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22/11/15

"La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così" - "Tumbas", l'ultimo libro di Cees Nooteboom.



«La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare.» Perché comunicano a ognuno qualcosa di personale e accompagnano diversi momenti della nostra vita, innescando con noi un dialogo intimo al di sopra dello spazio e del tempo. 

Per questo Cees Nooteboom, nel corso di trent’anni di viaggi per il mondo e attraverso i cieli della letteratura, ha visitato le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato, raccogliendo quello che, dietro una lapide di marmo, un monumento bizzarro, un’epigrafe toccante o l’incanto di un’atmosfera, hanno ancora da raccontare. 

Dal famoso Père-Lachaise di Proust e Oscar Wilde alla pittoresca collina sopra Napoli che ospita Leopardi, dalla cima del monte Vaea, nelle isole Samoa, dove è sepolto R.L. Stevenson, a Joyce e Nabokov in Svizzera. Calvino a Castiglione della Pescaia, Melville in un angolo sperduto del Bronx, e Kawabata nel suo Giappone; Keats e Shelley accanto a Gregory Corso nel romantico Cimitero Acattolico di Roma; Brecht a due passi da Hegel a Berlino est; Brodskij insieme a Pound nell’isola veneziana di San Michele, e il Montparnasse di Baudelaire, Beckett e Sartre, a cui ha scelto di unirsi anche Susan Sontag

Ogni tomba è un lampo sul mondo dello scrittore che la occupa, rievocando una poesia, un frammento di vita o di libro, ispirando folgoranti riflessioni e inattesi collegamenti, in un appassionante pellegrinaggio indietro e avanti nella storia della letteratura e del pensiero, che con Nooteboom diventa una meditazione poetica sull’uomo, il tempo e l’arte. 

Mentre a ogni pagina cresce il desiderio di andare a leggere e rileggere le opere dei suoi cari immortali


Cees Nooteboom

23/09/14

"Spesso i rapporti tra persone sono un malinteso permanente" - Una intervista a Cees Nooteboom.




A colloquio con Cees Nooteboom Tutti i mondi dell'olandese viaggiante di Silvia Guidi

Il paradiso deve pur esistere da qualche parte, pensa il giovane Philippe, non avrebbe senso, altrimenti, la molteplicità dei desideri che affollano il cuore, il confuso germogliare di aspirazioni, progetti e aspettative che rende nitido, denso e vibrante il presente, la tensione verso la vita, l'energia tesa a un compimento che muove tutti gli uomini: ha tanti nomi, ma si tratta certamente della stessa cosa, pensa il protagonista dell'opera d'esordio di Cees Nooteboom, "Il paradiso qui accanto" (il titolo originale del romanzo scritto nel 1955 a soli 22 anni) si trasforma nella meticolosa architettura di gesti e pensieri prevedibili con cui cerca di rimuovere o mettere a tacere questo desiderio, nascondendolo sotto strati di abitudini, riti sociali, traguardi da raggiungere o frammenti di passato da dimenticare, come polvere sotto un tappeto.

Il difetto che più spesso i critici imputano a Nooteboom - cercando di spiegare il mancato arrivo di un Nobel più volte annunciato - è in realtà una qualità rara negli scrittori contemporanei: scrivere libri molto diversi uno dall'altro, usare un vasto arsenale di ombre cinesi per dare vita a una sorta di teatro filosofico, una sequenza di comtes philosophiques tanto ironici quanto profondi. 

Forse per questo è considerato un "moderno" atipico; abbiamo chiesto direttamente all'autore, prima di una visita ufficiale all'ambasciata tedesca di Roma, quanto resta del Philippe degli esordi nelle sue ultime opere. 

"Adesso sono troppo vecchio per fare l'autostop - risponde Nooteboom, classe 1933, pantaloni di un velluto rosso cupo che sarebbe piaciuto a Rembrandt e camicia bianca - Philippe e gli altri risente molto del viaggio in Provenza e in Italia. Soprattutto ricordo lo stupendo scenario della Roma barocca, i palazzi, la luce, ogni cosa era come incastonata dentro uno spettacolo teatrale permanente, per la ricchezza dei colori e dei costumi".

Difficile ambientarsi in Italia?


"Al contrario, molto facile; conoscevo il sacrista del Papa, agostiniano come i monaci da cui avevo studiato in Olanda; da loro ho ricevuto l'educazione classica di cui avevo bisogno. Mi ha ricevuto nella sua cella e mi ha ascoltato. Ricordo ancora la telefonata, il suo "sì eminenza, sì eminenza" ripetuto più volte. Dieci minuti dopo avevo in tasca mille lire (non era poco negli anni Cinquanta); un modo piuttosto concreto di darmi il benvenuto a Roma. Quello stesso giorno ho incontrato un ragazzo che mi ha detto: "Io lavoro al ministero delle finanze, se vuoi mangiare vieni con me". "Ma non so una parola di italiano!". E lui: "Non importa, stai accanto a me, ripeti quello che dico e ti riempiono il vassoio". L'ho rivisto a Milano dopo cinquant'anni, durante un incontro in cui presentavo un mio libro. Era in prima fila e l'ho riconosciuto subito. E lui aveva riconosciuto me".

Quindi partecipare all'incontro del Papa con gli artisti nel novembre scorso è stato un po' come tornare a casa?
"Diciamo che ho avuto una settimana molto strana: prima un invito a Berlino, ospite della Linke, l'estrema sinistra tedesca, chiamato a parlare davanti a seicento persone, poi l'incontro a Roma sotto la Cappella Sistina. Era difficile non essere distratti dalla bellezza dell'affresco sotto cui eravamo seduti; accanto a me c'era un collega di origine iraniana (anche lui pubblica i suoi libri in Italia con Iperborea) a cui ho cercato di spiegare la differenza tra un cardinale e un vescovo. Sarebbe stato bello avere più tempo per discutere insieme di arte e letteratura, ma mi rendo conto che non è facile organizzare un evento simile. E comunque la relazione di un artista con un'istituzione non è mai facile, di qualsiasi tipo di istituzione si tratti".

Il quadro di Paul Gauguin sulla copertina del suo ultimo libro, Le volpi vengono di notte, raffigura una zampa di animale sul cuore di una ragazza addormentata: un'immagine di una brutalità silenziosa, senza grido. La citazione della parabola evangelica dei seminatori di zizzania contenuta nel titolo è voluta o casuale?

"Effettivamente c'è una sorta di cupio dissolvi che descrive una progressiva perdita del gusto del vivere. Ad esempio Heinz, il viceconsole onorario, uno dei protagonisti dei racconti, nasc
onde una ferita segreta, che non rivela neanche a se stesso, ma che lo ucciderà lentamente".

Un omaggio a Montale, visto che Heinz vive lo smarrimento del "Forse un mattino andando in un'aria di vetro, il nulla alle mie spalle, con un terrore da ubriaco"? Tra i poeti che ha tradotto, come Wallace Stevens, Neruda, Pavese, c'è anche l'autore di Ossi di seppia.
"Sì, questi nomi passano da un comunicato stampa all'altro, ma non ho tradotto molto in realtà. Su Montale non consiglierei tanto un mio lavoro quanto la bellissima traduzione di Jonathan Galassi. Quanto al libro, non volevo scrivere l'ennesimo noioso saggio filosofico, quando potevo dire le stesse cose descrivendo persone che vivono quella situazione".

Una sorta di "correlativo oggettivo" alla Eliot?

"Più o meno; spesso i rapporti tra le persone sono il paravento di altro, o rischiano di essere un malinteso permanente, volevo comunicare al lettore questa inquietudine. Uno dei miei personaggi mentre viaggia in Marocco guardando l'immensità del deserto e del cielo senza nubi scopre il terrore di essere "un niente ridicolmente presuntuoso", Paula, la protagonista di un altro racconto, ha il terrore di amare ed essere ferita; Suzy cerca di cancellare ogni traccia del passato lavando e facendo asciugare al vento i vestiti della prima moglie dell'ammiraglio che ha sposato".