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30/08/21

Il Libro del Giorno: "Grande Sertao" di Joao Guimaraes Rosa

 


Da tempo giravo intorno a quello che viene unanimemente considerato il capolavoro probabilmente massimo della letteratura sudamericana, un po' intimorito. 

Il paragone con l'Ulisse di Joyce - di cui Grande Sertao  viene considerato a maglie larghe l'equivalente latino - comportava il misurarsi con una lettura impegnativa. 

Lo è stato. 

Grande Sertao è un libro mirabile ma difficile, nel quale bisogna entrare gradatamente, lasciandosi coinvolgere dal suo flusso narrativo ininterrotto, che si sviluppa nel corso di 500 densissime pagine, nelle quali manca del tutto un qualsiasi riferimento a paragrafi, capitoli o parti.  In cui perfino i capoversi sono assai rari. In cui anche i dialoghi sono quasi sempre inseriti direttamente dentro il  magma del racconto, il quale ha una unica voce recitante in un tempo sospeso e non definito storicamente: quella dell'avventuriero Riobaldo, conosciuto anche come Tataranà nella prima parte del libro e come Urutù Bianco nella seconda parte, il quale si rivolge ad una non definita 'vossignoria', la cui identità fino all'ultima pagina, non verrà mai svelata. 

João Guimarães Rosa, nato nello stato brasiliano del Minas Gerais, nel 1908 e morto a  Rio de Janeiro, nel 1967, lavorò incessantemente a Grande Sertao per un decennio, che costituisce una opera-mondo:  narra la storia di due personaggi Riobaldo, appunto, il narratore, e Reinaldo detto Diadorim.

Diadorim amico d'infanzia di Riobaldo è il figlio di Joca Ramiro, un capobanda di jagunços, avventurieri che si spostano continuamente lungo le immensità del territorio brasiliano, guerreggiando contro bande nemiche, innamorandosi, tra continue avventure e sparatorie. 

Riobaldo tesse la storia della sua vita in un discorso di scoperta e autoconoscenza, scoprendo il mondo del sertão; si rivela come se dicesse il sertão sono io per identificarsi. In queste pericolose traversie, Riobaldo confronta le forze del bene e del male, incorporando nel flusso della memoria il filo della sua vita che non segue un racconto lineare. 

Il rapporto con Diadorim, alter-ego conturbante del protagonista, con i capi sotto i quali gli tocca combattere, quello con Otacilia, una lontana innamorata, con i fazenderos, esasperati dalle tirannie dei capibanda locali, ma soprattutto con il Sertao, vera anima vivente del racconto. Il Sertao, con la sua natura selvaggia e senza freni, con i suoi animali, i silenzi, le imboscate, le piogge torrenziali, il sole che spacca le pietre, è il grande teatro sul quale si agita la vita convulsa e scellerata di Riobaldo, all'insegna della ricerca della propria vera identità.

Un'opera magna e stupefacente che stordisce e lega il lettore pagina dopo pagina, trasportandolo in un mondo surreale e lontano, senza tempo.

Più che a Joyce, in realtà, si pensa spesso a Cervantes. 

Un grande libro, che resta. 

Fabrizio Falconi 


João Guimarães Rosa 

Grande Sertao

Traduttore: Edoardo Bizzarri 

Feltrinelli Universale economica Edizione: 14 Anno edizione: 2017 

Pagine: 499 p., Euro 2017 


17/04/21

Elsa Morante: Esce in libreria la attesissima biografia scritta da De Ceccatty: "Una vita per la Letteratura"




«La vita privata di uno scrittore è pettegolezzo; e i pettegolezzi, chiunque riguardino, mi offendono»: così Elsa Morante in un’intervista concessa a Enzo Siciliano nel 1972.

Una lapidaria affermazione, che René de Ceccatty - nato a Tunisi nel 1952, narratore e drammaturgo, è già autore di importanti saggi letterari su Moravia e Pasolini - non manca di citare nelle pagine di questo libro per mostrare quanto sia arduo il compito del biografo se ha come oggetto la vita di una scrittrice che», come scrive Sandra Petrignani nell’introduzione, «ha più di una volta depistato i curiosi, mescolando le acque su fatti e date della propria esistenza».

Ogni esperienza vissuta è, com’è noto, ben poca cosa rispetto alle ambizioni della letteratura, che non possono essere mai ricondotte ai meri fatti di un’esistenza. 

Tuttavia, se la biografia è anch’essa un genere letterario, illuminare l’esistenza di uno scrittore non ha nulla a che fare con il pettegolezzo, ma con quel punto oscuro tra la vita e la forza dell’immaginazione che è il luogo proprio della letteratura.

È quanto fa René de Ceccatty in questo libro quando, senza alcun timore, si avventura nell’infanzia di Elsa Morante per descrivere il suo ambivalente rapporto con la madre e quello complicato con i due padri, i fratelli e la sorella. 

Un’incursione che serve a svelare da quale zona d’ombra sorgerà poi una scrittura che «si insinua nei meandri della passione, del delirio, del terrore imposto o subíto», per celebrare «il trionfo dell’immaginazione» sulla deperibilità e sui compromessi triviali del mondo.

Oppure quando narra, ed è uno dei pregi maggiori di quest’opera, degli amori e delle amicizie della scrittrice. Amori per uomini impossibili, come Luchino Visconti e Bill Morrow, e amicizie grandiose e infime, prima fra tutte quella con Pier Paolo Pasolini, destinata a «spezzarsi nel risentimento e nella vendetta letteraria». 

Elsa Morante. Una vita per la letteratura, recita il titolo di questo libro, traducendo perfettamente il suo contenuto: il racconto della vita di una grande scrittrice, in cui le speranze, gli inganni e le illusioni proprie di ogni esistenza si mutano, nella trasfigurazione letteraria, in una sorgente infinita di narrazione e fascinazione.


07/02/21

Libro del Giorno: "La casa di Parigi" di Elizabeth Bowen

 


Pubblcato anni fa in una versione tagliata dalla casa editrice Essedue, “La casa di Parigi”  è tornato in libreria pubblicato da Sonzogno nella collana diretta da Irene Bignardi e in  versione integrale, tradotto da Alessandra di Luzio accompagnato da una postfazione di Leonetta Bentivoglio.

Da molti considerato il capolavoro di Elizabeth Bowen (1899-1973) una delle più raffinate e importanti scrittrici del novecento anglosassone, irlandese che visse molto a Londra, affiliandosi al celebre circolo di Bloomsbury, profondamente ammirata da Virginia Woolf, "La casa di Parigi" è un romanzo vischioso, che avvolge come un incantesimo e conduce il lettore attraverso un misterioso viaggio nella psicologia e nei destini di pochi personaggi.

Siamo a Parigi, in inverno, la Grande guerra è finita da poco, aleggia sulla città un'atmosfera cupa e grigia. Alla Gare du Nord scende Henrietta, undici anni, con in mano la sua scimmietta di pezza. Viene a prenderla la signorina Fisher, un'amica di famiglia che la ospiterà per una intera giornata in un elegante appartamento, in attesa di farla ripartire per il Sud della Francia. 

In quella casa borghese, dal confortevole odore di pulito, Henrietta si imbatte in una gradita sorpresa: c'è un suo coetaneo, il fragile Leopold, avviato verso un futuro incerto. 

Tra i due bambini, estremamente sensibili e inquieti, dopo l'iniziale diffidenza, si accende la curiosità: di ciascuno nei confronti dell'altro, e di entrambi verso il misterioso mondo degli adulti. 

I due fanciulli, grazie agli indizi disseminati attorno a loro, rivivono, tra immaginazione e realtà, le tormentate storie d'amore dei grandi, in particolare quella scandalosa tra la madre di Leopold e il suo padre naturale. 

Acclamato come un classico al momento della pubblicazione (1935), "La casa di Parigi", oltre a mettere in scena una passione sentimentale, è un acuto studio psicologico e un esercizio di finezza letteraria sulla prima irruzione del dolore, sulla scoperta del sesso, sulla perdita dell'innocenza e sull'intrico delle conseguenze e del danno. 

Un romanzo importante, dalla cadenza solenne e dalla prosa jamesiana che desta ammirazione per la profondità psicologica e la capacità descrittiva, dei paesaggi naturali e umani.

Elizabeth Bowen

La Casa di Parigi

Sonzogno, Venezia 2016

Traduzione di Alessandra Di Luzio

Postfazione di Leonetta Bentivoglio

286 pagine, Euro 15

19/04/19

Libro del Giorno: "L'amante fedele" di Massimo Bontempelli



Che piacere riconciliarsi con la prosa di Bontempelli,  una delle voci più originali del Novecento letterario italiano.  Merito della casa editrice di Sassuolo, Incontri, aver riportato in libreria, a oltre sessant'anni dalla prima edizione 'L'amante fedele', il libro di racconti con cui Massimo Bontempelli vinse il 'Premio Strega' nel 1953, decimo titolo della collana Kufferle dedicata alla riproposta di testi e autori del passato, con introduzione della drammaturga e storica del teatro Patricia Gaborik, attenta studiosa dello scrittore. 

Si tratta di quindici racconti nei quali Bontempelli, ormai al termine della vita (morì a Roma il 21 luglio del 1960),  esprime la sua idea personalissima idea di letteratura, quel "realismo magico" che si rifa alla tradizione nordica e ai grandi racconti di Djuna Barnes, in seguito applicato da molti grandi autori da Borges fino a Rushdie

In un certo senso questa raccolta è il coronamento della narrativa di Bontempelli per la presenza costante di alcuni elementi cardine della sua poetica, dalla centralita' del mito allo spirito di avventura che guida i suoi personaggi, dai toni incantati e meravigliosi con cui viene descritta la natura,  alla predilezione per i protagonisti femminili. 

Diversi nelle ambientazioni e nelle atmosfere i 15 racconti sono uniti innanzitutto dallo stile di Bontempelli convinto che l'arte del Novecento dovesse essere in grado di esprimere l'"avventuroso miracolo" della vita quotidiana, in una visione in cui erano centrali i concetti di immaginazione, ironia e candore. 

Se, come scrisse Bontempelli, il mistero è "la sola realtà", attraverso uno sguardo candido, libero cioè da intellettualismi o convenzioni sociali, è possibile pervenire a una comprensione istintiva del mondo, in piena sintonia con la natura. E candidi sono, per gran parte, i protagonisti de 'L'amante fedele'.  Un bel tuffo in un mondo dal respiro diverso, completamente estraneo, rispetto all'oggi dominato dal cinismo e dal disincanto. 

Fabrizio Falconi


29/08/18

Libro del Giorno: "L'uomo che non doveva vivere", di Geoffrey Household.



Nato a Bristol nel 1900 e laureatosi ad Oxford, Geoffrey Household racchiude nella sua lunga biografia (è morto nel 1988), tutti gli elementi del vero outsider della letteratura. 

Lasciata l'Inghilterra nel 1922 lavorò all'estero, prima in Romania come impiegato di banca, poi in Spagna nel commercio delle banane, e infine negli Stati Uniti dove - durante la crisi del '29 - si mantenne scrivendo piccole commedie per bambini e voci commissionate per l'Enciclopedia. 

Tornato in patria nel 1933, si impiegò in una fabbrica per inchiostri che lo mandò in giro per il mondo, fino al Medio Oriente e in Sudamerica.  In questo periodo cominciò a dedicarsi regolarmente alla scrittura, e con la pubblicazione del suo terzo romanzo, L'uomo che non doveva vivere, conobbe un enorme successo internazionale che continuò nella seconda parte del Novecento, dopo la riduzione cinematografica che ne fece ad Hollywood Fritz Lang (nel 1941) e televisiva con Peter O' Toole nei panni del protagonista nel 1976. 

Nonostante i quaranta romanzi scritti in seguito, il successo di Household rimase legato a questo romanzo, che in molti considerano l'antesignano del genere thriller. 

Pubblicato in Italia da Polillo, L'uomo che non deve morire si legge ancora oggi tutto d'un fiato - d'altronde non ha scansioni in capitoli o parti - e si presenta come un incubo a occhi aperti.  Il protagonista senza nome di questa vicenda è un uomo in fuga, per motivi che non appaiono chiari: è infatti catturato mentre sta puntando il suo fucile a cannocchiale contro la casa-fortezza di un dittatore di una nazione straniera (la Polonia, si chiarirà in seguito). Non ha sparato e forse non meditava nemmeno un attentato, ma i suoi inseguitori ne sono convinti. Sopravvissuto miracolosamente alla eliminazione fisica, comincia la lunga fuga dell'uomo, che riesce a ritornare nel suo paese, soltanto per scoprire che sono probabilmente proprio i servizi segreti del suo paese a volerlo eliminare. 

Il racconto è la descrizione minuziosa di una fuga apparentemente senza meta, in cui l'uomo riesce ogni volta a far perdere le sue tracce per miracolo, fino a scomparire letteralmente dentro una fossa scavata in aperta campagna.  Anche nella sua tana sotterranea, però, viene trovato e dopo aver rischiato la fine da sepolto vivo, riesce ad evadere rocambolescamente anche da qui. 

Come chiarisce il titolo originale del romanzo, Rogue Male, ciò che interessa ad Household è questa condizione di braccato, questa emarginazione o autoemarginazione radicale del fuggitivo che cerca scampo da se stesso, dai potenziali amici e dai molti nemici senza volto che lo perseguitano come dentro un incubo senza fine. 

Ciò nonostante, l'uomo resta al centro del suo destino, l'uomo trova la sua riabilitazione, che comincia dalla terra, dal fango, dalla mutilazione, dalla perdita di tutto. 

Non è quindi tanto il nemico, che ha importanza, ma la forza della vita, la continuazione - forse - di una memoria, di un riscatto, che rappresenta l'unica - eroica, dolorosa, sacrificale - ragione per continuare a vivere. 

Fabrizio Falconi


12/04/18

Adelphi pubblica le lettere di Samuel Beckett: Una vocazione unica e complessa.



Scrivere di Samuel Beckett e' difficilissimo, ovviamente. Perché lui, come nessun altro, ha saputo incarnare lo scrittore del Novecento, perché come nessun altro ha saputo potare drasticamente ogni parola non necessaria, fino ad arrivare in alcuni casi che si possono solo definire "assoluti" al puro silenzio, come per esempio alla fine de "L'ultimo nastro di Krapp".

Perché i suoi testi sono cosi' carichi di densita' e di consapevolezza da rendere quasi impossibile dire "altro". Anche per questi motivi la pubblicazione per Adelphi - casa editrice che in Italia fa un lavoro che oggi non riesce a fare nessun altro, per respiro, diversita' e complessita' - del primo volume delle "Lettere" di Beckett e' un evento editoriale vero, cosi' vasto da richiedere addirittura quattro curatori internazionali, a cui si affianca, per l'edizione italiana, Franca Cavagnoli.

Il primo tomo copre il periodo giovanile dello scrittore, tra il 1929 e il 1940 ed e', come sottolinea la prefazione, una ampia occasione (500 sono le pagine del libro) di incontrare la voce di Beckett in un periodo nel quale "la sua attivita' pubblica non ardisce ancora farne uso".

Una voce che, anche per le modalita' di costruzione delle lettere, e' piena della sua consapevolezza di scrittore (e il fatto che i testi contengano innumerevoli volte i dubbi su questa scelta e le ricorrenti incertezze legate alla fatica del distillare delle frasi, se non addirittura delle singole parole - "L'idea stessa di scrivere mi sembra, come dire, grottesca" - e' una ulteriore conferma di tale consapevolezza) e che gia' si nutre di sistemi di riferimento, come quello che potremmo definire "escrementizio", che saranno poi cruciali nella poetica dello scrittore e drammaturgo futuro ("Le lettere - si legge nella lunga introduzione al volume, firmata da Dan Gunn - sono, come e' sempre piu' chiaro, non soltanto il mezzo, ma anche il fine, grazie al quale la strada bloccata del presente diventa, nello scrivere, l'autostrada sgombra di un futuro").

Beckett, a proposito di se stesso, parla di "aspermatismo mentale" (in relazione alla "masturbazione mentale" che lui riferisce a Huxley), poi, in una lettera del 4 agosto 1932 da Londra al suo corrispondente piu' intimo, Thomas McGreevy, in qualche modo, carica di quello che potremmo chiamare "ottimismo", forse definisce meglio il concetto: "Se riuscissi a inventarmi dei pretesti per scrivere una poesia, un racconto, qualsiasi altra cosa, starei bene. In verita' credo di stare bene. Ma a volte mi terrorizza l'idea di essere guarito dal solletico della scrittura. Immagino che sia questo posto fornicante con il suo clima fornicante. Tuono letale e pioggia a torrenti".


Poi, con un colpo di genio che scavalca a pie' pari tutto Proust, la lettera prosegue cosi': "Oggi pomeriggio ero seduto in St. James's Park su una sdraio da 2 pence e mi sono debitamente commosso, fin quasi all'occhio lucido, per un bambino che giocava a 'bus vuoti' con una bambinaia, dalla stessa identica espressione tipo granito sgretolato, che aveva la mia prima di sposare il giardiniere e diventare polipara, e la chiamava Tata. 1/8... 3/8 Presto mandero' un cablo a mia madre che venga a darmi il bacio della buonanotte".

Dire che il senso dell'intero Novecento letterario sia, cripticamente quanto volete, espresso in queste poche righe, e' forse troppo. Ma di una buona parte perche' no? Samuel Beckett, il giovane Samuel Beckett di queste lettere, probabilmente risponderebbe "Tant piss" e anche questo sarebbe coerentemente novecentesco (e, dato non trascurabile, oggi l'aggettivo ha senso compiuto proprio attraverso Beckett, che lo ha forgiato parola su parola su parola. Quindi tutto si ricompone in un circolo che e' divertente, seppur non particolarmente originale, definire "assurdo". E ci fermiamo qui, saluti e ossequi a James Joyce).

Le "Lettere" completano l'opera di Samuel Beckett, la arricchiscono, diventano "opera" a loro volta e ci parlano di una vocazione univoca, per quanto perennemente insicura, verso la letteratura che ha un unico pari nel XX secolo, il vero "companion" dell'irlandese: Franz Kafka, che pure mai compare in tutte queste missive, salvo che in una nota dei curatori, senza alcun diretto riferimento al testo beckettiano.

"Le lettere di Beckett - scrive ancora Dan Gunn, ed e' come se parlasse anche di Kafka - rivelano compromessi e fieri rifiuti, il desiderio di autoaffermazione e il ribrezzo per la notorieta', le strade sbagliate non intraprese per un soffio e l'intimo convincimento che l'unica strada da seguire davvero sia quella della letteratura".

L'unica strada. La strada. Murphy dopo Josef K., Malone come l'agrimensore. "Finale di partita" per Gregor Samsa.

Fonte: Leonardo Merlini per askanews

09/02/16

Torna Bontempelli, con 'L'amante fedele', il libro con cui vinse il Premio Strega nel 1953.




Torna in libreria, a oltre sessant'anni dalla prima edizione 'L'amante fedele', il libro di racconti con cui Massimo Bontempelli vinse il 'Premio Strega' nel 1953. 

La nuova edizione e' pubblicata da Incontri editrice ed e' il decimo titolo della collana Kufferle dedicata alla riproposta di testi e autori del passato, con introduzione della drammaturga e storica del teatro Patricia Gaborik, attenta studiosa dello scrittore. 

Giornalista e scrittore tra i piu' originali del Novecento, Bontempelli, morto nel 1960, nei 15 racconti de 'L'amante fedele' (pp 283 pagine, euro 15) mostra da diverse sfaccettature la sua idea di letteratura, quel "realismo magico" in seguito applicato ad autori da Borges a Rushdie

In un certo senso questa raccolta e' il coronamento della narrativa di Bontempelli per la presenza costante di alcuni elementi cardine della sua poetica, dalla centralita' del mito allo spirito di avventura che guida i suoi personaggi, alla predilezione per i protagonisti femminili. 

Diversi nelle ambientazioni e nelle atmosfere i 15 racconti sono uniti innanzitutto dallo stile di Bontempelli convinto che l'arte del Novecento dovesse essere in grado di esprimere l'"avventuroso miracolo" della vita quotidiana, in una visione in cui erano centrali i concetti di immaginazione, ironia e candore. 

Se, come scrisse Bontempelli, il mistero e' "la sola realta'", attraverso uno sguardo candido, non filtrato cioe' da intellettualismi o convenzioni sociali, e' possibile pervenire a una comprensione istintiva del mondo, in piena sintonia con la natura. E candidi sono, per gran parte, i protagonisti de 'L'amante fedele'.

25/03/15

"Memorie di una ragazza perbene", di Simone de Beauvor - L'eloquenza della testimonianza.



Ci sono libri che ti girano intorno per una vita, e scelgono loro il momento e il punto in cui presentarsi. Per me è stato così con Memorie di una ragazza perbene, che mi aveva sfiorato a lungo senza incontrarmi mai.

La Beauvoir si dedicò alla sua biografia - una vita lunga e piena - a partire dal 1958, e  Memorie di una ragazza perbene ne rappresenta la prima parte, pubblicata nel 1958 cui faranno seguito altre tre parti, L'età forte (1960), La forza delle cose (1963), A conti fatti (1972).

È un'opera, come è noto, fondamentale perché perché offre, insieme alla storia personale della scrittrice e della sua famiglia, la testimonianza in presa diretta sull'atmosfera e sul dibattito culturale svoltosi in Francia dagli anni trenta fino alla fine degli anni Sessanta.

Memorie d’una ragazza perbene si apre come un manifesto (e il suo incipit è uno dei più noti della narrativa contemporanea: «Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul Boulevard Raspail».

Retrospettivamente, Simone de Beauvoir che all'epoca ha cinquant’anni, ripercorre con minuzia i suoi primi vent’anni di vita: un romanzo di formazione femminile, in cui si assiste gradualmente alla nascita - o meglio alla identificazione - di un carattere.

Sono memorabili le pagine nelle quali Simone descrive la sua prima infanzia, un mondo apparentemente dorato - quello dell'alta borghesia parigina - rassicurato dal ruolo assegnatole nel mondo, quello della brava bambina, a cui è richiesto non tanto di scoprire il mondo, ma di viverlo nei confini assegnati.

Si stagliano le due figure, quella del padre, individualista e dalla morale caduca, e quello della madre, che incarna il rigore della vita spirituale.

Simone trascorre i primi anni tra il conforto rassicurante della fede che le è stata insegnata e l’amore per la lettura.

Ma ben presto la disillusione del caro mondo infantile,  che non è proprio quel che appare, lascia il posto alla curiosità divorante, alle inquietudini, e ai turbamenti dell'adolescenza.

E' di questo periodo il rapporto sempre più intenso con Zazà, la prima, vera amica, la rottura con Dio e la religione (che apparentemente resteranno immutabili fino alla morte) e la autoconsegna alla missione artistica.

L'amore per il cugino Jacques - contrastato e ambiguo - il rifiuto dell'idea del matrimonio, la decisione di iscriversi alla Sorbona, dove entra in contatto con i più grandi intellettuali dell'epoca: da Simone Weil a Merleau-Ponty (suoi compagni di corso), Raymond Aron, Paul Nizan e ovviamente Sartre, nel quale Simone trova un sodale, un complice più che un amante e un compagno, un vero alter-ego maschile.

Un cammino di emancipazione, contro tutto e contro tutti, verso la libertà intellettuale e la liberazione dai luoghi circoscritti in cui il femminile all'epoca è recluso. 

E' una testimonianza, quella di Simone, che resta agli atti del Novecento. E in qualche modo precede il valore strettamente letterario dell'opera. Che pure è importante. Personalmente ho trovato e trovo la prosa della Beauvoir (e la sua poesia) molto più eloquente per il lettore di oggi (e più alta più compiuta), di quella dello stesso Sartre (che oggi mi appare molto più datato). Insomma, un libro che sa ancora parlare - anche quando il mondo appare del tutto trasfigurato da quei tempi lontani nel quale tutto sembrava da scoprire, tutto sembrava da cambiare.

Fabrizio Falconi


28/07/14

Doppio Sogno di Schnitzler ... e Kubrick.



Doppio Sogno nelle edizioni Adelphi


Merita sempre di riprendere in mano questo straordinario libro. 

Fatelo, questa estate. 

Sollecita le corde più profonde del nostro inconscio la storia immaginata (sognata?) dallo scrittore (e medico) viennese nel 1926 con il titolo di Traumnovelle: Fridolin e Albertine, "tranquilla" coppia borghese con figlia vivono una crisi coniugale.
Arthur Schnitzler

Lui trascorre una intera notte attraversando esperienze misteriose senza peraltro tradire materialmente la moglie): l'incontro con la figlia di un vecchio appena defunto, quello con una prostituta, la partecipazione ad una festa con molte donne nude e mascherate, la peregrinazione nel laboratorio di un costumista dove si aggirano strane figure.

Lei attraverso un complicato sogno, durante il quale prima tradisce il marito con un giovane danese conosciuto diversi anni prima, e poi assiste soddisfatta alla morte per crocefissione del marito. 

Verità, finzione, tradimento e realtà, inganni, comprensione come unica via - forse - per mettere un freno alle tenebre e ai fantasmi dell'inquietudine.

Il problema è che ciò che si comprende, passa per forza di cose dalla soggettività. E nessuno, a quanto pare può aiutarci.

Non è un caso che questa storia abbia ispirato a tal punto Stanley Kubrick da farne l'epitaffio simbolico della sua straordinaria carriera di film maker, con Eyes Wide Shut  (film imperfetto, esteticamente sublime, pieno di simboli oscuri), uscito nelle sale nel 1999 e che il grande regista non riuscì nemmeno a veder terminato)

Per quanto sia vasta l'oscurità, dobbiamo procurarci da soli la nostra luce, era il motto preferito di Kubrick. Un motto che anche Alfred Schnitzler avrebbe sottoscritto... a occhi (ben) chiusi.


Eyes wide shut

Fabrizio Falconi

31/05/14

D.H.Lawrence si ispirò ad un'italiana per l'Amante di Lady Chatterley?


D.H.Lawrence

Una delle eroine piu' famose e turbolente della letteratura inglese era in realtà una donna italiana molto emancipata vissuta negli anni Venti. 

Lo scrittore britannico D.H. Lawrence, per concepire il personaggio di Connie, protagonista nel suo celebre romanzo 'L'amante di Lady Chatterley', si sarebbe ispirato a Rina Secker, moglie del suo editore, Martin Secker. 

Rina Secker


Lo afferma un nuovo libro dell'autore Richard Owen, dal titolo 'Lady Chatterley's Villa'. Secondo il Daily Mail, sono stati scoperti molti parallelismi fra Connie e Rina, a partire dall'insoddisfazione coniugale che accomunava le due. 

La moglie di Secker, inoltre, trascorse lunghi soggiorni lontano dal marito e si dice che abbia avuto molte avventure extraconiugali, ricordando in questo Lady Chatterley. 

Fu la stessa moglie di Lawrence, Frieda, a dire in pubblico: "Rina, mia cara, Lady Chatterley sei tu". 

Il romanzo, scritto in Toscana, venne pubblicato nel 1928 per la prima volta a Firenze, ma da subito bandito per il suo contenuto esplicito e uscì in Gran Bretagna solo nel 1960. 

la prima edizione di Lady Chatterley

08/03/14

"Il giunco mormorante" - di Nina Berberova. Un racconto-capolavoro.






Due amanti si lasciano a Parigi prima della guerra, promettendo di rincontrarsi presto. Lui parte per Stoccolma, lei resta per occuparsi di un vecchio zio che non ha più nessuno al mondo. 

Passeranno sette anni e lui - Enjar - si è intanto fatto una nuova vita, sposando Emma, una giovane svedese. 

Lei lo va a trovare, scopre la sua nuova esistenza, cerca un chiarimento impossibile, che arriverà soltanto molto tempo dopo, durante una visita a Venezia, e in modo molto parziale. 

Il giunco mormorante è un capolavoro di stile. In sole 80 pagine la Berberova raggiunge il culmine della tensione narrativa con l'inespresso che diventa essenza (e viceversa). Vibrante, bellissimo, pieno di verità sull'amore, il mistero dell'amare, l'impossibilità, l'abbandono, la sofferenza. 



“C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ognuno di noi ha la propria “no man’s land” in cui è totale padrone di se stesso. [...] Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale; l’una sia lecita l’altra illecita. Semplicemente l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero…”

Nina Berberova, Il giunco mormorante, Traduzione di Donatella Sant'Elia, Adelphi, 1988.

02/09/13

Carlo Cassola, un autore dimenticato.


In tempi in cui è così difficile fare critica letteraria in Italia - pochi che leggono, pochissimi che posseggono gli strumenti della critica, ancora di meno che ricordano, può essere indicativa la vicenda di Carlo Cassola, nato a Roma il 17 marzo 1917, un narratore oggi sparito - o quasi - dalle librerie e che pure conobbe un grande successo commerciale, il che gli attirò le furie della critica di allora, che invece pretendeva di decidere tutto - oggi non decide più niente - e di stabilire una volta per tutte i valori assoluti in un campo scivoloso come quello della produzione letteraria.

                                       
(Carlo Cassola con Pasolini)

Cassola, riletto oggi sembra molto meno ingenuo di come appariva allora (implacabilmente impallinato da Calvino e soci) e soprattutto messo a paragone con molta della narrativa che si fa e si stampa oggi in Italia, appare perfino un gigante.

Questo è il ritratto che traggo dal sito Italialibri, forse una occasione per tornare su un autore oggi quasi del tutto dimenticato.

Carlo Cassola nasce a Roma nel 1917. La madre è originaria di Volterra mentre il padre è lombardo, ma vissuto a lungo anch’egli nella cittadina toscana. E infatti, proprio la Toscana, in particolare la Maremma, diventerà la patria poetica e spirituale dello scrittore, che vi si trasferirà nel ’40, partecipandovi anche alla Resistenza.

L’attività letteraria era già cominciata negli anni ’30: tra il ’37 e il ’40 Cassola aveva composto una serie di brevi racconti, in parte pubblicati sulle riviste «Meridiano di Roma» e «Letteratura» e poi raccolti in un volume dal titolo La visita. 

Dopo l’interruzione della guerra, durante la quale il lavoro di scrittura era stato quasi completamente interrotto, Cassola si dedica con continuità alla narrativa, affiancata all’insegnamento di filosofia in un liceo di Grosseto. Pubblicò i racconti lunghi Baba (1946), I vecchi compagni (1953), Fausto e Anna (1952), tutti di argomento partigiano e ambientati in quel particolare paesaggio letterario che per Cassola fu la zona compresa nel triangolo Volterra - Marina di Cecina - Grosseto: una terra arida, avara, crudele, che nelle pagine dei suoi romanzi diventa un simbolo della condizione umana, quasi un “correlativo oggettivo” della fatica di vivere.

 (Carlo Cassola)

Lo ha detto in modo efficace il poeta Mario Luzi quando, riferendosi allo sfondo geografico dell’opera di Cassola, afferma: «Per affetto e per organica intelligenza di poesia, Cassola ne ha fatto non una provincia, e sia pure la sua provincia, ma un luogo, anzi il luogo dell’anima».

Con il racconto lungo Il taglio del bosco, scritto tra il ’48 e il ’49, ma pubblicato nel 1954, la prosa cassoliana si allontana dalle tematiche storiche per assumere un tono più dimesso e intimistico, che rimarrà tipico dell’autore anche nella sua produzione successiva.

Cassola mette a punto la sua poetica del “realismo subliminare”, ossia uno sguardo letterario attento a cogliere le vibrazioni più sottili e umbratili della realtà, spesso nascoste dalle apparenze banali del quotidiano, relegate «sotto la soglia della coscienza pratica» ma che racchiudono il significato vero e profondo della vita umana.

In questa sua ricerca, Cassola tende ad isolarsi dal panorama letterario italiano, riconoscendo il suo unico maestro in Joyce, particolarmente nel Joyce di Gente di Dublino. «In Joyce — dice — scoprii il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della vita che per me erano sempre stati i più importanti e di cui gli altri sembravano non accorgersi nemmeno» .

Questo netto distacco dal naturalismo tradizionale segnerà d’ora in poi tutte le opere dello scrittore, determinando anche una nuova visione della storia, considerata sempre meno come il teatro di grandi eventi e di ideali alti, ma piuttosto sempre proiettata nella dimensione interiore e privata dei soggetti che in essa si trovano a vivere, spesso loro malgrado.

Così, se Il soldato (con cui Cassola vince il Premio Salento nel 1958) tratta il tema della solitudine e dell’elegia amorosa, nella raccolta di racconti La casa di Via Valadier (1956) il motivo politico si colora di forti implicazioni esistenziali, in un quadro che all’elemento storico contingente, si tratti della condizione operaia (come nel racconto Esiliati) o della caduta degli ideali della Resistenza (come nel racconto eponimo dell’intera raccolta), sempre viene anteposto lo stato d’animo che ne scaturisce, spesso segnato da un senso di inerzia ed abbandono dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. In questa scia si viene a collocarsi anche il romanzo La ragazza di Bube, pubblicato nel 1960 ed insignito del Premio Strega.

Le scelte poetiche di Cassola non mancarono di suscitare numerose ed accese polemiche, e si attirarono a più riprese l’accusa di sfuggire all’impegno letterario e civile rifugiandosi in un vuoto lirismo e in un realismo facile, idilliaco, privo di conflitti. Rimangono emblematiche le parole a cui ricorse un Calvino particolarmente caustico per rispondere ad alcuni interventi di poetica pubblicati da Cassola sul «Corriere della Sera»: «La poetica dell’ineffabilità dell’esistenza è e resterà legata a esperienze individuali rare, a particolari congiunture storiche. Cassola dice che ha trionfato: non si rende conto che questo trionfo è una sconfitta? Cosa può voler dire questo trionfo, oggi? Romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto dei sentimenti ricucinati».

Nonostante l’animosità a volte carica di acrimonia evocata dalla sua opera, il lavoro di Cassola si mantenne fedele alla propria poetica chiusa, minimale e volutamente astorica, anche nella produzione degli ultimi anni che, tra romanzi e racconti, si mantenne regolare e costante:

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06/07/12

Le Dolomiti celebrano Dino Buzzati.



A quarant'anni dalla scomparsa del grande scrittore, i territori delle province di Belluno e Trento onorano con un evento uno dei piu' celebri cantori delle alte cime. 

''Ricordando Dino Buzzati 1972-2012'' e' la manifestazione, promossa da Circolo Cultura e Stampa Bellunese e da Ideas Communication, insieme con l'Associazione Internazionale Dino Buzzati, che si svolgerà dal 23 al 29 luglio. 

Sette giorni di spettacoli, reading, conferenze dibattiti con protagonisti del mondo culturale italiano sul palcoscenico delle vette piu' amate da Buzzati: lo Schiara, il Civetta, le Pale di San Martino solo per citarne alcune. 

''Sara' un itinerario attraverso i luoghi del cuore e della memoria - raccontano gli organizzatori - con due grandi obiettivi: onorare Dino Buzzati, indimenticabile voce delle Dolomiti e del Novecento Italiano, e fare delle sue celebrazioni l'evento clou dell'estate dolomitica''. 

Sono coinvolte due Regioni (Veneto e Trentino), due Provincie (Belluno e Trento), la Fondazione Universita' ed Alta Cultura della provincia di Belluno e sette Comuni (Belluno, Limana, Feltre, Siror, Tonadico, Sagron Mis, Alleghe, Auronzo). 

E la partecipazione attiva di Giardino Buzzati, associazione culturale presieduta dalla nipote di Buzzati Valentina Morassutti. 

Le proposte sono state selezionate sulla base della qualita' e del rispetto scientifico dell'opera e del pensiero buzzatiani. ''Il nostro auspicio - spiega l'ideatore dell'iniziativa Ivano Pocchiesa - e' di promuovere ad ampio raggio la conoscenza dell'uomo Buzzati e della sua opera, facendone rivivere atmosfere e contenuti con l'ausilio di tutte le arti da lui amate e attraverso la testimonianza di chi lo ha conosciuto. Per questo nel calendario sono stati inseriti spettacoli teatrali, un concerto, dibattiti, mostre, reading, tavole rotonde. Un omaggio a tutto tondo all'uomo e all'artista che sara' occasione per apprezzare anche la bellezza e la ricchezza delle terre che lui ha tanto amato''. 

28/06/12

'Il ponte di San Luis Rey' di Thornton Wilder, un romanzo che parla a ciascuno di noi.



Ho appena finito di leggere un grande romanzo: Il Ponte di San Luis Rey, scritto da Thornton Wilder nel 1927, con il quale il famoso drammaturgo americano vinse il Premio Pulitzer.

E' un romanzo molto strano.  Che tocca i nostri temi.  Wilder imbastisce una storia ambientata in Perù, nel 1700.  Dopo molti secoli che se ne sta lì tranquillo al suo posto, crolla il vecchio ponte di San Luis Rey, costruito dai Maya.   Quel ponte, dice Wilder, è una istituzione per tutti gli abitanti di Lima.

Intere generazioni, per secoli e secoli sono transitate su quel ponte, unico mezzo di comunicazione per attraversare un profondo burrone. Fino al giorno fatidico, in cui il ponte crolla.

E in quel giorno fatidico muoiono 5 persone. 5 persone tra le migliaia, i milioni di persone che nei secoli hanno attraversato quel ponte.

Wilder immagina che un frate francescano, fratel Ginepro, non dandosi pace del perchè proprio a quelle 5 persone sia toccato in sorte di transitare sul ponte al momento del crollo, decide di ricostruire le loro vite, alla ricerca di un elemento comune, di una traccia che giustifichi il loro coinvolgimento nella sciagura.

L'intelligenza di questo romanzo sta proprio nell'aver toccato uno dei punti cruciali di fronte al quale, tutte le religioni del mondo, si trovano come impotenti.

Se infatti, quando c'è di mezzo una morte individuale, si può andare alla ricerca di una motivazione, di una logica che giustifichi l'intervento divino,  quasi impossibile è fare altrettanto quando in una tragedia collettiva - pensiamo a un aereo che cade, o alle Torri Gemelle, tanto per restare vicini a noi - perdono la vita contemporaneamente persone diversissime, il buono al fianco del cattivo, l'innocente, il bambino, il solitario, il ladro e l'assassino.

Questo tipo di eventi è stato per ogni religione, sempre, motivo di scandalo.

Ed è stato, da sempre, un motivo a favore di tutti coloro che interpretano la vita come una pura successione di eventi casuali, spinti dalla fortuna o dalla sfortuna (alla Woody Allen insomma).

Il Ponte di San Luis Rey è grande, in questo:  Il povero Fratel Ginepro, nella disperata ricerca di un senso, arriva a compilare una tabella per le persone coinvolte, assegnando un punteggio da 1 a 10 e da -1 a -10 per tre diverse categorie: bontà, devozione, utilità (alla società).   


A Ciascun morto Ginepro assegna un punteggio, in base alle testimonianze degli amici, dei conoscenti, dei famigliari, degli estranei.


Non voglio rivelare troppo del romanzo, fatto sta che Ginepro si trova ad un certo punto a gettare nel mare le sue carte statistiche, allorquando si rende conto che: sono proprio i più meritevoli, i più buoni, i più utili alla causa umana, quelli che sono morti.

Non è proprio questo quello che la saggezza popolare (cristiana) tramanda da tanti secoli: e cioè che - detto in soldoni - se ne vanno sempre i migliori ? E che invece le persone malvagie, quelle rancorose, quelle che odiano e fanno guai, godono di lunga e durevole salute, morendo spesso di morte naturale, in tardissima età ?

Come si spiega questo mysterium iniquitatis ?


Fabrizio Falconi


05/06/12

'Messaggero d'amore' di Leslie P.Hartley - Recensione.



Nutrimenti editore meritoriamente ri-pubblica in Italia dopo parecchi anni L'età incerta (The Go-Between) romanzo di L.P. Hartley, pubblicato a Londra nel 1953, e conosciuto per il film che ne fu tratto, Messaggero d'amore (titolo italiano di The Go-Between) nel 1970 diretto da Joseph Losey, vincitore del Grand Prix come miglior film al Festival di Cannes 1971.

Meritoriamente perché si tratta davvero di un grande romanzo. 

La storia: Leo Colston è un tredicenne che al termine dell'anno scolastico 1899-1900 viene mandato per un periodo di vacanza estivo nella magnifica residenza di Brandham Hall, presso la famiglia del compagno di classe Marcus.  

Qui Leo conoscerà e si innamorerà della sorella maggiore di Marcus,  Marian, promessa sposa del nono visconte di Trimingham (ferito in guerra), diventando il suo inconsapevole corriere: Marian ha infatti una relazione con il fattore Ted e Leo si presta, senza esserne consapevole, a fare da tramite per la consegna della loro corrispondenza amorosa.  Fino al tragico epilogo finale.

E' uno straordinario, finissimo romanzo, tutto giocato sulla psicologia del giovane Leo, che con i suoi occhi incontaminati osserva e scopre il mondo oscuro (e anche goffo) degli adulti.

Tradito e corrotto, Leo avrà la sua iniziazione e non basteranno a salvarlo le sue protezioni "magiche" alle quali ha preso ad appassionarsi da quando ha scoperto casualmente di "poter cambiare il corso degli eventi"; il suo culto per la botanica e per lo Zodiaco; la sua capacità di introspezione.

Bildungsroman sui generis,  Messaggero d'amore è una straordinaria opera sensibile, quieta e allo stesso tempo sottilmente febbrile, che ad ogni pagina induce il lettore a scoprire qualcosa di sé oltre che della semplice vicenda incantata..  

Fabrizio Falconi