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12/09/22

E' morto il grande Javier Marìas. Il ricordo

 


Si è spento ieri sera, alla soglia dei 71 anni, il grande Javier Marìas, uno degli scrittori più importanti degli ultimi decenni. 

Non sapeva mai cosa sarebbe accaduto nei suoi libri, scopriva le cose che succedevano nel momento in cui le raccontava Javier Marias, il grande scrittore spagnolo morto oggi a 70 anni per una polmonite.

Dato piu' volte tra i favoriti alla vittoria del Premio Nobel, traduttore, giornalista, autore di 'Tutte le anime', 'Domani nella battaglia pensa a me' e 'Berta Isla' aveva raccontato lui stesso di scrivere senza una mappa, avendo pero' una bussola: "Non e' che non sappia dove voglio andare, ma non conosco la strada da percorrere, comincio senza sapere molto di quello che raccontero', non cambio nulla dei miei romanzi, come non possiamo cambiare nulla del nostro passato". 

Le zone d'ombra, il non detto, il non rivelato, l'impossibilita' di conoscere se stessi e le persone piu' vicine sono la materia che ha sempre stimolato la sua scrittura dove temi universali come il matrimonio, il tradimento, l'amore, i segreti si sono sempre accesi di una nuova e a volte inquietante luce. Figlio del filosofo Julián Marías e dell'insegnante Dolores Franco, nipote del singolare regista Jesús Franco, Javier Marias era nato il 20 settembre 1951 a Madrid in una famiglia di intellettuali anti-franchisti. 

Ha trascorso lunghi periodi dell'infanzia negli Stati Uniti dove il padre insegnava. Laureato in letteratura inglese all'Universita' Complutense di Madrid ha insegnato per un periodo all'Universita' di Oxford e negli Stati Uniti e ha tradotto in spagnolo importanti autori di lingua inglese da Thomas Hardy a Joseph Conrad e da Yeats a Stevenson. 

Fin dall'esordio nel 1971 con 'I territori del lupo', un romanzo particolare in cui 85 pellicole cinematografiche nordamericane visionate a Parigi erano diventate un 'opera letteraria, e' stato evidente il suo sperimentalismo e la rottura con la tradizione letteraria spagnola. Sono seguiti 'Traversare l'orizzonte' e nel 1978 El monarca del tiempo. Tra i suo romanzi, tutti pubblicati in Italia da Einaudi: 'Un cuore cosi' bianco', 'Gli innamoramenti', 'Cosi' ha inizio il male'. 

Il grande successo internazionale e' arrivato con 'Tutte le anime' che ha per protagonista un docente spagnolo a Oxford, con lo shakesperiano 'Domani nella battaglia pensa a me' in cui un ghost writer va a casa della donna sposata con cui ha una relazione e lei muore all'improvviso tra le sue braccia e con 'Il tuo volto domani'. 

Con il suo ultimo romanzo, 'Tomas Nevinson', uscito in Italia nel 2022 per Einaudi, aveva vinto a giugno il Premio Gregor Von Rezzori. "Quasi un monito che ci ricorda di continuare a coltivare i pensieri larghi" come sottolineava la motivazione della giuria. Il libro non e' un seguito ma "forma una coppia" con il fortunatissimo 'Berta Isla', il suo primo romanzo ad avere come titolo il nome di un personaggio. 

Un romanzo incentrato su una spia, con cui aveva raggiunto l'apice di un percorso intorno al segreto da cui tutti, piu' o meno, siamo toccati. "Bisogna nascondere una parte di se stessi, non le cose terribili, non ingannare, ma non bisogna mai rivelare tutto di se" aveva raccontato lo scrittore all'ANSA al Salone del Libro di Torino nel 2018. 

Nell'ultimo romanzo di 600 pagine Tomas Nevison, scomparso da dodici anni e dato per morto anche dalla moglie Berta Isla, torna nei servizi segreti e l'ordine che deve eseguire e' dei piu' atroci: individuare e uccidere una donna che nel 1987 aveva preso parte ad alcuni attentati dell'Ira e dell'Eta

Tanti i riferimenti e le citazioni letterarie - da Shakespeare a Baudelaire, da William Blake a Dante - come accade spesso nei viaggi che si compiono con le opere di Marias. Tanti i prestigiosi premi ricevuti dallo scrittore spagnolo tra cui il prestigiosissimo Rómulo Gallegos, il Prix Femina Etranger e molti i riconoscimenti avuti in Italia come il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e il Nonino. Marias, che parlava molto bene in italiano, era convinto che "non bisogna mai raccontare tutto, ma lasciare una parte di mistero per sorprendere sempre chi ti sta accanto" ed e' quello che ha fatto con la sua vita e con la straordinaria opera di creativita' che sono i suoi romanzi. 

06/07/21

Libro del Giorno: "Quando abbiamo smesso di capire il mondo" di Benjamìn Labatut

 



Adelphi sceglie un'opera di Yves Klein del 1960 come felice copertina per un romanzo assai sui generis che è già diventato uno dei casi dell'anno, grazie al passa parola e alle positive (in alcuni casi entusiastiche) recensioni dei giornali.  

L'opera di Klein richiama il suo famoso blu e si ricollega subito alla prima parte del libro intitolata appunta Blu di Prussia che racconta le vicende dell’alchimista che all’inizio del Settecento, infierendo sulle sue cavie, crea per caso il primo colore sintetico, lo chiama «blu di Prussia» e si lascia subito alle spalle quell’incidente di percorso, rimettendosi alla ricerca dell’elisir.  La scoperta finisce molto tempo dopo nelle mani di un brillante chimico al servizio del Kaiser, Fritz Haber, quando a Ypres constata che i nemici non hanno difese contro il composto di cui ha riempito le bombole e quando intuisce che dal cianuro di idrogeno estratto dal blu di Prussia si può ottenere un pesticida portentoso, lo Zyklon, che verrà poi utilizzato dagli aguzzini nazisti per lo sterminio degli ebrei nei Lager. 

La scelta di Adelphi è felice anche nel titolo: nella difficoltà di utilizzare quello originale (Un verdor terrible) si è scelto il titolo di uno dei capitoli, il più lungo, quello riferito alla figura del genio della fisica del Novecento, Heisenberg, il quale all'epoca ventitrenne, durante la tormentosa convalescenza per una forte allergia, sull'isola sperduta nel mare del Nord, di Helgoland, intuisce e scopre che bisogna  smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento e avventurarsi verso una forma di comprensione assolutamente nuova. Per quanto terrore possa, a tratti, ispirare: è la nascita della meccanica quantistica, che ha cambiato la storia del mondo e che resta ancora oggi una teoria profondamente misteriosa anche se verificata un numero infinito di volte (basti pensare che gran parte della nostra moderna tecnologia, tra cui telefoni cellulari o internet funziona grazie ad essa), senza mai essere smentita nemmeno una volta. 

Benjamín Labatut, l'autore, è uno scrittore cileno nato a Rotterdam nel 1980. Ha trascorso la sua infanzia tra L'Aia, Buenos Aires e Lima, per poi trasferirsi a Santiago del Cile all'età di quattordici anni. E in questo paese vive attualmente in un remoto villaggio sulla Cordigliera. Il suo primo libro di racconti, La Antártica empieza aquí, ha vinto il Premio Caza de Letras nel 2009 e il Santiago Municipal Literature Award – nella sezione racconti – nel 2013. A questo libro sono seguiti Después de la luz e Quando abbiamo smesso di capire il mondo, che è stato nominato per l'International Booker Prize 2021.

Con il suo stile lucido e disturbante, Labatut costruisce un libro strano e diverso dagli altri. L'assunto è forse proprio quello di esplorare il lato demoniaco/distruttivo della scienza che si esprime nelle stesse vicende biografiche ossessivo/compulsive dei geni, che da Heisenberg a Schrodinger, sono i protagonisti del libro. 

La scelta di romanzare, cioè di inventare particolari biografici e non mano a mano che il racconto va avanti, è spiazzante per il lettore. E lo costringe ad andare ogni volta a verificare se quello che scrive Labatut è del tutto vero o no. 

Poiché l'avvertenza sulla libertà presa dall'autore nel raccontare queste storie è messa alla fine e non all'inizio del libro, qualche lettore potrà anche sentirsi coinvolto in un gioco scomodo. Forse però è proprio quello che Labatut voleva, visto che il tema centrale del libro è proprio il dubbio relativo alla esistenza di quello che noi chiamiamo "reale", sulla consistenza del quale è proprio la scienza moderna a farci dubitare. 

Cosa è vero, cosa no? Chi e cosa sono queste menti geniali che hanno scoperchiato abissi? 

La cosa certa è che grazie a Labatut si imparano molte cose su argomenti su cui abbiamo letto tanto, senza mai finire di meravigliarsi di quanto il mistero in cui siamo calati sia spaventosamente fitto e infinitamente complicato. 

La mancanza di qualsiasi parvenza di oggettività in quello che noi pensiamo/vediamo/ realizziamo, rispetto al piano di "realtà" - ammesso che esista poi, una realtà - è sconvolgente, dato che le cose nella fisica quantistica sembrano esserci, esistere soltanto se e quando qualcuno le osserva (influenzandolo fra l'altro). 

È la via che ha preferito Benjamín Labatut in questo singolarissimo e appassionante libro, ricostruendo alcune scene che hanno deciso la nascita della scienza moderna. Ma, soprattutto, offrendoci un meraviglioso intrico di racconti, e lasciando scegliere a noi quale filo tirare, e se seguirlo fino alle estreme conseguenze.

L'unica pecca per un libro così bello è la cura editoriale - assai strano per un editore come Adelphi - che scivola sul piano dei refusi e della impaginazione. Nella edizione cartacea c'è addirittura una intera riga completamente saltata a fondo pagina, più tanti altri piccoli errori piuttosto imbarazzanti. 

Benjamín Labatut 

Quando abbiamo smesso di capire il mondo 

Traduzione di Lisa Topi 

Adelphi 2021, pp. 180 

isbn: 9788845935183 

€ 18,00 

25/02/17

Pedro Calderòn de la Barca - L'Anno Santo di Roma (1650) - un magnifico testo finora inedito in Italia.




E' un volume prezioso quello uscito da poco per La Camera Verde: la pubblicazione di un auto sacramental scritto da Calderon de la Barca per il Giubileo del 1650, inedito in Italia. 

Pubblico qui di seguito il testo scritto dal curatore e traduttore del volume Raoul Precht per Succede oggi, poco prima dell'apertura del Giubileo della Misericordia. 

Tra qualche giorno verrà dato il via alle celebrazioni dell’Anno Santo straordinario della Misericordia, fortemente voluto dall’attuale Pontefice e deciso, a quanto pare, in piena autonomia, senza alcuna consultazione con le autorità comunali e statali per le quali l’evento avrà un impatto anch’esso straordinario, in termini di entrate ma anche di uscite e di complicazioni organizzative.

Sulle ripercussioni per la città di Roma del probabile afflusso di un ingente numero di pellegrini è già stato scritto abbastanza, e sebbene le stime possano variare, e anche di molto, di certo l’avvenimento, che oltre tutto si protrae per quasi un anno, non migliorerà le condizioni di vita già difficili dei romani.

C’è però da chiedersi se questi ultimi dal 1300 (anno del primo Giubileo) in poi ne abbiano mai tratto vantaggi, ma questa sarebbe una questione complessa e fors’anche oziosa.

 Di certo, a Bonifacio VIII più che il benessere della città ospite premeva all’epoca la buona riuscita del traffico delle indulgenze, elargite ai pellegrini che avessero compiuto il viaggio a Roma e visitato le basiliche prescritte; quel traffico che avrebbe tra l’altro contribuito al disgusto provato due secoli dopo da un sacerdote per qualche mese di passaggio a Roma, tale Martin Lutero, e alla nascita dello scisma protestante.

Pure, ai tempi di Bonifacio VIII il Giubileo viene istituito ancora come misura straordinaria, addirittura ogni cento anni; sarà Clemente VI, nel 1342, ad abbreviare il lasso di tempo fra un Anno Santo e l’altro a cinquant’anni, seguendo alla lettera quanto prescritto dal Signore a Mosè sul Monte Sinai (Levitico: 25, 8-55, lettura tra l’altro interessante per chi si occupi di agricoltura e messa a maggese delle terre); peggio di lui (o meglio, a seconda dei punti di vista) faranno Urbano VI nel 1390, diminuendo la distanza fra un Giubileo e l’altro a 33 anni, e Paolo II, che nel 1475 la riduce a 25 anni.

Fino a quando, nel 1500, Alessandro VI la riporta a cinquant’anni e definisce una volta per tutte le cerimonie di celebrazione, con l’apertura e la chiusura delle quattro Porte Sante a S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S. Paolo fuori le mura.

Se gli aspetti commerciali dell’operazione sono innegabili – e non è un caso che ai Giubilei ordinari oggi se ne aggiungano di straordinari, come questo che ci attende –, dal punto di vista dottrinale la celebrazione del Giubileo induce a una riflessione approfondita su diversi aspetti della fede, riflessione che fra l’altro ha portato alla nascita di un genere teatrale a sé stante.

E se parlo di teatro, è perché di sicuro in passato il Giubileo permetteva al popolo anche di divertirsi un po’, sia pure nei limiti imposti dalla devozione, con spettacoli e feste sfarzose da cui altrimenti sarebbe stato escluso.

Viene in mente, a mo’ d’esempio, la grande festa offerta dagli spagnoli a Piazza Navona nel 1650, con spettacolari fuochi d’artificio e una scenografia provvisoria con due grandi cappelle (una dedicata al Resuscitato, l’altra alla Vergine) davanti alla Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore (in passato San Giacomo degli Spagnoli, appunto, chiesa del Regno di Castiglia, ricolma di statue e altari dedicati a Santiago).

Va detto che l’architettura barocca della piazza non era ancora ultimata, in quanto la fontana del Bernini è dell’anno successivo e della chiesa di Borromini non c’erano neanche i progetti: in un certo senso Piazza Navona offriva quindi uno spazio scenico ideale, lasciando mano libera agli organizzatori dello spettacolo e permettendo alle folle di goderne pienamente.

Un esempio di questi spettacoli è offerto dal genere teatrale cui accennavo poc’anzi, gli autos sacramentales, genere nato nel Medioevo (il primo è la Representación de los Reyes Magos, nel 1145), ma perfezionatosi poi nella Spagna della Controriforma.

Il sottogenere che ci interessa qui, l’auto allegorico, trova il suo primo rappresentante in Lucas Fernández, con il suo Auto de la Pasión, intorno al 1500, ma avrà consacrazione definitiva con Pedro Calderón de la Barca (nell’illustrazione).

In pratica, il misterio o moralidad medievale va pian piano approfondendo i contenuti dottrinali, anche in conseguenza del Concilio di Trento, e sul palcoscenico compaiono personaggi simbolici chiamati a incarnare concetti astratti.

Sembrerebbe qualcosa di estremamente asciutto e poco attraente, non fosse stato per l’apparato scenografico, le trappole teatrali e gli effetti speciali, che facevano di questi spettacoli qualcosa di simile ai nostri film in 3D sui dinosauri.

Con una piccola differenza: i temi centrali erano di volta in volta l’esaltazione dell’eucaristia, l’ultima cena, la vita dei santi, episodi dell’Antico Testamento, parabole evangeliche, e così via. In altre parole, essendo il plot meno che avvincente, gli ultimi ritrovati della pittura, della scultura, dell’architettura e, perché no, della musica diventavano imprescindibili per la fruizione di questo tipo di rappresentazioni, che non a caso si sviluppano solo in Spagna, mentre in tutto il resto d’Europa il teatro religioso attraversa una profonda crisi.

La maestria di Calderón sta nel saper conciliare elementi teologici e dottrinali con le correnti letterarie alla moda (concettismo e gongorismo) e soprattutto con gli espedienti spettacolari offerti dalle macchine teatrali di allora.

 Proprio nel 1650 Calderón scrive e fa mettere in scena L’Anno Santo di Roma, il cui protagonista, l’Uomo, assistito dai dieci comandamenti, si mette in viaggio da pellegrino per poter raggiungere Roma e ottenere l’indulgenza.

Il viaggio si fa davvero drammatico quando il Mondo, all’uomo se non ostile, indifferente, gli fa incontrare la Lascivia, ovvero il principale fra i vizi, e Lucifero, che rappresenta il Demonio e che con la sua complice tenterà in tutti i modi di allontanarlo dalla retta via.

Oggi può sembrarci un’impresa improba, ma all’epoca su questo canovaccio si era capaci di costruire un evento spettacolare, con danze, musica, oggetti scenici bizzarri, costumi, battute (quasi sempre affidate al libero arbitrio che fa le veci del gracioso nella commedia classica), effetti speciali e sorprese a non finire, con cui intanto il drammaturgo veicolava sornione la visione del peccato, delle passioni e del riscatto che Santa Madre Chiesa imponeva ai suoi sudditi.

Chissà se in Vaticano qualcuno ci ha pensato, o ci sta pensando: recuperare Calderón e metterlo in scena sarebbe davvero uno spettacolo, senz’altro più degno di quelli a cui certi monsignori e cardinali ci hanno abituato negli ultimi secoli.

Pedro Calderòn de la Barca
L'Anno Santo a Roma (1650)
La Camera Verde
Roma, 2017

11/03/15

Studiosi spagnoli: "Ritrovati i resti di Cervantes".



Gli studiosi che da mesi conducono le ricerche dei resti del padre di don Chisciotte, Miguel deCervantes, nella chiesa delle Trinitarie scalze di Madrid, sono convinti di aver ritrovato le ossa dello scrittore e di sua moglie, Catalina de Salazar. 

Caute le fonti del Comune madrileno, che finanzia i lavori: i frammenti recuperati "sono in pessimo stato".

Per il Comune al momento "non si puo' garantire si tratti dei resti di Cervantes e della moglie". 

I residui di ossa, secondo le fonti, sono stati ritrovati assieme a materiale osseo di vari adulti e bambini in una delle cripte, che non e' nel punto in cui l'autore del Don Chisciotte fu sepolto nel 1616, ma dove la salma fu successivamente trasferita nel 1673, quando cominciarono i lavori di riforma della chiesa, ubicata nel quartiere de las Letras di Madrid. 

"Non troveremo Cervantes con il suo nome iscritto sul feretro", ha ironizzato il medico forense, Francisco Etxebarria, che guida la squadra di ricercatori, in dichiarazioni ai media. 

I particolari del ritrovamento saranno resi noti in una conferenza stampa al Comune di Madrid, ancora senza data. 

L'istituzione ha promosso e finanziato le ricerche dei resti di Cervantes, del quale si celebreranno i 400 anni dalla morte nell'aprile 2016, devoto dell'ordine delle Trinitarie scalze, che lo salvarono da cinque anni di prigionia ad Algeri. 

06/09/12

"L'amore fa male, ma è necessario" - Una intervista di Enrique Vila-Matas.




Ognuno di noi crede di essere stato invitato davvero, e personalmente, all’amore – Un’intervista a Enrique Vila-Matas

di Elena Stancanelli

Mi piacerebbe riuscire a rendere con le parole tutti quei silenzi. Il modo in cui, alla fine di una frase, Enrique Vila-Matas si fermava e mi guardava senza parlare, con i suoi occhi grandissimi. E quando finalmente mi decidevo io a dire qualcosa, lui mi interrompeva e, dal profondo del suo semplice stare, mi diceva una cosa sublime. Non si deve mai tornare su una storia d’amore finita, per esempio. Perchè se ti volti indietro, se rifai la strada al contrario la prima cosa che incontrerai, di quell’amore, è la sua morte.

Ci siamo incontrati a Firenze, in occasione del premio Von Rezzori che Vila-Matas ha vinto con la raccolta di racconti “Esploratori dell’abisso” (Feltrinelli). Nato a Barcellona nel 1948, ha scritto saggi, romanzi e racconti. E’ uno scrittore che scrive di letteratura anche quando racconta il mondo, che non conosce il peccato di realtà. Nel salotto di un albergo elegante, mentre fuori il caldo bruciava la città, gli ho chiesto di parlarmi d’amore.

È un argomento difficile. Vede, il tema dell’amore è strettamente legato a quello della verità. Nel 1939, uno scrittore francese scrisse un saggio, intitolato “L’amore e l’occidente” (Rizzoli).  Denis Rougemont, questo era il suo nome, sosteneva che nel nostro mondo l’amore fosse fondato su un’idea narcisistica. Partendo dal mito di Tristano e Isotta, spiega che ciò di cui noi fatalmente ci innamoriamo, non è l’altro, ma l’idea stessa di amore. Che appunto prescinde dalla persona amata, ed è invece un’auto-esaltazione di colui che ama, del suo coraggio nell’affrontare gli ostacoli. Un amore-martirio, infelice e non sensuale, che si esaurisce nella passione che brucia. Questo concetto, centrale nella poesia trobadorica e i romanzi medievali, è arrivato intatto fino ai nostri giorni.

C’è una scena bellissima ne “Il Grande Gatsby”  di F. S. Fitzgerald, ce ne sono tante in verità in quella che io considero forse la più perfetta storia d’amore mai raccontata. Ma quella a cui mi riferisco è il primo incontro tra Gatsby e Daisy, dopo cinque anni. Nick ha invitato la ragazza a prendere un the a casa sua, su suggerimento di Gatsby. Vuole andarsene, lasciarli soli. Ma loro insistono che rimanga. Perchè, si chiede Nick. “Forse”, scrive Fitzgerald, “la mia presenza li faceva sentire più piacevolmente soli”. È una frase sibillina. Siri Hustvedt, la scrittrice moglie di Paul Auster, ha parlato di questo momento in un suo saggio. Mi piace molto quello che dice: l’amore, scrive Hustvedt, per esistere ha bisogno di essere visto. È una coppia composta da tre persone. Forse essere innamorati, amare, è una condizione talmente ineffabile che solo un testimone può renderla credibile, reale. Forse Daisy aveva bisogno di Nick per “vedere” il suo amore per Gatsby.

Si possono raccontare solo gli amori infelici?
Non necessariamente. Nabokov per esempio è uno scrittore che ha saputo descrivere anche amori leggeri, compiuti. Però è vero che i più bei romanzi d’amore raccontano di passioni che spezzano la vita. Amori che sono malattie, come quello tra Heathcliff e Catherine, in “Cime Tempestose” di Emily Bronte. Eterni, indissolubili. Amori disperati, come quello di Adele H, la figlia di Victor Hugo, per quello stupido tenente francese, nel film di Truffaut. Il più sublime esempio di amore che trascende la vita stessa, è quello raccontato da Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte). Il legame che unisce il protagonista, James Stewart a Kim Novak, nel doppio ruolo di Madeleine/Judy. Chi è la donna di cui davvero lui si innamora? Un fantasma del passato che lui ricostruisce con pazienza nel corpo di lei, trasformandola in quello che il suo desiderio sta cercando. Questo storia ci rivela la complessità e il mistero di quello che chiamiamo l’amore passionale. Che si contrappone all’amore quieto e razionale che costituisce la base dei cosiddetti matrimoni per convenienza. Fondati non sull’innamoramento ma su un contratto sociale, una logica economica. Chi può dire quale delle due condizioni garantisce maggiore durata e felicità? Quel che è certo è che l’amore, in qualsiasi forma, è l’unico sentimento che ci introduce all’idea dell’altro, che ci permette di uscire dalla condizione stringente dell’identità, dell’io nevroticamente arroccato in se stesso, e conoscere il mondo.

Lamore  dunque fa male ma è necessario.
È ineludibile.

26/01/12

Caccia alla tomba perduta di Cervantes.


Al via le ricerche per la tomba perduta di Miguel de Cervantes (1547-1616), uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, autore del mitico ''DonChisciotte della Mancia''. 

Un'equipe di ricercatori guidati dallo storico spagnolo Fernando Prado ha ottenuto un permesso straordinario, da parte delle suore del Convento de las Trinitarias Descalzas di Madrid, dell'arcivescovo e dell'Accademia Reale, per scandagliare con tecnologie geo-radar le mura, i pavimenti e i sotterranei del convento stesso in cerca delle ossa del grande scrittore, che secondo le cronache vi fu sepolto subito dopo la morte. 

A trasformare la vicenda in un'impresa degna di Don Chisciotte, tuttavia, sono le innumerevoli incertezze che la circondano, riferisce un articolo del sito on line Tropico del Libro: il corpo di Cervantes potrebbe ancora trovarsi entro i tremila metri quadri di estensione dell'edificio, oppure essere stato spostato in un convento vicino durante dei lavori di ristrutturazione, o ancora essersi mescolato con altri resti umani conservati nella struttura. 

Se anche poi la spedizione scientifica dovesse riuscire a trovare le ossa, identificarle come realmente appartenenti a Cervantes costituirebbe di per se' un altro problema, dato che probabilmente non conterrebbero abbastanza Dna da poter essere confrontato con quello dei discendenti dello scrittore. 

Per poterle attribuire con certezza a Cervantes, gli scienziati pensano invece di cercare tracce di una ferita d'archibugio che l'autore ricevette durante la battaglia di Lepanto nel 1570. Nel caso in cui il ritrovamento e l'identificazione si rivelino un successo, il progetto del professore Prado punta ancora piu' in alto, deciso a determinare una volta per tutte quale fu la causa della morte di Cervantes (cirrosi epatica, diabete, o magari alcolismo) e addirittura a prendere un calco del suo teschio e utilizzarlo per ricostruirne il volto. 

Il tutto entro il 2016, giusto in tempo per la celebrazione mondiale del quarto centenario della morte di Cervantes che, circostanza curiosa, coincide esattamente con quella di William Shakespeare.