi mesi del 1969, Assia dimostrò i sintomi di "grave depressione" per i quali aveva cominciato a prendere psicofarmaci.
Il 23 marzo 1969, sola e depressa, decise di porre fine alla propria vita, trascinando con sé la figlioletta di quattro anni. Dopo una telefonata a Ted, durante la quale, ricorda lui, non si dissero nulla in più del solito, Assia somministrò del sonnifero alla figlia, ingerendone successivamente anche lei, aiutandosi con del Whisky; girato il rubinetto del gas si distese poi, su un materasso trasportato presso la stufa, abbracciando Shura.
A sei anni dalla morte della Plath, la tragedia per Hughes si ripeteva, con circostanze simili e ancora più gravi.

Fabrizio Falconi - 2022

05/05/22

Quella volta che Bruce Chatwin fece ridere Jorge Luis Borges

 


E' la foto che documenta un incontro raro, tra due delle personalità più notevoli del Novecento letterario Bruce Chatwin e il grande Jorge Luis Borges. 

Nell'ottobre 1983 infatti, Chatwin fu intervistato per un talk show televisivo della BBC da Frank Delaney, e insieme a Bruce, c'erano anche Borges e Mario Vargas Llosa. 

Di quella storica registrazione, resta anche il ricordo di un curioso aneddoto.

Nello studio, nel momento in cui arrivò Borges, Chatwin disse di lui all'intervistatore:  'È un genio. non puoi andare da nessuna parte senza portarti dietro Borges. È come prendere lo spazzolino da denti"

Borges, sentendo questo, rispose divertito: "Che poco igienico!" -

C'era del resto un sicuro, grande timore reverenziale. Borges aveva 84 anni, mentre Chatwin, ancora giovanissimo, soltanto trentatré. 

31/03/21

Arriva la biografia di Philip Roth ed è subito polemica

 


"Philip Roth" di Blake Bailey, un volume che Roth aveva immaginato in qualche forma per più di 20 anni, esce il 7 aprile. 

Sempre disposto a provocare o amplificare una discussione, l'autore di "American Pastoral", "Sabbath's Theatre" e altri romanzi aveva pensato a una biografia sin da quando la sua ex moglie, l'attrice Claire Bloom, lo aveva descritto come infedele, crudele e irrazionale nel suo libro di memorie del 1996 "Leaving a Doll's House"

Roth era determinato a far emergere la sua verità, ma voleva che qualcun altro lo facesse

Ha reclutato per primo Andrew Miller, un professore di inglese e nipote del drammaturgo Arthur Miller, ma è diventato così insoddisfatto di quello che credeva fosse l'ambito ristretto di Miller che i due hanno avuto un pesante diverbio

Così, nel 2012, Roth ha puntato su Bailey, concedendogli pieno accesso ai suoi documenti, ai suoi amici e, l'ostacolo più alto, all'autore stesso. Bailey inoltre avrebbe avuto l'ultima parola.

"Philip ha capito qual era l'accordo", ha detto Bailey all'Associated Press, "e per lo più lo ha rispettato".

Nei sei anni successivi, fino alla morte di Roth nel 2018, lui e Bailey sono stati collaboratori, amici e talvolta combattenti. 

Come scrive Bailey nei ringraziamenti del libro, il loro tempo insieme è stato anche "complicato, ma raramente infelice e mai noioso". 

A un certo momento, Roth poteva scherzare o sfogliare allegramente un album di foto di vecchie amiche - ce n'erano molte - e il momento dopo poteva ribollire per i presunti crimini di Bloom. 

L'autore britannico Edmund Gosse una volta definì una biografia come "il ritratto fedele di un'anima nelle sue avventure attraverso la vita"

Il libro di Bailey è più di 800 pagine e avrebbe potuto durare centinaia di più.

Roth ha completato più di 40 libri e ha vissuto molte vite in 85 anni

Bailey assume i ruoli di critico, confessore, psicologo e persino consulente matrimoniale. 

Traccia la vita di Roth dalla sua infanzia stabile ma inibitoria della classe media a Newark, nel New Jersey, agli anni adulti di disciplina letteraria e libertà personali, e ai suoi ultimi anni di pensionamento autoimposto. 

Il "vero" Philip Roth è stato una ricerca per innumerevoli critici - e lo stesso autore - sin dal suo bestseller "Portnoy's Complaint" del 1969 ha lasciato molti lettori a credere che Roth e il suo appassionato narratore fossero la stessa cosa. 

Così era e non era. 

"Mi aspettavo battute insipide, oscenità e così via", dice Bailey del tempo passato con Roth. "Ciò che mi ha sorpreso è stata l'essenziale benevolenza dell'uomo.

Poche biografie letterarie sono state così attese. Il libro di Bailey è un punto d'incontro tra uno degli autori più tempestosi e dibattuti del mondo e uno dei suoi biografi più celebri, le cui opere su John Cheever e Richard Yates sono state presentate come modelli di prosa elegante, critica incisiva, ricerca approfondita e un disponibilità ad affrontare il peggio nei suoi sudditi senza condannarli. 

"Pensavo che Blake avesse fatto un lavoro brillante, incredibilmente completo, intelligente e amorevole con mio padre", ha detto in una recente e-mail all'Associated Press Susan Cheever, la figlia di John Cheever. "La biografia è una strada difficile, tutti gli adattamenti del contesto e del personaggio, ma ho pensato che avesse bilanciato tutto perfettamente e penso che sia un segno del genio di Philip che abbia scelto anche Blake."

La maggior parte delle prime recensioni, da Kirkus a The Atlantic, sono state positive. Claire Bowden, scrivendo su The Sunday Times, ha elogiato Bailey per aver documentato la lotta di Roth "per essere visto come un romanziere serio e non un demone del sesso, che combatte le sue ex mogli, i critici e il suo corpo fallimentare". 

David Remnick del New Yorker, che ha conosciuto Roth, ha elogiato Bailey come "industrioso, rigoroso e senza scrupoli". 

Altri erano più critici. 

Parul Seghal del New York Times ha trovato Bailey più interessato al pettegolezzo che alla letteratura e ha definito il libro "un'apologia tentacolare per il modo in cui Roth ha trattato le donne, dentro e fuori dalla pagina". 

Anche Laura Marsh di The New Republic ha trovato Bailey troppo indulgente nei confronti dei vizi di Roth, dai suoi rapporti con le donne al suo risentimento contro i critici, e ha concluso che il risultato "non è una vittoria finale della discussione, come Roth avrebbe potuto sperare". 

Bailey dice che il suo scopo era quello di seguire il motto di Roth come autore - di "far entrare il repellente" e riconoscerlo come un "essere umano complicato e disordinato". 

È probabile che il biografo saluti "Pastorale americana" quanto biasimare opere minori come "Il grande romanzo americano" e "L'umiltà". 

Nel libro di memorie di Roth "The Facts", il suo alter ego immaginario Nathan Zuckerman lo ha rimproverato definendolo "il meno completamente interpretato di tutti i tuoi protagonisti". 

Bailey non è mai stato meno che affascinato, anche quando è atterrito. Roth "non aveva un solo osso monogamo nel suo corpo", disse, poteva serbare rancore come se fossero cimeli di famiglia ed era spesso fatalmente fuorviante nel suo giudizio sulle persone.

Ma c'era un lato di Philip che era del tutto ammirevole. Aveva una vena gigante di pietà filiale verso (Saul) Bellow e (Alfred) Kazin e vari scrittori che ammirava", ha aggiunto Bailey. "Se un amico di Philip fosse stato in difficoltà, lui si sarebbe messo al telefono e avrebbe iniziato a organizzare il supporto, assicurandosi che il suo amico potesse pagare le spese mediche".

"Era un uomo adorabile in molti modi." 

I bambini raramente crescono sognando di diventare un biografo letterario, e Bailey, nativo di Oklahoma City e laureato alla Tulane University, sperava per la prima volta di scrivere narrativa.

Ha completato una manciata di romanzi, tra cui uno intitolato "Bourbon In the Bathtub", ma alla fine si è reso conto che era più a suo agio nello scrivere saggistica e nel lasciarsi fuori dalla storia. Le sue ispirazioni includono il biografo britannico Lytton Strachey, che secondo Bailey considera l'umanità "ridicola, ma anche commovente". 

Le biografie di soggetti viventi _ almeno viventi all'inizio del progetto _ hanno una storia lunga e travagliata. 

Possono andare dalle valutazioni non autorizzate di Kitty Kelly di Frank Sinatra e Nancy Reagan a innumerevoli agiografie in cui il soggetto ha l'ultima parola sul manoscritto. 

Bailey ha contattato Roth su suggerimento di James Atlas, il cui libro su Bellow è spesso citato come un avvertimento che i biografi potrebbero arrivare a non amare i loro soggetti. 

 Alla domanda se la morte di Roth lo facesse sentire più libero di scrivere a suo piacimento, Bailey ha risposto che Roth "sapeva che il peggio (su di lui) stava arrivando" nel libro, citando le feroci molestie di Roth nei confronti di un amico della figlia di Bloom e la sua relazione extraconiugale con una donna identificato come "Inga"

Bailey ha ricordato un incontro con Roth pochi mesi prima della sua morte, nell'appartamento dell'autore a Manhattan. Roth era esausto, riusciva a malapena a stare in piedi, ed era arrabbiato. 

"Continuavo a fargli domande a cui non voleva rispondere." Non è nel mio interesse rispondere a queste domande, quindi devi cambiare argomento "," Bailey ricorda di aver detto Roth. "E nel bel mezzo di questo, ha detto, 'Sai, questo è il meglio che ho sentito da settimane, tu (imprecazione)'! E scoppiò a ridere."

23/06/20

Libro del Giorno: "E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto" di John Berger




Dispiace che anche un editore serio come Il Saggiatore sia assai deludente quando presenta il nuovo libro di John Berger come una "intensa lettera d'amore di un grande narratore", annunciandolo così nella quarta di copertina e ripetutamente sottolineandolo nella bandella, allo scopo, immagino, di catturare più lettori. 

In realtà il libro di Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) - come altri suoi - è un testo completamente anomalo, in bilico su diversi generi letterari, saggio filosofico soprattutto, memoir, poesia, auto-fiction. I temi affrontati sono quelli filosofici esiziali, dell'esistenza

L'amore vi ha una parte del tutto minore, trascurabile e semmai funzionale soltanto nella scelta del linguaggio fortemente evocativo e poetico di Berger.

John Peter Berger del resto è stato un personaggio atipico: critico d'arte, scrittore e pittore. Il suo romanzo G. vinse il Booker Prize e il James Tait Black Memorial Prize nel 1972, ma la sua formazione è pittorica: quando nel dopoguerra si iscrisse alla Chelsea School of Art e alla Central School of Art di Londra, esponendo in diverse gallerie londinesi sul finire degli anni '40.

Mentre lavorava come insegnante di disegno (dal 1948 al 1955), Berger divenne poi un critico d'arte, pubblicando svariati saggi e recensioni. Il suo umanismo marxista e le sue convinte opinioni sull'arte moderna lo hanno reso una figura controversa sin dall'inizio della sua carriera.

E solo recentemente si è pienamente apprezzata la sua notevole produzione letteraria, difficilmente identificabile in un genere specifico.

Questo libro, pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1984, è assai prezioso: un compendio di illuminazioni, suddivise in una dimensione verticale (il tempo) e orizzontale (lo spazio).   

Ricordi di viaggi, visioni estatiche, ma anche e soprattutto riflessioni profonde sul passato e sul senso dell'esistenza che (ci) trasforma ogni cosa che viviamo, mentre la viviamo, in qualche altra cosa. 

Un Taccuino intimo intervallato da brevi testi poetici dello stesso Berger, o di altri poeti come Anna Achmatova o Evgenij Vinokurov, oltre a fulminanti incursioni nelle opere amatissime di Van Gogh,  di Vermeer o di Caravaggio.

John Berger
E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto
Edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti
Edizioni il Saggiatore, 2020
pp. 152, Euro 18.00

07/05/20

Libro del Giorno: "La maschera di Dimitrios" di Eric Ambler



Eric Clifford Ambler, nato a Londra nel 1909 e morto sempre a Londra nel 1998, è stato un geniale  scrittore e sceneggiatore britannico, autore di alcune fra le più famose spy story della letteratura gialla. Tentò la fortuna anche a Hollywood, dopo la seconda guerra mondiale, in cui servì nella truppe inglesi per sei anni occupandosi di riprese sui luoghi di battaglia. 

Ma visto che l'esperienza americana non fu esaltante, tornò in Europa nel 1958 a scrivere romanzi, sempre di ambientazione spionistica o thriller, genere di cui fu il nobilitatore insieme a Graham Greene e William Somerset Maugham.

La maschera di Dimitrios è uno dei suo gialli migliori, dalla trama intricata e ricca di suspence

L'azione ha inizio a Istanbul, intorno alla metà degli anni Trenta. Nel corso di un ricevimento Charles Latimer, giallista inglese di successo, viene avvicinato dal più imprevedibile degli ammiratori, il colonnello Haki – alto ufficiale dei servizi segreti e scrittore di suspense alle prime armi. La trama che il colonnello sottopone a Latimer, e che vorrebbe che quest’ultimo sviluppasse in proprio, è rozza, fiacca, artificiosa.

Ma poi Haki allude alla vicenda «scombinata, non artistica», priva di «moventi occulti» di Dimitrios Makropoulos, il più grande criminale europeo di quegli anni, coinvolto in ogni delitto compreso fra il traffico di eroina e l’assassinio politico.

E così, da alcuni indizi contraddittori disseminati in una conversazione apparentemente casuale, ha inizio l’inquietante «esperimento investigativo» di Latimer, che inseguirà le tracce di Dimitrios fra le rive dell’Egeo, i quartieri turchi di Sofia e i boulevard di Parigi, trasformandosi via via da elegante, distaccato scrutatore di fatti in protagonista di un romanzo a tinte forti.

Perfetta fusione di suspense e atmosfera, sottile analisi del funzionamento di ogni investigazione – letteraria o poliziesca che sia –, questo libro, per molti il primo a essere evocato quando si parla di Ambler, è anche lo straordinario documento di un’epoca in cui la civiltà e la mente dell’uomo europeo non potevano non vedersi riflesse in uno specchio oscuro, inafferrabile e sinistro: i Balcani.

La maschera di Dimitrios è stato pubblicato per la prima volta nel 1939.


Eric Ambler
La maschera di Dimitrios
Traduzione di Franco Salvatorelli
Adelphi, 2000
pag. 9.30 euro

03/03/20

Libro del Giorno: "Onori" di Rachel Cusk




L'Editore Einaudi manda in libreria l'ultimo episodio della trilogia, con la quale la scrittrice Rachel Cusk, 53 anni, nata in Canada, ma inglese di adozione, ha compiuto una piccola grande rivoluzione nei canoni classici della narrativa e del romanzo. 

Cusk infatti, dopo una serie di romanzi e saggi pubblicati con alterne fortune, si è presa una pausa, ripensando completamente il suo modo di scrivere e inaugurando nel 2015 una trilogia di romanzi brevi iniziata con Resoconto (in orginale Outline), cui ha fatto seguito Transiti (Transit), nel 2017 e ora l'ultimo, Onori (Kudos), pubblicato in Inghilterra nel 2019. 

In cosa consiste la novità di Cusk?

Innanzitutto nel suo stile, di alta, o altissima qualità. Nessuna frase di quelle scritte da Cusk è mai banale. Ogni frase anzi, dei suoi densi racconti, rivela una sorpresa, terminando quasi sempre nel modo opposto - o diverso - a quello che si aspetterebbe il lettore. 

Questo tono spiazzante, si riflette nella struttura stessa dei 3 romanzi, che sono singolari perché non ospitano affatto una vera trama, nel senso tradizionale del termine. 

Il centro della narrazione è infatti la scrittrice stessa, un alter ego della stessa, di cui conosciamo soltanto in nome Faye. 

Il punto di vista quindi è sempre quello soggettivo di Faye, ma la "trama" è intessuta, in Onori, come negli altri due romanzi, degli incontri, delle persone che incontrano la scrittrice, che interagiscono con lei, e che decidono di confessare le loro vite, o parti di esse, ad un ascoltatore ingiudicante; senza soluzione di qualità, una via l'altra. 

In Onori, una donna in viaggio in aereo, per raggiungere una località della vecchia Europa dove è previsto un convegno a cui dovrà partecipare, ascolta un estraneo di fianco a lei mentre parla del suo lavoro, della famiglia, e dell'angosciosa notte precedente alla partenza, trascorsa a seppellire il suo cane. 

Sbarcata e tra le strade in un caldo afoso, tra pause caffè e lunghe attese di navette che fanno la spola tra il ristorante alla sede dei meeting, incontra colleghi, giornalisti, organizzatori culturali, stewards. 

Da queste sue conversazioni - che sembrano e sono riempitivi, pause di tempi morti, dove sembra non succedere nulla esteriormente - emerge un quadro variegato, lieve e profondo, lacerante e confuso di una umanità scissa tra ciò che vorrebbe sembrare e ciò che si trova a dover essere.

Una bella sorpresa e di grande qualità, una scrittura limpida e neutra, ma non priva di compassione, che ricorda la lezione formale di J.M. Coetzee e che ha già ricevuto elogi e premi in tutto il mondo. 

28/02/20

Smartphone e ragazzi: Le parole di fuoco di Zadie Smith



Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni (ah, ottimista! nota mia), dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. 

Ora resisto, ma non c'è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. 

Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un'intera società, un governo e un'istituzione privata mi dicessero: "A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall'eroina." 

Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà.

Zadie Smith, intervista di Luca Mastrantonio, il Corriere della Sera, Sette, 21.02.2020

15/02/20

Libro del Giorno: "Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto" di Elizabeth Smart



E' un breve romanzo sul tormento e l'estasi dell'amore.  L'unico romanzo pubblicato da Elizabeth Smart, pubblicato in Italia anni fa dal Saggiatore e ripubblicato, molto recentemente dall'editore SE Assonanze, nella traduzione di J. Rodolfo Wilcock, con testo a fronte e una fulminante postfazione di Cesare Garboli. 

E' una vicenda molto semplice - e simile a quella di molte altre storie d'amore - ma raccontata in forma poetica, ed estrema, dando largo spazio agli impulsi emotivi e agli slanci incontrollabili della follia amorosa, che rende fuori da tutto, con continui riferimenti alle parole delle Sacre Scritture. 


Forse nessuno legge Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto, romanzo di Eli­zabeth Smart, uscito in Italia il mese scorso (novembre 1971) presso «Il Saggiatore», tradotto da quel traduttore ineguagliabi­le che è Rodolfo Wilcock. 

Forse nessuno lo legge. 

I giornali, che io sappia, non ne hanno parlato; se ne hanno parlato, ne hanno certo parlato poco. D'altron­de penso che in Italia pochi abbiano mai sentito nominare Elizabeth Smart. Io ignoravo la sua esistenza fino a qualche giorno fa, quando un mio amico mi ha detto di leggere Sulle fiu­mane perché era bellissimo. Difatti è bellissimo. 

Ora su Elizabeth Smart so quanto sta scritto nella prefa­zione. È nata in Canada. È oggi sulla quarantina. Ha sposato un poeta inglese e vive nell'Essex. 

Sulle fiu­mane l'ha scritto e pubblicato nel '45, in Inghilterra. È stato ristampato nel '66. Dopo Sulle fiumane non ha scritto altro. Sulle fiumane è un romanzo complesso e difficile. Questo all'inizio mi ha respinto. Io non amo i roman­zi difficili: è forse una mia limitazione. Ho sempre una gran paura che siano fintamente difficili, che l'oscurità sia creata di proposito per nascondere la povertà dell'ispirazione. 

Non mi piace quando chi scrive arruf­fa e aggroviglia di proposito il tempo e i fatti. Desi­dero che in un romanzo tutto sia disteso, aperto e lim­pido. Desidero sapere dove mi trovo, come sono e chi sono le persone, desidero sapere subito cosa sta suc­cedendo. 

Per un poco, leggendo Sulle fiumane, non mi orien­tavo, e ho creduto di trovarmi in mezzo a una vicenda fintamente oscura. Ho però provato a un certo punto una sensazione di estrema chiarezza. L'oscurità era qui originata non da un proposito ma da un'esigenza assoluta e vitale.

Nel '45, Smart era una ragazza di diciotto o vent'anni. Doveva essere una ragazza identica a quella del suo ro­manzo e doveva essere appena emersa da una storia iden­tica, Questo può sembrare un particolare secondario. Però non è tanto secondario. Leggendo questo romanzo abbiamo la sensazione assai strana di trovarci nel cuore di una confessione veritiera, bruciante e ossessiva, ma di respirare un'aria cristallina e gelida, come se chi racconta giacesse ancora in fondo a una palude e nello stesso tem­po contemplasse il mondo e se stesso da cime altissi­me e coperte di ghiacci. 

Questo romanzo, lo poteva scrivere solo una donna. Lo poteva scrivere solo una donna e solo la ragazza che ci appare davanti in queste pagine. 

Impossibile pensare che questa ragazza abbia inventato una sola sillaba. 

Raramente in un romanzo è così essenziale il fatto di essere scritto in prima persona. Pure l'identità femmini­le, onnipresente in ogni riga, e l'accento inconfondibi­le di autobiografia reale, non sono qui una limitazione. Pensiamo di solito che, quando uno scrive, non do­vrebbe essere né uomo, né donna, e pensiamo che l'au­tobiografia dovrebbe essere un fatto incidentale e lasciato alle spalle. 

Ma in Smart la natura femminile e l'accento autobiografico sono inseparabili dalla sua fi­sionomia intima, così come in alcuni scrittori il dialetto e la patria d'origine sono inseparabili dalla loro fisio­nomia e invece di immiserirli e circoscriverli si alzano con essi e li accompagnano nella loro essenza universale. 

Il fatto che Smart sia una donna e parli di sé è inseparabile dal suo scrivere così come è inseparabile da Italo Svevo la città di Trieste e nel suo linguaggio un fondo di dialetto triestino. 

Sulle fiumane ha una vicenda tenue, niente affatto insolita. La vicenda appare e scompare in un intrico di immagini. Smart, più che raccontarla, sembra inse­guirla. I personaggi non sono enunciati, commentati o descritti, ma li illuminano rapidi lampi.

Una ragazza ama un uomo sposato con un'altra donna e omosessua­le, Per un'estate, i tre se ne stanno uniti sulle coste della California, avviluppati nella loro vicenda privata, mentre in una Europa remota ma incombente infuria la guerra. 

Nelle sventure che colpiscono le collettivi­tà umane, le sventure dei singoli non diventano più inconsistenti ma più crudeli, le dilaniano dolori lonta­ni, un caso brutale e distratto le calpesta e le spinge alla cieca nella fossa comune. 

L'uomo e la ragazza se ne vanno insieme. Nella ragazza, la suprema felicità dell'amore e i presagi di un distacco irrimediabile e definitivo sono confusi e congiunti, così come sono confusi e congiunti nel suo spirito i paesaggi ricordati o percorsi, i sordidi alber­ghi, le spiagge solari, le squallide trattorie e i profili spettrali delle grandi città

Passato e presente si incro­ciano e si confondono, il futuro è una forma incredula non fioriscono decisioni o speranze ma il pensiero incontra soltanto presagi sibillini di devastazione per i destini dei singoli come per l'intiero universo. 

Ai confini dell'Arizona, l'uomo e la ragazza vengono arrestati. La ragazza è incinta. L'uomo tenta di uccidersi. Li­berati, l'uomo torna dalla moglie, la ragazza dai genitori

La ragazza riparte in cerca dell'uomo, nel corso del viaggio rinuncia a rivederlo mai, non c'è spiegazione, i nostri atti non hanno sempre una spiegazione o ne hanno infinite e incoerenti ma strazianti e irrevocabili, alla Stazione Centrale di New York si mette seduta e piange. 

È noto che ci sono due modi di scrivere i romanzi. Un modo è costruire, architettare, fare calcoli nella propria testa come in un pallottoliere, spostare luoghi e persone pesanti come macigni. Chi scrive si sente forte, stanco, prepotente, paziente, autoritario, aggres­sivo, virile. Si sente a pezzi come se avesse fatto un trasloco. Nella sua testa, le sue faticose costruzioni hanno una consistenza ferrea e pungente. Si sente la testa piena di chiodi e di spilli. 

 L'altro modo è non costruire nulla, non architettare nulla e restare se stesso. Chi scrive non si sente forte ma debole, languido e molle. Spera che la poesia e la vita fluiscano dal suo languore. La sera non si sente stanco, ma nervoso. Non si sente né paziente né prepotente ma attonito e stupefatto. Non si sente la forza nemmeno di strappare un filo d'erba. Ha solo voglia di starsene buttato per terra a piangere. Chi scrive sa che dovrà scegliere fra l'ordine e il disordine. Oggi noi di solito scegliamo il disordine. L'im­pulso a costruire e architettare in ordine e in armonia con noi stessi e con gli altri sembra scomparso dal mon­do. Abbiamo perduto le forze e ci sentiamo sopraf­fatti e infelici

Ci sentiamo vittime e le vittime non costruiscono. I romanzi che oggi scriviamo, sempre o quasi sempre, sono scritti nel disordine e in un lungo sfogo di lagrime

A volte qualcuno, fra le lagrime, afferra del mondo circostante qualche lembo reale. Non ha compagni o non li vede intorno a sé e non indirizza la sua angoscia ad anima vivente. 

Tutt'al più chiede un poco di attenzione ai rari passanti che si sof­fermano per un attimo e vanno oltre. 

Smart ha scritto il suo romanzo nel secondo modo. L'idea di costruire era quanto mai remota dal suo spi­rito. La ragazza che dice «io» rovescia la sua confes­sione in un lungo, doloroso soliloquio. 

Non sembra destinare la sua storia a nessuno. Scrive il suo roman­zo come uno che getta un messaggio in mare in una bottiglia. Sulle fiumane è la storia d'un'ossessione amorosa. 

Nessuno quanto una persona in preda a un'ossessio­ne amorosa è in genere meno in grado di dare parole e immagini alle vicende nelle quali si dibatte il suo pensiero. Le ossessioni amorose non hanno parole ma solo gemiti inarticolati. Gli occhi troppo annebbiati dalle lagrime non vedono il mondo. Vi gettano solo uno sguardo allucinato e distratto. La poesia invece non è mai né distratta, né allucinata, né annebbiata, si separa dalle ossessioni e si libera dalle catene che la imprigionano a terra. 

La cosa strana in questo romanzo è che vi sentia­mo ancora i pesi delle catene, la nebbia delle lagri­me, il disordine del dolore e il fluire liquido e transitorio delle giornate vissute e patite e non lasciate alle spalle. 

Ma su tutto si è stesa la struttura lineare, lim­pida, solida come le rocce e misteriosamente pura, ar­moniosa e impersonale dell'arte

Natalia Ginzburg
Articolo tratto dalla raccolta Vita immaginaria, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1974


Elizabeth Smart
Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto
Traduzione J. Rodolfo Wilcock
SE - Assonanze, Milano 2019
pag. 151 - Euro 20 

03/01/20

Torna alla luce dopo 60 anni il carteggio tra T.S. Eliot e la sua musa, Emily Hale


  
T.S. Eliot con Emily Hale nel 1936

 Lui le aveva ordinato di bruciare le lettere

Lei, l'amica di sempre, aveva disobbedito. E cosi' oggi, dopo esser rimasta per 60 anni chiusa in dodici scatoloni negli archivi della Princeton University Library, la corrispondenza tra il poeta premio Nobel T.S. Eliot e la sua confidente e musa Emily Hale vedra' finalmente la luce

Per Anthony Cuda, studioso dell'autore di "La Terra Desolata", "e' forse l'evento letterario del decennio".  

Dagli scatoloni sono emerse oltre mille lettere datate tra 1930 e 1956 che promettono di gettare luce inedita sulla vita e il lavoro di Eliot: su opere ad esempio come "Il libro dei gatti tuttofare" portato a Broadway da Andrew Lloyd Webber con il musical "Cats". 

Il focus è ovviamente sulla relazione con Emily, rimasta al centro di congetture per decenni e che ha ispirato romanzi come "The Archivist" di Martha Cooley, ma non solo: come ha notato Princeton, sorprese potrebbero arrivare "sulla conversione religiosa del poeta, il suo atteggiamento verso le donne, le sue decisioni alla casa editrice Faber and Faber e il loro impatto sulla cultura del Regno Unito"

Era stata la Hale a donare l'archivio a Princeton con la condizione che le lettere restassero segrete fino a 50 anni dalla morte dell'ultimo dei loro autori: lei nel caso specifico, scomparsa nel 1969, mentre Eliot l'aveva preceduta di quattro anni. 

Si erano conosciuti ragazzi a Cambridge, Massachusetts, nel 1912 quando Eliot studiava a Harvard e lui, secondo un saggio pubblicano nel 2002 sul New Yorker, si sarebbe segretamente innamorato dell'intellettuale bostoniana. 

L'amicizia era rinata nel 1927, dopo la crisi del primo matrimonio del poeta con la britannica Vivienne Haigh-Wood, mentre la Hale, che non si era mai sposata, aveva continuato a insegnare teatro in universita' americane tra cui lo Scripps College in California

Secondo Cuda, la relazione con Emily doveva essere "incredibilmente importante" e la corrispondenza contenere "dettagli profondamente intimi", altrimenti non si capisce perche' Eliot fosse cosi preoccupato per la pubblicazione. 

Le lettere cominciano infatti dopo la fine del primo matrimonio con Vivienne, una donna instabile morta nel 1947 in manicomio. Studiosi hanno notato come "Burnt Norton", il primo poema della serie "Quartetti" che prende il nome da una casa in Inghilterra visitata con la Hale, e' significativo per alcuni versi che suggeriscono opportunita' mancate e quel che avrebbe potuto essere e non e' stato. 

15/10/19

Libro del Giorno: "Bugie e altri racconti morali" di J.M.Coetzee




Il nuovo libro di J.M. Coetzee appena pubblicato dai Supercoralli di Einaudi è una raccolta di sette racconti sette (alcuni consistenti di pochissime pagine), che si riduce a una novantina di pagine e rappresenta probabilmente un bottino piuttosto modesto (considerando anche il prezzo del volume, 15 euro) per i numerosi appassionati della letteratura del Premio Nobel sudafricano (ricevuto nel 2003). 

E però, c'è da dire subito, la qualità di Coetzee, la sua qualità di scrittura e la sua qualità morale (visto che egli stesso definisce nel titolo della raccolta questo appellativo per i sette racconti) è sempre altissima.  Anzi, il tono estremamente distillato di questi racconti, ha il pregio di rendere ancora più nitida, essenziale, la prosa di Coetzee. 

Di cosa parlano questi racconti ?

Una donna che va e torna dal lavoro in bicicletta, ogni giorno facendo la stessa strada, avverte tutta la ferocia del mondo nel ringhiare di un cane che puntuale la minaccia. Provata da questa quotidiana, ingiustificata esplosione di violenza decide di bussare alla porta dei padroni del cane: ma negli esseri umani troverà una violenza ancora piú profonda e impenetrabile di quella animale. Una madre e nonna, in cui i lettori di Coetzee riconosceranno Elizabeth Costello, decide nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno di accogliere figli e nipoti con un taglio alla moda e i capelli tinti di un biondo sgargiante. Poi ancora Elizabeth, qualche anno piú avanti, che vive ritirata in una casa nella campagna spagnola. Sola con i suoi gatti e l’amara consapevolezza che a regolare la vita non sia tanto l’amore quanto il dovere. E infine suo figlio, che la va a trovare per cercare di farle accettare la verità ultima, quella da cui, a un certo punto, non potrà piú nascondersi… 

Sette storie esemplari dunque, che hanno l’asciuttezza della parabola e l’intensità della rivelazione, J. M. Coetzee affronta tutti i temi della sua letteratura: il rapporto tra l’umano e l’animale, l’ipocrisia che cela l’ingiustizia, l’universale bisogno di perdono. 

Sono «racconti morali» perché non sono mai moralisti, e alla consolazione di una «morale della favola» oppongono sempre il turbamento del dubbio

03/09/19

Il Libro del Giorno: "Due occhi azzurri" di Thomas Hardy



Ci sono romanzi considerati minori di grandi, assoluti scrittori che valgono assai di più di molti dei romanzi maggiori di una grande quantità di autori contemporanei. 

E' il caso di A Pair of Blue Eyes, scritto da Thomas Hardy nel 1872, e uscito a puntate tra quell'anno e il seguente, fino a luglio 1873. 

Si trattava del terzo romanzo pubblicato di Hardy e del primo non pubblicato in forma anonima alla sua prima pubblicazione. 

Il libro descrive il triangolo amoroso di una giovane donna, Elfride Swancourt, e dei suoi due pretendenti di origini molto diverse

Stephen Smith è un giovane socialmente inferiore ma ambizioso che la adora e con la quale condivide le stesse origini di campagna. 

Henry Knight è il rispettabile, affermato, uomo più anziano che rappresenta la società di Londra. 

Sebbene i due siano amici, Knight non è a conoscenza del precedente collegamento di Smith con Elfride

Elfride si ritrova coinvolta in una battaglia tra il suo cuore, la sua mente e le aspettative di coloro che la circondano: i suoi genitori e la società

Quando il padre di Elfride scopre che il suo ospite e candidato per la mano di sua figlia, l'assistente dell'architetto, Stephen Smith, è figlio di un muratore, gli ordina immediatamente di andarsene. 

Giunge dunque sulla scena Knight, che è un parente della matrigna di Elfride, il quale si innamora a tal punto, ignorando del tutto i precedenti trascorsi della ragazza, da proporre a Elfride di sposarla. 

(spoiler

Elfride, per disperazione, sposa un terzo uomo, Lord Luxellian. La conclusione trova entrambi i pretendenti che viaggiano insieme verso Elfride, entrambi intenti a reclamare la sua mano, e non sapendo né che è già sposata o che stanno accompagnando il suo cadavere e la sua bara mentre viaggiano.

Il romanzo è denso di riferimenti autobiografici relativi ad Hardy e la sua prima moglie Emma Gifford e, in pieno trionfante clima vittoriano, offre un esempio del pessimismo gotico dello scrittore, della fallibilità dei sentimenti umani, della illusorietà delle passioni e della incapacità di tutti, uomini e donne, di essere padroni del proprio destino.  E' estremamente moderna la confusione psicologica dei personaggi che si muovono sul teatro della lugubre campagna inglese, affacciata sulle estreme scogliere atlantiche. E' grandiosa la capacità di alternare la pura narrazione evolutiva - con colpi di scena che tengono sempre desta l'attenzione del lettore fino all'ultima pagina - alle profonde notazioni introspettive delle inconsistenti passioni dei personaggi, che si dimenano senza posa - e senza apparente scopo - come sotto la lente di ingrandimento di un entomologo. 

Fabrizio Falconi