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23/12/20

Libro del Giorno: "La commedia umana" di William Saroyan



Raramente capita di leggere un libro così colmo di grazia.

E' relativamente facile incontrare romanzi travolgenti o stravolgenti, pieni di avventure o disavventure o semplicemente alla ricerca di un tortuoso percorso interiore. 

Molto raramente invece si incontrano romanzi come questi, che sono una perfetta forma compiuta, la descrizione di un mondo piccolo e provinciale nel quale ogni essere umano si può ritrovare come se fosse il proprio, dove non c'è nemmeno una parola fuori posto, dove tutto si chiama come si deve chiamare, ogni sentimento umano, ogni cosa - accadimento, gioia e dolore - che cade sul capo di un essere umano, semplicemente perché egli è vivo e vive e fa parte di quella che nel titolo stesso è evocata - con un richiamo balzachiano - come La Commedia Umana, che fu scritto da William Saroyan in piena guerra, nel 1943, mentre Hollywood produceva il film con lo stesso titolo e la stessa storia, ma con il semplice fatto che la sceneggiatura originale di Saroyan - troppo letteraria - era stata rifiutata e affidata a un navigato sceneggiatore, Howard Estabrook. 

Seccato e colmo di disappunto per il rifiuto, Saroyan decise di trasformare la sceneggiatura in un romanzo, ricevendo comunque l'Oscar di quell'anno per il miglior soggetto originale del film diretto da Clarence Brown con Mickey Rooney protagonista. 

Tre anni prima, Saroyan aveva già vinto il premio Pulitzer. 

Era nato il 31 agosto 1908 a Fresno, in California , da Armenak e Takuhi Saroyan, immigrati armeni da Bitlis , nell'impero ottomano. 

Suo padre era arrivato a New York nel 1905, iniziando a predicare nelle chiese apostoliche armene.  All'età di tre anni, dopo la morte del padre, Saroyan, insieme a suo fratello e sua sorella, fu ricoverato in un orfanotrofio a Oakland, in California 

Di questa infanzia difficile e dolorosa, cominciò a scrivere dopo che la madre gli mostrò alcuni scritti del padre. La sua prima raccolta di racconti, My name is Aram, uscita nel 1940, divenne un best-seller internazionale e venne subito tradotto in molte lingue. 

La Commedia Umana fu il suo primo romanzo di grande successo seguito da molti altri, fino alla morte avvenuta nel 1981.  E mentre secondo la critica (Stephen Fry), quella di Saroyan è "una delle figure letterarie più importanti della metà del XX secolo", allo stesso tempo egli è  "uno degli scrittori più sottovalutati del secolo", nonostante lo stesso Fry suggerisca che Saroyan possa essere messo sullo stesso piano di "accanto a Hemingway , Steinbeck e Faulkner ". 

Anche in Italia Saroyan è attualmente poco conosciuto e poco letto.

Ed è un peccato. 

Chi vuole accostarsi alla sua limpida letteratura può cominciare da questo romanzo, che ha per protagonista Homer, un ragazzino di quattordici anni pieno di entusiasmo. 

La famiglia Macauley, da cui proviene, è modesta, le difficoltà non sono poche: il babbo è morto e il fratello maggiore è partito per la Seconda guerra mondiale; eppure tutti si dedicano con energia a quel che va fatto: la mamma alle galline come all’arpa, la sorella agli studi e al pianoforte, e Ulysses è il fratellino più curioso del mondo. 

Homer, che ha assunto il ruolo di capofamiglia, di giorno frequenta il liceo, la sera si tuffa in bicicletta alla volta dell’ufficio del telegrafo, dove lavora come portalettere. 

Pochi giorni, e già si rivela come messaggero più veloce della West Coast. Entra così – leggero e deciso, quasi volando – nel mondo degli adulti: il suo segreto è prendere sul serio le cose e i sogni per diventare qualcuno, anzi, capire di esserlo già. 

Sullo sfondo, la natura rigogliosa e i colori della California, una banda di ragazzini vispissimi, negozianti armeni, giganti buoni, primedonne giramondo… 

Delicato e ironico, questo libro è il ritratto formidabile di uno stile di vita scomparso, è una parabola sull’adolescenza e sul mondo degli immigrati d’America degli anni Quaranta, ma anche una declinazione dei sentimenti e dei destini umani.  Un piccolo classico in trentanove episodi. 

Come scrive Emanuele Trevi La commedia umana è un miracolo dell’equilibrio formale, nel quale l’innocenza è ancora un modo acuto e preciso di conoscere il mondo, una ricchezza dello sguardo”.



12/06/19

Libro del Giorno: "Di là dal fiume e tra gli alberi" di Ernest Hemingway




Pubblicato nel 1950, questo romanzo fa seguito al silenzio di Hemingway, durato 10 anni e seguito alla pubblicazione di Per chi suona la campana, nel 1939, uno dei più grandi successi. 

Il contrario di quello che accadde a Di là dal fiume e tra gli alberi, che fu ferocemente stroncato dalla critica, che aspettava al varco il ritorno di Hemingway dopo tanta inattività da scrittore, visto che in quei 10 lunghi anni era stato impegnato su ogni fronte: da quello bellico, in Europa durante la seconda guerra mondiale, a quello giornalistico, con le corrispondenze dalla Cina, da quello privato, con nuovi amori e nuove mogli, a quello itinerante, con i suoi viaggi avventurosi che lo condussero ovunque. 

Di là dal fiume e tra gli alberi è un romanzo singolarissimo,  quasi un non-romanzo che su 350 pagine si compone di quasi 200 pagine di ininterrotto dialogo tra i due protagonisti, un colonnello di fanteria USA, Cantwell, cinquantenne, alter-ego dello scrittore, e una diciannovenne contessina veneziana, sullo sfondo della Venezia più amata da Hemingway, quella invernale e notturna dell'Hotel Gritti, del caffè Florian e delle continue bevute al mitico Harry's Bar di Cipriani, che deve proprio allo scrittore americano la sua fama ormai universale. 

Nulla o quasi succede nel romanzo, che respira un'aria stagnante - paludosa - di morte.  Cantwell è un reduce di mille battaglie, è stato gravemente ferito, è ossessionato dalle vicende che hanno visto, durante l'avanzata verso Parigi, sterminato il reggimento di cui era a capo, e sente la morte vicina, per il suo cuore ormai fragile. 

L'amore impossibile per la ragazza - "l'ultimo e vero amore" ripete incessantemente Cantwell tra sé e sé e a lei - è il coronamento di una vita vissuta - come quella del vero Hemingway - con la presenza continua e ossessiva del rischio e della morte. 

I dialoghi e le visioni allucinate dall'alcool - memorabile almeno una scena, quella del giro notturno in gondola dei due amanti, tra le onde scure e il freddo gelido della laguna - sono la cornice; il sottotesto è un drammatico congedo dal mondo, di un distacco dalle amate e sofferte cose terrene, che non si possono possedere e che si possono soltanto perdere. 

Il vecchio leone - negli anni seguenti Hemingway vincerà il Premio Nobel e si congederà con quello che fu considerato il suo capolavoro, Il vecchio e il mare - preconizza la sua stessa morte, che avverrà realmente nelle modalità estreme del celebre suicidio con l'arma da caccia. 

Il romanzo fu tradotto in Italia da Fernanda Pivano, che nella bella introduzione racconta le sue mille vicende con il romanziere, i viaggi, gli inciampi, le sue debolezze, il suo fascino irresistibile, il bel mondo degli anni '60; ma in ritardo: per volontà stessa di Hemingway infatti, il romanzo fu tradotto in Italia soltanto dopo la sua morte, certamente per tutelare l'identità della giovane contessina su cui comunque i giornali scandalistici americani all'epoca si scatenarono comunque. 

Ricostruendo così la genesi del libro: nell'autunno del 1948, infatti, Hemingway, impegnato in una battuta di caccia alle anatre in compagnia di un amico aristocratico, incontrò a Venezia la giovane Adriana Ivancich, nobile di una familia di origine dalmata, nata a Venezia nel 1930 (e morta suicida nel 1983). 

Successivamente, quando era a Cortina d'Ampezzo a sciare con la moglie, lei si ruppe la caviglia e  Hemingway, annoiato, iniziò a scrivere il romanzo. Nella primavera successiva si recò a Venezia, approfondendo la conoscenza dell'adolescente, con la quale intrattenne una fitta corrispondenza nei mesi seguenti e terminando poi la scrittura del romanzo nella villa della Finca Vigia, a Cuba

Fabrizio Falconi 

Ernest Hemingway
Di là dal fiume e tra gli alberi
Traduzione e introduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore Milano,1965
pp. 349
Euro 11.05

04/05/19

Libro del Giorno: "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald



Che romanzo meraviglioso e difficile è Il grande Gastby.

Fuori dall'uso che ne hanno cinema e teatro, ricreando sul grande schermo o sul palcoscenico le ambientazioni di quella New York anni ’20, divisa tra jazz, feste dell’alta società e profonde contraddizioni sociali, a metà tra la fine della Grande Guerra e il periodo della Grande Depressione, il romanzo di Francis S. Fitzgerald, riletto oggi mostra la grandezza del suo sperimentalismo, ardito per l'epoca, esempio anche per l'oggi di ciò che la letteratura dovrebbe essere. 

Un romanzo sospeso e profondo, nel quale i fatti sembrano quasi non succedere, sgranati dentro un tessuto onirico dove il tempo e il sogno si dividono gli spazi e sovrastano l'osservazione realistica. 

Ogni frase di Fitzgerald - anche nella sua costruzione, anche nella semplice scelta degli aggettivi e dei toni di contrasto - ha il potere e la capacità di spiazzare il lettore, negandogli ciò che egli si aspetta,  e lasciandolo in una sorta di limbo in cui è difficile decidere ciò che è vero da ciò che sembra, da ciò che è immaginato o sognato, o intravisto attraverso la coltre del vissuto. 

La trama, in effetti, è riassumibile in poche scarne righe, raccontando le vicende di Jay Gatsby, giovane miliardario dal passato oscuro e dal cuore infranto. 

La sua meravigliosa villa fuori New York, a West Egg è popolata come non mai da avventori di ogni tipo che partecipano, vengono invitati ai suoi lussuosi party, eppure nessuno sembra conoscerlo veramente, nessuno ci scambia una parola, nessuno è veramente suo amico, nessuno sa cosa nasconda nel cuore e nel passato, se non quel Nick Carraway che  è il narratore -  venuto dal West a cercare fortuna a New York -  e che sarà l'unico a rimanergli vicino, fino alla fine.

Nick è il cugino di Daisy Fay, che ha sposato il giocatore di golf Tom Buchanan, marito infedele e assente. Gatsby chiede a Nick di combinare un incontro fra lui e Daisy, perché proprio lei è la ragazza di cui il giovane miliardario si era innamorato anni addietro, prima di partire per la Prima guerra mondiale, dove si è fatto onore ed è stato decorato. 

I pomeriggi passati insieme dai due amanti di un tempo, incoraggeranno Gatsby a illudersi della possibilità di riconquistare la donna amata. 

Ma tutto svanirà, per lui, drammaticamente, durante una gita a New York, cui partecipano anche Nick, l’amica di lei Jordan Baker, e Tom.

Daisy resta muta infatti quando nel confronto con Tom, Gatsby gli chiede di confessare al marito di non averlo mai amato.

Si spezza definitivamente il sogno di Gatsby, fino alla tragedia finale.

Metafora della fine stessa del sogno americano, la vicenda di Gatsby è anche una potente lezione sulla condizione di solitudine dell'essere umano, della impossibilità di vivere con profondità i rapporti umani e i sentimenti, in un mondo convertitosi definitivamente al culto dell'apparenza e della vita superficiale. 

Anche Gatsby, l'uomo che ha osato, che è rinato dalle proprie ceneri, che si è sporcato le mani per raggiungere il suo sogno, resta a mani nude, solo.

Con quell'epitaffio definitivo che è la chiusa, l'ultima frase del libro, nella quale Fitzgerald conchiuse, probabilmente, la consapevolezza della sua stessa vicenda esistenziale: 

Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato. 

Francis Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby
Traduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore, 1950
pp. 215


06/08/18

Libro del Giorno: "Il mio mortale nemico" di Willa Cather.



Scritto nel 1926, questo è un altro dei grandi romanzi brevi scritti da Willa Cather (1873 - 1947) di cui abbiamo già parlato pochi giorni fa a proposito di Una signora perduta.

La vicenda prende il via dalla provincia profonda americana - dalla quale proveniva anche la Cather - in una cittadina dove è ancora vivo il ricordo della bella Myra Henshawe, rimasta orfana e allevata dal ricco zio, che ha rinunciato all'eredità per amore.

Una notte, la giovane Myra è infatti scappata di casa portando con sé solamente un manicotto e un portamonete. A passo svelto e testa alta, se n'è andata per sempre. Ha raggiunto Oswald Henshawe, giovane spiantato di cui è innamorata, e lo ha sposato, rinunciando così ai beni dello zio che le spetterebbero. Un gesto audacemente romantico, che in famiglia diventa una leggenda colpendo non poco la fantasia della ragazzina Nellie, la quale qualche anno più tardi ha la possibilità di incontrare da vicino, a New York, l'eroina di cui ha così tanto sentito parlare.

Ha così la conferma del carisma della donna, del suo innegabile charme: né gli amici artisti, cui riserva una conversazione dove vibra «una lingua speciale» e un’incorreggibile prodigalità, né gli «amici ricconi», che subiscono rassegnati il suo sarcasmo fulmineo riescono a resisterle.

A mano a mano però Nellie scopre - osservando la coppia da vicino -  che è come se nella casa degli Henshawe, dove regnano spensieratezza e buone maniere e ogni cosa appare unica e irripetibile, penetrasse uno spiffero gelido, suscitando un misterioso terrore e crepe minacciose minassero quell'apparente incanto. 

Dieci anni più tardi, incontrando di nuovo Myra e il marito sulla West Coast, Nellie capirà che quella coppia perfetta era un esempio di legame fondato sull’odio non meno che sulla passione, giacché «si può essere nemici e amarsi allo stesso tempo».

Anche la madre di Nellie del resto, quando lei ancora bambina, le aveva chiesto se Myra e Oswald fossero poi sono stati felici, le aveva rivolto una risposta glaciale: «Felici? Oh, sì! Come la maggior parte della gente». E allora a che cosa è servito quel sacrificio? Che senso ha avuto barattare grandi fortune per una vita banalmente normale? Quelle che emergono, in questo romanzo breve ma stratificato, sono le mille sfumature di una figura ambigua e tormentata, una donna tanto risoluta nelle sue clamorose rinunce, quanto incapace di godere di una felicità che di clamoroso non ha nulla. 

Uno spirito libero che si trova a combattere contro i limiti della quotidianità e la crescente, esasperante consapevolezza di essere una donna totalmente diversa da quella che pensava di essere in giovane età. Tanto che in un momento di quieta disperazione, ridotta quasi all'immobilità, Myra definisce il marito "il mio mortale nemico".

Willa Cather descrive queste variazioni così sensibili sul tema della felicità e delle illusioni, in un piccolo capolavoro: pagine davvero indimenticabili, intrise di una grande carica drammatica. 

«Cather non è solo una brava scrittrice: è unica, è grandiosa», scrive Antonia S. Byatt nella bellissima introduzione al volume, «Il mio nemico mortale è una vera tragedia costruita a partire da una vera storia d’amore. La scrittrice che è in me pensa a questo libro più che a ogni altro dell’autrice. Ogni breve episodio è la rivelazione perfetta di qualcosa di nuovo e inaspettato. Non c’è una sola parola superflua o ridondante. È un romanzo al tempo stesso distaccato e dolorosamente commovente».

Fabrizio Falconi

Willa Cather 
Il mio mortale nemico 
Traduzione di Monica Pareschi 
Piccola Biblioteca 
Adelphi 2006, pp. 112

12/07/18

Libro del Giorno: "Una signora perduta" di Willa Cather.





Può essere perfetto un romanzo di sole 140 pagine che racconta una vita intera e di questa vita un carattere indimenticabile ? 


La risposta è sì. Se l'autrice è Willa Cather (1873-1947), scrittrice americana, in Italia ancora assai poco conosciuta e penalizzata come altre sue colleghe tra fine ottocento e primi del Novecento dal genere femminile a cui apparteneva. 

Proprio l'equivoco della letteratura di genere  ha contribuito ad oscurare Willa Cather e altre come lei, rispetto a più blasonati colleghi maschili. Ma il tempo sta restituendo loro il posto che meritano, come testimonia il fatto che la Cather sia amatissima di John Updike e da molti altri autori contemporanei. 

Nata in Virginia nel 1873, cresciuta in Nebraska, la Cather ha raccontato l'America della frontiera, quella dei primi migranti europei che cercavano fortuna nel libero e promettente Midwest cantandone la lenta e inesorabile decadenza suscitata dall'avanzare dallo strapotere delle metropoli dell'East e della West Coast. Proveniente dalla critica teatrale e dal giornalismo la Cather finì per dedicarsi completamente alla scrittura vincendo il Premio Pulitzer 1923 col romanzo Uno dei nostri (in Italia uscito da Elliot nel 2014) e pubblicando altri fortunati romanzi come La morte viene per l'Arcivescovo (Neri Pozza), considerato da molti il suo capolavoro o Una signora perduta pubblicato da Adelphi nel 1990 e continuamente ristampato.

Con la sua prosa asciutta ed elegantissima che rimanda gli echi di Flannery O'Connor e di Carson McCullers e ancora più indietro, di  Hawthorne e Melville, Willa Cather scrisse questo breve romanzo nel 1923, poco tempo prima della Grande Depressione che cambiò faccia al continente e all'Occidente intero. 

Sulla nuova strada ferrata costruita dalle ferrovie Burlington, lungo il tragitto tra Omaha e Denver, la Cather ambienta la sua storia in una piccola località sperduta nelle immense praterie dei territori, dal nome promettente: Sweet Water. 

Qui si è ritirato a vivere il Capitano Forrester, che della costruzione della ferrovia è stato l'eroe indiscusso cambiando per sempre la vita e la fortuna di tanti coloni arrivati a rendere patrimonio la nuova terra promessa.  

Sweet Water, un piccolo snodo di sosta, è per il Capitano un luogo del cuore.  Qui decide di fermarsi e vivere, in mezzo alla natura incontaminata, con una giovane sposa, una vedova conosciuta in California. 

Marian Forrester è dunque la vera protagonista di questa storia: bellissima, nobile, affascina ogni visitatore; è la regina della magione di Sweet Water, la casa dei Forrester. La conosciamo dagli occhi adoranti di un ragazzo, Niel, che insieme ai suoi compagni gioca e cresce nei terreni dei Forrester, ammaliato dalla eleganza della donna, dal suo sincero, limpido buonumore, dalla sua capacità di rendere meravigliosa la giornata di chiunque la incontri. 

Crescendo, Niel impara però che l'immagine radiosa della donna - e della sua dedizione al Capitano - nasconde qualcosa di sordido e di difficilmente confessabile che non ha a che fare soltanto con il passato della donna, ma anche col suo presente. Una sorta di desiderio di consunzione e di deriva. 

Limpido e controllatissimo, lucido fino alla fine, il racconto della Cather è il racconto minuzioso di un carattere, di un carattere che resta - per definizione - non del tutto conoscibile, ma che si esprime in una sottile e inquietante continua ambivalenza. 

La lunga malattia del Capitano rende sempre più difficile per Marion sostenere il ruolo che ha scelto di ricoprire, per una donna come lei che non è disposta, e non sarà mai disposta, a rinunciare alla vita. 

Epigono di altri modelli letterari femminili, Marion Forrester è un carattere che non si dimentica, perché lo si percepisce come vero, fino alla fine. 

La vera letteratura, del resto, per la Cather, nasceva dalla umiltà dello sguardo: "Lascia che le storie nascano dalla terra che calpesti", diceva.

La terra dei Forrester, la terra di Sweet Water, i grandi cieli notturni, il fango degli acquitrini e dei fossi, l'effimera bellezza delle rose coltivate dal Capitano, la grande meridiana in pietra arenaria rossa sono le immobili sentinelle di un racconto che si snoda perfetto fino a toccare ogni corda del versatile cuore umano. 

Fabrizio Falconi 

Willa Cather
Una signora perduta
Traduz. Eva Kampmann
Adelphi 1990

27/05/18

La Pagina della Domenica: da "Everyman" di Philip Roth.



Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c’erano alcuni dei suoi ex colleghi pubblicitari di New York che ricordavano la sua energia e la sua originalità e che dissero alla figlia, Nancy, che era stato un piacere lavorare con lui. C’erano anche delle persone venute su in macchina da Starfish Beach, il villaggio residenziale di pensionati sulla costa del New Jersey dove si era trasferito dal Giorno del Ringraziamento del 2001: gli anziani ai quali fino a poco tempo prima aveva dato lezioni di pittura

E c’erano i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, Randy e Lonny, uomini di mezza età molto mammoni che di conseguenza sapevano di lui poche cose encomiabili e molte sgradevoli, e che erano presenti per dovere e nulla più. C’erano il fratello maggiore, Howie, e la cognata, venuti in aereo dalla California la sera prima, e c’era una delle sue tre ex mogli, quella di mezzo, la madre di Nancy, Phoebe, una donna alta, magrissima e bianca di capelli, col braccio destro inerte penzoloni sul fianco. 

Quando Nancy le chiese se voleva dire qualcosa, Phoebe scosse timidamente il capo, ma poi finì per dire con voce sommessa, farfugliando un po’: – È talmente incredibile… Continuo a pensare a quando nuotava nella baia… Tutto qui. Continuo solo a vederlo mentre nuota nella baia -. E poi c’era Nancy, che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate a quelli che erano venuti per evitare che al funerale venissero solo sua madre, lei, il fratello del defunto e la cognata. 

C’era solo un’altra persona la cui presenza non era stata sollecitata da un invito, una donna robusta con una simpatica faccia tonda e i capelli tinti di rosso che era venuta spontaneamente al cimitero e si era presentata col nome di Maureen, l’infermiera privata che lo aveva assistito dopo l’operazione al cuore di qualche anno prima. Howie si ricordava di lei e andò a darle un bacio sulla guancia.

Nancy disse a tutti: – Posso iniziare dicendovi qualcosa di questo cimitero, perché ho scoperto che il nonno di mio padre, il mio bisnonno, non solo è sepolto nelle poche centinaia di metri quadrati del nucleo originario accanto alla mia bisnonna, ma fu anche uno dei suoi fondatori nel 1888. L’associazione che per prima finanziò ed eresse il cimitero era composta dalle società incaricate delle onoranze funebri delle organizzazioni caritatevoli e delle congregazioni ebraiche sparse nelle contee di Union ed Essex. Il mio bisnonno era il proprietario e il gestore di una pensione di Elizabeth che accoglieva soprattutto immigrati arrivati di fresco, e si preoccupava del loro benessere piú di quanto in genere facesse un possidente. Ecco perché fu tra i soci originari che acquistarono il campo che c’era qui e lo spianarono e lo disegnarono personalmente, ed ecco perché diventò il primo presidente del cimitero. Allora era un uomo relativamente giovane ma nel pieno vigore delle forze, e c’è solo il suo nome sui documenti nei quali si specifica che il cimitero era destinato ad «accogliere i soci defunti in armonia con le norme e i riti ebraici»

Come appare fin troppo evidente, la manutenzione dei singoli lotti e del recinto e dei cancelli non è piú come dovrebbe essere. Le cose sono marcite e crollate, i cancelli sono arrugginiti, i lucchetti spariti, ci sono stati dei vandalismi. Ormai questo posto è diventato il retrobottega dell’aeroporto, e quello che sentite a qualche miglio di distanza è il rumore costante dell’autostrada, la New Jersey Turnpike. 

Naturalmente avevo pensato, prima, ai posti veramente belli dove mio padre poteva essere sepolto, i posti dove andava a nuotare con mia madre quando erano giovani, e le località costiere dove amava fare il bagno. 

Ma nonostante il fatto che guardarmi intorno e vedere il degrado che c’è qui mi spezza il cuore – come probabilmente spezza il vostro, e forse addirittura vi spinge a domandarvi perché ci siamo riuniti in un luogo cosí deturpato dal tempo – volevo che riposasse accanto alle persone che lo amavano e dalle quali è disceso. Mio padre amava i suoi genitori e deve stare vicino a loro. Non volevo che fosse solo, chissà dove -. Tacque un momento per ritrovare la padronanza di sé. 

Era una donna fra i trenta e i quarant’anni, dall’aria dolce, semplice e carina com’era stata la madre, e all’improvviso perse tutta la sua autorevolezza e il suo coraggio e finì per somigliare a una bambina di dieci anni schiacciata da quella situazione

Voltandosi verso la bara, prese una manciata di terra e, prima di lasciarla cadere sul coperchio, disse con leggerezza, sempre con quell’aria da bambina frastornata: – Be’, cosí vanno le cose. Non c’è piú niente da fare, papà -. Poi le venne in mente la stoica massima che lui ripeteva decenni addietro, e scoppiò in lacrime. – È impossibile rifare la realtà, – gli disse. – Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono.


Philip Roth, Everyman (2006). Edizione italiana di riferimento: P.R., Everyman. Traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi 2007, pp. 5-8

07/09/17

Da Stasera in TV una miniserie dedicata alla eccezionale vita (e opera) di Jack London !






Il destino eccezionale dello scrittore famoso in tutto il mondo per "Il richiamo della Foresta", "Zanna Bianca" e "Martin Eden", una delle figure americane piu' importanti del XX secolo. 

È "Jack London, un'avventura americana" la miniserie in onda in prima visione tv da giovedi' 7 settembre alle 21.10 su Rai Storia per il ciclo "a.C.d.C." con Alessandro Barbero

Nato nel 1876, sul finire della "conquista del West" e l'ingresso dell'America nell'eta' contemporanea, Jack London vive a cavallo tra questi due mondi differenti, partecipando a tutte le principali vicende politiche, sociali e culturali del tempo.

Il documentario in due episodi racconta di come la sua vita avventurosa si sia specchiata nella storia americana: crescere nei quartieri poveri con i pirati della Baia di San Francisco, scoprire il Grande Nord nella corsa all`oro del 1897, sperimentare il foto giornalismo durante il conflitto russo-giapponese e il grande terremoto e incendio del 1906 a San Francisco, e ancora l'impegno socialista e la navigazione dei mari del sud sullo "Snark"

Questa serie commemora il centenario della morte dello scrittore e, con oltre 12.000 fotografie e numerose ore di pellicola, aspira ad essere la piu' ambiziosa biografia filmata sul grande maestro del romanzo d'avventura nordamericana.

25/04/17

E' morto negli USA Robert M. Pirsig, l'autore geniale de "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".



Una perdita dolorosa per il mondo della Letteratura:  E' morto all'eta' di 88 anni lo scrittore e filosofo statunitense Robert M. Pirsig, autore del romanzo filosofico bestseller 'Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta' (1974)

Lo rende noto la sua casa editrice, la William Morrow and Company. 

Pirsig era da tempo malato ed e' deceduto ieri nella sua casa di South Berwick, nel Maine.

fonte ANSA - AP

Per ricordare questo scrittore così particolare, quest'uomo così spirituale, riporto qui il mio articolo pubblicato qualche mese in occasione della ristampa del suo celebre romanzo: 



Ci sono libri che ti ronzano dietro per 30 anni e alla fine scelgono loro quando è il momento.

Così è stato con Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.  

Sono arrivato in ritardo, perché questo fu il libro di una generazione e 30 anni fa, tutti dovevano averlo letto. 

Leggerlo oggi è perfino blasé. 

Forse in Italia.  Questo libro, infatti si è conquistato stabilmente un posto nella letteratura contemporanea e le sue vicende sono curiose e per molti versi inspiegabili (a cominciare dal misterioso motivo per cui questo libro toccò subito il cuore di una massa enorme di persone, pur essendo un libro difficile, con interi capitoli e pagine di pura speculazione tecnica filosofica). 

A partire dalla sua pubblicazione. Come forse qualcuno sa, è quasi incredibile la storia editoriale del libro: il manoscritto inviato dal suo autore Robert M. Pirsig, fu infatti respinto nel corso di 4 anni da 121 diversi editori. 

Pubblicato dal piccolo editore William Morrow nel 1974 con un anticipo pagato all'autore di 3.000 dollari, stampato in quell'anno, ottenne un successo immediato di proporzioni mondiali, continuamente ristampato, con più di 5.000.000 di copie vendute in tutti i paesi del mondo. 

William Morrow, dopo aver letto il manoscritto, telefonò a Pirsig e gli comunicò che intendeva pubblicare quello strano libro perché "lo aveva costretto a chiedersi perché facesse l'editore. Era molto scettico sull'esito di vendite: "questi sono i primi e gli ultimi soldi che ti procureranno i tuoi libri," disse a Pirsig.  Non andò così.

Come è noto, l'autore Pirsig, compì il viaggio descritto, da Est a Ovest, attraverso gli Stati Uniti nel turbolento 1968. Questa foto ritrae il primo giorno di viaggio insieme al figlio Chris nel North Dakota.




Quest'altra foto del viaggio invece, scattata dallo stesso Pirsig, ritrae Chris e gli amici John e Sylvia, più le due moto, protagoniste del lungo viaggio (in realtà i due amici lasciano l'impresa a metà del libro).  

                                 

Questa invece è la piantina dettagliata del viaggio. 



Ma quello che conta nel libro non è il viaggio (o comunque non solo quello) e nemmeno i riferimenti allo Zen che sono del tutto secondari, o alla manutenzione della motocicletta che è soltanto la metafora di quel cammino interiore che riguarda tutti, prima o poi nella vita. 

Il libro non ha  nemmeno una qualità letteraria particolare. Ci sono romanzi stilisticamente molto più importanti di questo, in quello scorcio di Novecento. 

E' un libro importante per altri motivi

Ci sono libri infatti libri così, di tanto in tanto, che sono come meteore, oggetti strani. Che appaiono nel cielo per motivi imperscrutabili. 

Leggendolo, ho capito perché.

Quel che appassiona è la storia umana del libro. E' struggente scoprire che Chris, il ragazzino del libro, il figlio di Pirsig, che accompagna il padre in questo lungo viaggio  a tratti crudele e folle, e ne è in fondo il vero protagonista, sia stato ammazzato durante una rapina, a San Francisco, in modo assurdo appena 4 anni dopo l'uscita e il successo mondiale del libro.

Lo racconta drammaticamente Pirsig nella postfazione al libro e le cronache di allora ne riferirono abbondantemente. 

Forse è anche per questo che il libro ha avuto questo destino singolare. 

Perché il suo spirito, lo spirito di questo libro, è legato a quello di persone vive che hanno lottato con la follia, con la consapevolezza e con l'insensatezza: il cammino che tutti sfioriamo ogni giorno nella vita, e che da ogni padre si trasmette ad ogni figlio, da ogni generazione ad ogni generazione, il compito della vita: quello di districarsi nelle trappole dell'entusiasmo, attraversare le ombre, riconoscere la Qualità delle cose (che preesiste alle cose, il vero tema del libro) e attraverso questo dare un senso. 

Si tratta anche di un aspro confronto tra due modi (platonico e aristotelico, in definitiva), di interpretare il mondo. Scrive Pirsig:

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili. 

In fondo da questa dicotomia dipende anche il risultato che lo Zen induce nel lettore di turno. Chi è dotato di prevalente intelligenza classica, sarà portato a valutare il libro come un tentativo pretestuoso di dare nome all'innominabile; viceversa, chi dispone di intelligenza romantica sarà portato a entrare senza indugio nella disputa filosofica pazzoide di Pirsig con tutte le scarpe e a lasciarsi travolgere dal vissuto del legame di vita drammatico e unico che si ripete in ogni passaggio generazionale. 

Comunque la si pensi e comunque lo si senta, il libro eccolo qua: che gira ancora il mondo (nell'anno di grazia 2014) e porta il suo... disegno ancora lontano, come appunto una cometa. 

Fabrizio Falconi

26/09/15

"Libertà" di Jonathan Franzen, il grande romanzo americano (Recensione).



Ho nutrito per anni un pregiudizio nei confronti di Jonathan Franzen.

Troppo successo, troppo rumore, troppo fenomeno. In genere diffido a priori.  Ci sono arrivato quindi dopo parecchio tempo e a partire da questo Libertà, il suo quarto romanzo, pubblicato nel 2011, a dieci anni di distanza da Le Correzioni, che nel 2001 avevano dato a Franzen il National Book Award e la notorietà internazionale. 

Ma già dopo poche pagine, ho dovuto ricredermi. 

Libertà è un grande romanzo. 

Anzi, devo dire, dopo molti molti anni, ho ritrovato l'impressione di leggere un Grande Romanzo Americano (Great American Novel), l'ambizione più o meno segreta di ogni romanziere nordamericano, che prima o poi incappa nella velleità di scrivere un ampio romanzo capace di racchiudere e sostenere lo spirito contemporaneo americano. 

In effetti forse è da Le avventure di Augie March, di Saul Bellow (1953), che non riscontravo da lettore un esito così ben riuscito. 

Soltanto che quello è un romanzo di formazione classico, mentre questo è un romanzo intessuto sulla storia di un matrimonio. 

Patty e Walter Berglund sono «i giovani pionieri di Ramsey Hill», nella cittadina di St. Paul, Minnesota. Vivono in una casa vittoriana che hanno acquistato per pochi soldi e impiegato dieci anni per ristruttura. Hanno due figli ventenni, Jessica e Joey; sono moderni e liberali, democratici e ecologisti.

Agli occhi dei vicini di casa, Patty e Walter sono una coppia solida.  Come molte coppie, invece nascondono vuoti e frustrazioni

La costruzione del romanzo è perfetta; perfetta la sua struttura.  Nelle prime 250 pagine - un capolavoro di equilibrio - Franzen affida la biografia di Patty alla stessa voce della protagonista.  Così apprendiamo i dubbi e le ferite di questa donna come tante, forte e debole allo stesso momento, del suo matrimonio sbagliato, delle circostanze fuorvianti che ve l'hanno condotta, la passione segreta per il miglior amico del marito - la rockstar pragmatica e impenitente Richard Katz - cui viene data libera espressione nel momento più delicato della vicenda. 

Nelle parti successive -  dedicate a Joey (il figlio viziato e intraprendente della coppia, il suo strambo matrimonio con la vicina di casa Connie, la passione per la bella e viziata Jenna) e a Walter (la sua dedizione alla causa ecologista per la salvaguardia di un piccolo uccello migratore, la sua passione per Lalitha, una giovane assistente indiana innamorata di lui) la vicenda si compone con le diverse voci e i diversi tempi di un quartetto d'archi ben assemblato. Ciascuna voce passa la voce alla successiva. E le trame non si confondono, ma formano un tessuto dal disegno lucido e preciso. 

Vargas LLosa diceva recentemente che due sono essenzialmente i presupposti per scrivere un grande romanzo: la scelta della voce narrante (chi è che parla al lettore) e la scelta dei tempi, del tempo dell'azione. 

Franzen vince entrambe le sfide: sceglie una voce polifonica, ovvero composta di diverse voci, assoggettate al progetto comune; sceglie un presente e un 'a ritroso' che dialogano per tutto il corposo romanzo, lasciando ganci aperti alla fine delle parti, suscitando il coinvolgimento sempre diretto del lettore. 

La felicità del racconto è strutturalmente legata al fine che si persegue: quello di una lunga meditazione sul matrimonio, sulla relazione sentimentale, e sulla libertà individuale.  

Tutti i personaggi di Libertà sono alle prese con la ricerca affannosa di una libertà individuale, e devono fare i conti  con gli impedimenti e gli intralci che si sono autoimposti con i loro errori. 

L'imponderabile scivola nelle vite già fortemente compromesse dalla catena delle ferite/risposte, dalle incapacità individuali, dalla confusione di una apparente e sostanziale mancanza di senso generale. 

L'ipocrisia, il dolore, la trasandatezza, l'insano masochismo, la voglia di sfidare i propri limiti, l'intemperanza, l'impazienza. la paura, la sofferenza, la gioia improvvisa, la sproporzione tra i demeriti e i meriti, la passione vissuta come via di fuga: questi sono i veri protagonisti di Libertà

Specchio antropologico e simbolico della civiltà americana, arrivata ad un punto dove ogni desiderio individuale sembrerebbe esaudito o a portata di mano, tranne quello della felicità personale, che passa per forza di cose attraverso la consapevolezza (un conto eternamente rinviato, fino all'inevitabile). 

La scrittura di Franzen è limpida e circolare, come nella più classica delle lezioni tolstojane. i dialoghi sono sempre all'altezza, le trovate mai fini a se stesse. Il dolore è autentico, il disorientamento anche.  

Nelle vite di Patty e Walter è lecito sbirciare, entrare, lasciarsi perfino trascinare. Essendo difficile alla fine restare alla pura distanza dell'oggettivo punto di vista del lettore, visto che tutto questo ci riguarda da vicino, più di quanto forse vorremmo. 

Jonathan Franzen, Libertà, Einaudi 2014 Super ET pp. 656 € 14,00 Traduzione di Silvia Pareschi

Fabrizio Falconi (C) - riproduzione riservata


22/09/15

Il matrimonio di Jonathan Franzen: vita e ispirazione.




tratto da Repubblica online, 30 ottobre 2012.

Jonathan Franzen, Farther Away, 2012.

Vorrei dedicarmi al concetto di diventare la persona giusta per scrivere il libro che volete scrivere. 

Riconosco che parlando del mio lavoro,e raccontando la storia del mio passaggio dal fallimento al successo, corro il rischio di sembrare immodesto o innamorato di me stesso. Non è poi così strano o deprecabile che un scrittore vada fiero della sua opera migliore e passi molto tempo a esaminare la sua vita. Ma deve anche parlarne? 

In passato avrei risposto di no, e il fatto che ora risponda di sì potrebbe anche rivelare qualcosa di negativo sul mio carattere. 

Ma intendo comunque parlare delle Correzioni, e descrivere alcune delle lotte che ho affrontato per diventarne l' autore

Faccio notare in anticipo che buona parte di quelle lotte hanno riguardato - come credo accadrà sempre agli scrittori profondamente impegnati nel problema del romanzo- il superamento della vergogna, del senso di colpa e della depressione

Faccio anche notare che il semplice fatto di parlarne rinnoverà la mia vergogna

La prima cosa che dovetti fare all' inizio degli anni Novanta fu uscire dal mio matrimonio

Infrangere la promessa e il legame emotivo non è facile quasi per nessuno, e nel mio caso era ulteriormente complicato dal fatto di aver sposato una scrittrice. Mi rendevo vagamente conto che eravamo troppo giovani e inesperti per votarci a una monogamia perpetua, ma le mie ambizioni letterarie e il mio idealismo romantico ebbero la meglio.

Ci sposammo nell' autunno del 1982, quando avevo appena compiuto ventitré anni, e cominciammo a lavorare insieme, in squadra, per produrre capolavori letterari. Avevamo progettato di lavorare fianco a fianco per tutta la vita.

 Non ritenevamo necessario avere un progetto di riserva, perché mia moglie era una newyorkese sofisticata e piena di talento che sembrava destinata al successo, probabilmente molto prima di me,e io sapevo che sarei sempre riuscito a cavarmela.

E così ci mettemmo entrambi a scrivere romanzi, e restammo entrambi sorpresi e delusi quando mia moglie non riuscì a vendere il suo. 

Quando io vendetti il mio, nell' autunno del 1987, mi sentii emozionato ma anche molto, molto in colpa.

28/03/13

'Stoner' di John Williams - Recensione.




Non è facile trovare un romanzo come questo. 

Stoner, il nome del protagonista, ci fa pensare ad una pietrificazione.  Eppure, nulla in questo romanzo è pietrificato. Tutto vibra, tutto si muove, tutto vive di vita interiore. 

Si sa poco di John Williams,  per decenni oscuro docente universitario e autore soltanto di una manciata di romanzi, morto nel 1994.

Stoner però è diventato un piccolo grande caso letterario, prima negli Stati Uniti, poi in Italia dove il passa parola lo ha trasformato in successo, e dove ha suscitato l'entusiasmo di molti scrittori, tra cui Emanuele Trevi.

La vicenda dell'oscuro, anonimo professore di Letteratura Inglese alla Missouri University, a partire dagli anni della depressione fino al dopoguerra, sembrerebbe - come scrive Peter Cameron nella postfazione - l'antitesi di quello che oggi il mercato editoriale, soprattutto in Italia, considera come gli ingredienti sicuri per un libro di successo. 

Una vita apparentemente grigia, quella di Stoner. 

Una vita dove sembra non succedere niente. 

John Williams, però, è un vero maestro.   Se ne ha la riprova perché descrive la vita di un uomo virtuoso: di gran lunga l'operazione più difficile oggi (anzi, quasi impossibile).   E' molto più semplice cimentarsi con un Limonov, tanto per dire. 

Ma tutti sanno, dai tempi di Dostoevskij, che descrivere il bene è enormemente più difficile, in narrativa specialmente, che descrivere il male. 

Stoner è virtuoso anche senza volerlo. Segue la sua via. Tende o spera a ciò che è meglio.  Ma nulla di quello che ha immaginato o sperato, si verifica nei modi in cui egli auspica. 

Il suo unico punto fermo, la sua ciambella di salvataggio, sembra essere il suo lavoro, il suo insegnamento: eppure anche qui sembra non eccellere, non sembra nulla di speciale. 

La sua mid-way, la sua common-life è però solo apparenza appunto: grazie alla lingua sublime, di cui Williams fa uso, lentamente caliamo nella profondità di questo uomo. 

Scopriamo quanto esso ci parli. 

Svela, lentamente e inesorabilmente, la sua più inquieta umanità.    Ciò che rende una vita, in definitiva, vissuta. 

Senza giri di parole, e senza artifizi inutili,  la prosa di Stoner affonda come un bisturi nella coscienza, e la fende con naturalezza, tenerezza e decisione brutale. 

Abbiamo la vita davanti.  La (nostra) vita.

Quel che di più sublime, la letteratura, la grande letteratura, riesce - quando è in stato di grazia - a donarci. 

Fabrizio Falconi