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05/07/23

Un romanzo dimenticato e molto bello: "La Rossa" di Alfred Andersch


Se oggi andate a cercare su Amazon o altre librerie on line (non parliamo di quelle tradizionali/cartacee) il nome di Alfred Andersch, non troverete nulla di nulla pubblicato in Italia, negli ultimi 40 anni.
Eppure c'è stato un periodo non lontano, nel quale lo scrittore nato a Monaco di Baviera nel 1914 era piuttosto in voga, come si vede, pubblicato anche dagli Oscar Mondadori.
Personalmente questa edizione del 1972 (il romanzo è del 1961), l'ho trovata in una meritevole libreria che commercia prezioso usato (negli stessi scaffali ho addirittura trovato la prima edizione de Il Dono di Humboldt di Bellow, in Italia (la mia ormai è consumata)).
Così ho scoperto questo notevole romanzo di un autore piuttosto controverso: pur essendo tra i fondatori del Gruppo '47, Andersch infatti dovette difendersi, nel dopoguerra, da accuse di ambiguità/collusione con il regime nazista.
Andersch fu effettivamente arruolato nella Wehrmacht nel 1940, quando aveva 26 anni, e schierato sul fronte occidentale contro la Francia.
Prima di allora, però, dal 1930, Andersch era stato un fervente comunista, e dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, era stato rinchiuso - secondo il suo racconto - per tre mesi nel campo di concentramento di Dachau, in quanto sovversivo.
Uscito dalla prigionia, lo scrittore, caduto in depressione, non aveva potuto evitare l'arruolamento, anche se nel 194 fu ufficialmente "licenziato" dall'esercito perché nel frattempo si era legato sentimentalmente alla pittrice Gisela Groneuer, considerata dalla polizia una "mezza ebrea".
Arruolato nuovamente nel 1943, Anders disertò nel giugno 1944, consegnandosi agli americani, che lo trasferirono in un campo di prigionia in Virginia.
Tornato in patria, fu uno dei protagonisti della scena letteraria tedesca del dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 1980 in Svizzera.
Tredici anni dopo la morte, Andersch fu oggetto di pesanti accuse di "contraffazione letteraria e fanatismo" da parte di W. G. Sebald, ma il rapporto di Sebald fu "giustamente respinto nella sua generalità".
Al di là di queste controversie legate alla sua biografia, "La Rossa" (Die Rote), è un romanzo importante, che risente direttamente delle vicende vissute da Andersch negli anni della guerra e del nazismo.
La vicenda ha per protagonista Francesca, una donna trentenne tedesca, che dopo aver lasciato marito e amante, prende il primo treno alla Stazione di Milano, che la porta a Venezia, con sole 40 mila lire in tasca.
La donna forse è incinta. Non sa cosa succederà della sua vita, vuole semplicemente allontanarsi da tutto, ricominciare. Una cupa, allucinata e bellissima città fantasma la accoglie nel pieno dell'inverno.
Qui, attraverso diverse voci modulate nel testo e diverse scritture, Francesca si trova coinvolta, suo malgrado, dentro una tragica resa dei conti tra una spia inglese e un ex criminale nazista.
Ma c'è molto di più di una semplice spy-story in questo romanzo. Ci sono le vite rovinate dall'orrore, l'orgoglio di una donna che non si vuole sottomettere al potere di maschi ottusi o cinici, c'è una Italia distrutta dalla guerra, eppure desiderosa di ricominciare, ci sono tradimenti e imboscate del destino, c'è l'intelligenza che non vuole morire e vuole anzi, sopravvivere, secondo il "suo" modo.
C'è l'ambiguità di Kramer, uno dei più verosimili "boia" nazisti incontrati nella letteratura che scrive di quel tempo oscuro.

Fabrizio Falconi - 2023

16/04/22

Ingeborg Bachmann e Roma, un destino tragico

 


Sto leggendo in questi giorni l'epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, meritoriamente pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui parlerò più avanti, e mi torna alla mente il tragico destino della grande scrittrice austriaca, innamorata del nostro paese e di Roma, in particolare, dove finì i suoi giorni nel modo più tragico. 

Dopo diversi soggiorni, in gioventù e nell'età matura, la Bachmann era tornata nel 1965 a Roma, a trentanove anni. Era una autrice ormai affermata, anche se il suo stile raffinatissimo, le sue poesie rarefatte e i racconti e i romanzi densi e magici, non potevano essere destinati a un grande pubblico. 

In quel periodo poi, la scrittrice soffriva per la dipendenza da pillole e alcol e scriveva assai poco. 

Nel 1967 aveva lasciato il suo editore, la Piper Verlag in segno di protesta per aver incaricato l'ex leader dell'HJ (la gioventù nazista) Hans Baumann di tradurre il Requiem di Anna Achmatowa, sebbene la Bachmann avesse caldamente raccomandato l'amico Paul Celan, passando alla Suhrkamp Verlag. 

Nella sua ultima lettera a Bachmann del 30 luglio 1967, Celan la ringraziava per aver preso parte all'"Affare Achmatowa". 

Quattro anni dopo, nel 1971 la Bachmann pubblicò Malina, il romanzo considerato il primo volume di una prevista trilogia intitolata Tipi di morte

L'ultimo lavoro di Bachmann è oggi considerato un "paradigma della scrittura femminile". 

Ancora due anni dopo, la fine improvvisa di uno spirito geniale e tormentato: nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1973, Ingeborg Bachmann subì gravi ferite nel suo appartamento romano, in Via Giulia, a causa di un incendio appiccato da una sigaretta accesa mentre si stava addormentando. 

Oggi  si sa che la sua dipendenza dalle pillole fu considerata una delle ragioni dell'incendio. 

Alfred Grisel, un amico intimo, riferì di una visita a Bachmann a Roma all'inizio di agosto 1973: “Sono rimasto profondamente scioccato dall'entità della sua dipendenza dalle pillole. Dovevano esserci circa 100 pezzi al giorno, il cestino traboccava di scatole vuote. Aveva un aspetto brutto, era pallida come la cera. E su tutto il corpo coperto di macchie. Mi chiedevo cosa potesse essere. Poi, quando ho visto la Gauloise che stava fumando scivolare dalla sua mano e bruciarsi sul braccio, l'ho capito: ustioni causate dalla caduta delle sigarette. Le tante pillole avevano reso il suo corpo insensibile al dolore.”

Dopo il grave incidente, la Bachmann fu portato all'ospedale Sant'Eugenio. La sua forte dipendenza dai sedativi (barbiturici), di cui i medici curanti inizialmente non erano a conoscenza, innescarono convulsioni simili a crisi epilettiche. 

Il 17 ottobre 1973 morì di sintomi di astinenza fatali all'età di 47 anni. 

Fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. 

Le indagini su un possibile sospetto di omicidio furono chiuse dalle autorità italiane il 15 luglio 1974. 

In un necrologio in Der Spiegel, Heinrich Böll descrisse la scrittrice come una dei pochi "intellettuali brillanti" che "non hanno perso la sensualità né trascurato l'astrazione nella loro poesia". 

Il suo patrimonio di 6.000 pagine si trova nella Biblioteca nazionale austriaca dal 1979 e può essere visualizzato nell'archivio della letteratura . Dal 2018 esiste anche un patrimonio parziale di quasi 1000 pagine con scritti e lettere dei suoi giorni da studente. 

Nel febbraio 2021 è stata decisa la vendita della casa dei genitori di Ingeborg Bachmann in Henselstraße 26 a Klagenfurt, alla fondazione privata carinziana.

I beni privati ​​di Bachmann, che Heinz Bachmann, fratello di Ingeborg Bachmann, riportò qui dall'appartamento romano dopo la sua morte, sono ancora conservati nella casa. 

Si prevede di aprire la casa al pubblico sotto la direzione del Klagenfurt Musil Museum.

Fabrizio Falconi - 2022

21/02/22

Libro del Giorno: "Effi Briest" di Theodor Fontane


Anche durante il suo autunno, il lettore fa, di tanto in tanto, inaudite scoperte.

Non avevo mai letto Effi Briest di Theodor Fontane. Ricordavo di aver visto molti anni fa il film che ne aveva tratto Rainer Werner Fassbinder nel 1974, ma oltre alla impressione ricavata, che fosse un gran bel film, e alla stupenda fotografia in bianco e nero, non ricordavo niente della storia.

Iniziandolo senza aspettative, in breve mi sono ritrovato totalmente catturato dalla vicenda e dallo stile di Fontane.

Siamo in pieno ottocento, ma la prosa di Fontane, controllata, psicologica, quasi chirurgica, sembra già anticipare il Novecento, nel raccontare le vicende della diciottenne Effi, che va in sposa a un vecchio spasimante della madre, più grande di lei di vent'anni, un uomo rispettato e rispettabile, il Barone von Innstetten, e va a vivere con lui nella città di Kessin, sul Mar Baltico.

Nasce subito una figlia, Anna, ma Effi è spesso sola in una casa bizzarra e anche un po' spettrale: il Barone è trattenuto spesso fuori e a Berlino dal suo lavoro di prefetto, che gode la stima del principe di Sassonia.

I fantasmi che si agitano nella testa di Effi e che sembrano popolare anche il piano nobile disabitato, della casa, finiscono per portarla, quasi inconsapevolmente nelle braccia del maggiore Crampas, sposato, ma dongiovanni.

Il congegno narrativo del romanzo è perfetto. I personaggi di contorno (che non sono soltanto di contorno): i genitori di Effi, il vecchio farmacista di Kessin, devoto ammiratore di Effi, le cameriere Rosvita e Giovanna, i notabili della buona società di Kessin e perfino il cane Rollo, offrono ciascuno un contributo importante e finalizzato al raggiungimento dell'obiettivo del romanzo, le cui qualità si dispiegano, ancor più che nella descrizione della psicologia di Effi, in quelle dei caratteri e delle motivazioni dei due uomini, il maggiore Crampas e soprattutto von Innstetten.

Pur se tedesco di nascita, Fontane - come rivela il suo cognome - era di famiglia interamente francese (ugonotti trasferitisi in Prussia). Questo spiega come nel romanzo e nella sua letteratura si avvertano oltre che anticipazioni di Mann, gli echi di Flaubert e di Maupassant.

Qui, soprattutto per la descrizione del coinvolgimento emotivo dei personaggi, del loro combattimento, della battaglia persa contro quei dilemmi morali, contenuti nella stessa edificazione della società alla quale appartengono, che sabotano la felicità personale e di coppia, in nome di un rigido autocontrollo, di distorte motivazioni legate all'opportunità e alla convenienza.

Il personaggio di Effi è antesignano delle grandi protagoniste femminili del Novecento, che hanno pagato a caro prezzo e sulla propria pelle, l'emancipazione liberatoria dal ruolo in cui la vita - e la stessa letteratura - l'avevano relegate.

Il pregio maggiore del romanzo, tra i molti, è la sua capacità di esprimere mondi con l'esattezza meticolosa del taglio completo di ogni superfluo: considerazioni dell'autore, inutile moraleggiare, spreco di dettagli inutili, dilatazioni di tempi e di descrizioni; tutto invece viene economizzato e messo all'uso di una narrazione che ha bisogno di poche o pochissime parole per descrivere una malattia, una separazione o un duello.

Eccellente. Ho chiuso l'ultima pagina del libro colmo di ammirazione e gratitudine per Theodor Fontane e di umano rimpianto per i destini di Effi, del barone Innestetten e del maggiore Crampas.


15/09/21

Due fratelli geni: Heinrich e Thomas Mann, la storia del loro lungo soggiorno a Palestrina, dove è ambientato il patto col diavolo del "Doktor Faustus"




Molto si è scritto sul genio, l'affetto e la rivalità tra i due fratelli Mann, nati e cresciuti nel pieno tormento che tra fine Ottocento e inizio Novecento, mandò in fiamme e in rovina l'intera Europa. Heinrich, il fratello maggiore, primo di cinque figli, nacque proprio nell'anno in cui  - 1871 - la Germania viene unificata a seguito della guerra franco-prussiana. E' l'inizio di una serie di accadimenti tragici e devastanti per le popolazioni europee.

Suo padre è un commerciante all'ingrosso a Lubecca. Heinrich capisce ben presto che la sua vocazione non è quella di proseguire l'attività di famiglia, ma di dedicarsi all'arte, frequentando il Katharineum, il liceo più prestigioso della città, dove dimostra la sua irrequietudine, interrompendo prematuramente gli studi. 

Inizia un apprendistato presso una libreria a Dresda, ma presto finisce per stancarsi anche di questo. 

Finalmente trasferitosi a Berlino, Heinrich assapora il mondo artistico della capitale, dedicandosi ad una assidua e dissoluta bohème, spendendo tutti i soldi del padre nei bordelli della città. 

La morte del padre lo richiama a casa, il testamento del padre prevede la vendita dell'attività commerciale e tutta la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera e a Heinrich viene garantita una piccola rendita mensile. 

Inizia così per Heinrich, nell'ultimo decennio del XIX secolo, una nuova vita con molti viaggi: Parigi, l'Austria, l'Alto Adige e il Trentino (dove tornerà spesso, soprattutto per curarsi nel sanatorio di Riva del Garda), Milano, Firenze, Roma, Venezia, Monaco, Berlino e le Alpi bavaresi. 

Questo suo peregrinare senza meta e senza pace avrà fine nel 1895, quando si ferma a Roma per circa due anni, dove assume la direzione di una rivista, Das Zwanzigste Jahrhundert ("Il XX secolo"), un periodo molto controverso della sua vita in cui Heinrich si cimenta anche in invettive di carattere antisemite, misogine e monarchiche. 

Un periodo che metterà in imbarazzo più avanti Heinrich, profondamente cambiato dalle scelte politiche ed esistenziali della sua vita futura (divenne ferocemente antinazista e fu il primo fra i due fratelli a trasferirsi negli Stati Uniti). 

Nel frattempo, nel 1894 pubblica il suo primo romanzo: In einer Familie.

Negli anni successivi, Heinrich stringe ancora di più i rapporti col fratello Thomas, il secondogenito della famiglia e dal 1895 al 1898, durante i mesi estivi, soggiornano a Palestrina presso la “Pensione per stranieri” di Anna Bernardini, nel Palazzo omonimo al Borgo. 

La scelta di questa cittadina, che sorge su una delle sommità dei monti Prenestini, fu probabilmente dettata dalla notorietà raggiunta negli ultimi decenni dell’Ottocento, a seguito degli importanti rinvenimenti archeologici e delle campagne di scavo che lì si effettuarono; non si esclude, tuttavia, che abbia influito sulla scelta anche la passione che Thomas Mann nutriva nei confronti di Pierluigi da Palestrina, il grande compositore rinascimentale che in questo luogo ebbe i natali

Le estati trascorse nella cittadina furono per i due scrittori molto proficue. Heinrich Mann si ispirò a Palestrina per il romanzo “La piccola città” (1909) e vi ambientò la novella “Storie di rocca dei fichi”, inserita nel volume “Il meraviglioso" (1897); Thomas Mann, non solo la evocò ne “La montagna incantata”, ma vi ambientò una parte del Doktor Faustus (1947)

La scena centrale di questo romanzo, ossia il patto tra il diavolo e Adrian, il protagonista, si svolge nel salotto della pensione in cui i fratelli Mann avevano alloggiato

Ecco due brani da quel grande romanzo: l’arrivo a Palestrina di Serenus e l’apparizione di Mefistofele a Adrian, (nella traduzione di Luca Crescenzi): 

“Quando durante le ferie del 1912, partendo ancora da Kaisersaschern, feci visita in compagnia della mia giovane moglie a Adrian e a Schildknapp nel nido fra i monti sabini che avevano scelto come luogo di residenza, i miei amici vi stavano già trascorrendo la seconda estate: avevano passato l’inverno a Roma e a maggio, con l’aumentare del caldo, si erano recati nuovamente in montagna, nella stessa dimora ospitale in cui l’anno precedente, nel corso di un soggiorno durato tre mesi, avevavo imparato a sentirsi di casa. 

Il posto era Palestrina, paese natale del compositore, chiamata anticamente Praeneste, fortezza dei principi Colonna menzionata da Dante nel ventisettesimo canto dell’Inferno col nome di Penestrino, un paesino pittoristicamente adagiato lungo la montagna al quale conduceva, dal piazzale della chiesa sottostante, un vicolo a gradini non proprio pulito e protetto dall’ombra delle case. 

Vi si aggiravano dei maiali di una razza piccola e nera, e al passante disattento poteva capitare facilmente di essere schiacciato contro i muri delle case dal carico sporgente di uno degli asini dal largo basto che, pure, andavano e venivano. 

Superato il paese, la strada diventava un sentiero di montagna, passava oltre un convento di cappuccini e conduceva fino alla cima dell’altura e all’acropoli di cui restavano pochi ruderi accanto alle rovine di un teatro antico. Helene e io salimmo spesso, durante il nostro soggiorno, a quelle nobili vestigia, mentre Adrian che “non voleva veder nulla”, non oltrepassò, in tanti mesi, l’ombroso giardino dei cappuccini che era il suo rifugio preferito”. […] 

“Sedevo qui nella sala, lunga dinanzi a me, presso le finestre dalle imposte serrate e accosto al mio lume, leggendo le parole di Kierkegaard sul Don Juan di Mozart. Subito mi sentii pungere da un freddo tagliente, come quando d'inverno uno siede in una stanza calida e d'un tratto una finestra si spalanca al gelo. Il freddo, però, non mi veniva dalle spalle, ove son le finestre, bensì di fronte. Levo gli occhi dal libro e guardo nella sala, vedo che forse Schildknapp è già tornato perché non sono più solo: qualcuno siede nel buio sopra il divano di crine, con le gambe accavallate. È un uomo piuttosto allampanato, più piccolo di me, i capelli rossigni; ha le ciglia rossicce, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po’ curva in giù. Sopra una camicia a maglia a righe traversali porta una giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha i calzoni troppo stretti e le scarpe gialle trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce articolata da attore di teatro.”

Qui sotto la targa che ricorda i soggiorni dei fratelli Mann a Palestrina:





10/09/17

Poesia della Domenica: "E il mondo e il sogno", di Gustav Mahler.






Gustav Mahler, nato nel 1860, fu oltreché sensibile direttore d'orchestra, l'autore di uno dei più imponenti, anche per struttura e durata, cicli sinfonici dell'età post-wagneriana: dieci sinfonie scritte tra il 1888 e il 1910, l'ultima delle quali incompiute.
Di straordinario fascino i suoi cicli liederistici, tratti da raccolte poetiche della tradizione; ma alcune volte, scritti da lui stesso, con inquietante sensibilità.
La lirica che segue è appunto di suo pugno. 

E il mondo e il sogno

I due occhi azzurri del mio tesoro
m'obbligarono a partire per il vasto mondo. 
Dal mio angolo prediletto dovetti congedarmi !
Oh, occhi azzurri! Perché mi guardaste ?
Ora, per sempre, patirò ansia e dolore !

Me ne partii nella notte silente,
nella notte silente per l'oscura brughiera.
E nessuno mi disse addio, addio !
I miei compagni eran amore e doglia !
Lungo il cammino s'ergeva un tiglio,
e là soltanto nel sonno riposai!

Sotto il tiglio, che i suoi fiori
ha nevicato su di me,
più non sapevo quanto duole la vita,
perché tutto, oh tutto nel bene s'era mutato ! 
Tutto! Tutto! Amore e dolore!
E il mondo e il sogno!


Gustav Mahler, Lieder eines fahrenden Gesellen (1883-1884), (traduz. di Guido Davico Bonino)



18/06/15

"Schuhlin" di Carl Sternheim - un prezioso volume di Camera verde a cura di Raoul Precht.




E' un prezioso volume, questo pubblicato da La Camera Verde di Roma. 

Frutto del lavoro e della cura di Raoul Precht, il libro ha, tra gli altri, il merito di portare all'attenzione del pubblico italiano il nome di Carl Sternheim, nato a Lipsia nel 1878 e morto a Bruxelles il 3 novembre del 1942. Considerato uno tra i narratori e drammaturghi più importanti del suo tempo, viene considerato maestro e precursore fra gli altri di Bertolt Brecht.

Nei primi anni del Novecento, Sternheim fu popolarissimo, anche e soprattutto per i suoi drammi (vincitore fra l'altro del premio Fontane, che decise di devolvere al giovane Franz Kafka, allora semisconosciuto).

Per la pubblicazione, è stato scelto uno dei racconti meno conosciuti, inedito in Italia, Schuhlin, scritto nel 1915.

Si tratta di un breve racconto in cui Sternheim evoca la carriera di un giovane musicista immaginario (che si chiama Schuhlin, per l'appunto), dall'infanzia, ai timidi esordi, fino alla consacrazione presso un pubblico ristretto di aristocratici e intenditori, come eccellente pianista

Schuhlin però ha ambizioni sempre più grandi. Sogna di conquistare il mondo. La sua fame di fama è smisurata.  Finirà per coinvolgere in questo personale gioco al massacro, la compagna Klara, e un giovane completamente attratto dalla vena creativa del Maestro, il quale nel frattempo - dopo i parziali insuccessi e un declino repentino di notorietà - si è ritirato dal mondo, in una dimora di campagna. 

Schulhlin, comportandosi come una vera sanguisuga, usufruisce del consenso, dell'adulazione incondizionata, e del sostegno economico dei due, si nutre di loro e riesce anche a metterli uno contro l'altro in un crescendo di dissoluzione e di nevrotizzazione dei rapporti.

Al volume di Camera Verde ha collaborato il fotografo Peter Dimpflmeier, il quale si è liberamente ispirato al testo di Sternheim per creare una sequenza d'immagini che ne  mette in luce l'ambivalenza e la crudeltà. 

Precht, oltre a curare la splendida traduzione dal tedesco, dedica 21 variazioni su un tema di Sternheim : sorta di catalogo alfabetico in cui vengono illustrati gli aspetti salienti della vita e dell'opera dell'autore tedesco. 

In seguito, anche a causa del divieto di rappresentare i suoi lavori teatrali ad opera del nazismo, la stella di Sternheim declino' rapidamente e nel dopoguerra fu completamente dimenticato, fino alla riscoperta avvenuta negli anni Sessanta e Settanta. 

Per il suo umorismo, spesso anche nero, e per la sua incisiva lucidita', oltre che a Brecht, Sternheim e' stato paragonato anche ad Ernst Lubitsch. 

La sua satira tagliente dell'ascesa della piccola borghesia benpensante e del proletariato nell'era guglielmina ha lasciato il segno e posto le basi per un rinnovamento del linguaggio teatrale. La stessa incisività si ritrova nella narrativa e in particolare nei racconti, di cui Schuhlin rappresenta un esempio eloquente, 

Il volume oltre a rappresentare la prima traduzione in italiano del racconto, esce a cent'anni esatti dalla prima edizione nella collana "Der jungste Tag" dell'editore Kurt Wolff, lo stesso di Kafka, Brod, Benn, Werfel e molti altri autori di spicco della prima meta' del secolo. 

Si tratta quindi di una vera e propria celebrazione, e di un'occasione rara per fare conoscenza con un autore poco letto e rappresentato in Italia.



05/06/15

"Vivo nel bosco: ascolto gli alberi che sussurrano " - Intervista a Peter Handke di Alessandra Iadicicco.




Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.

Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.

Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».

Perché?

«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».

Quando? E la salvò da che cosa?

«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».

Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…

«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».

Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.

«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».


Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...

«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».

E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.

«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».

E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità». 

«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».

I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali… 

«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».

Come trascorre le sue giornate da solo qui

«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».

intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 


La casa di Peter Handke a Chaville

24/01/15

Goethe collezionista di autografi. (Una grande mostra a Weimar).



Oltre a essere un genio universale, scrittore, poeta, scienziato e umanista, Johann Wolfgang von Goethe era un appassionato collezionista, non solo di arte, ma anche di manoscritti di grandi del suo tempo. 

Una mostra a Weimar, organizzata dall'Archivio Goethe e Schiller, espone alcuni di questi preziosi documenti, mai mostrati al pubblico prima, fra cui testimonianze di Mozart e Napoleone. 

Nella maturità Goethe (1749-1832) aveva sviluppato una accesa passione per gli autografi di grandi personaggi contemporanei o anche gia' scomparsi da tempo. Amici e conoscenti lo aiutavano a nutrire la sua collezione. 

"Negli ultimi 25 anni della sua vita Goethe ha raccolto attorno ai 2.000 documenti di circa 1.500 personalità", ha detto la curatrice, Evelyn Liepsch. 

Una piccola selezione (14 manoscritti) e' esposta nella mostra, che si e' aperta oggi a Weimar e chiude il 28 giugno: "Da Mozart a Napoleone" il titolo. 

Goethe raccoglieva lettere, appunti, disegni, certificati, alberi genealogici, pagine di spartiti o semplici autografi di artisti, studiosi, politici e sovrani. Fra di essi, esposta ora a Weimar, anche la copia di una firma di Napoleone, che peraltro conobbe in vita. 

L'Archivio possiede anche una piccola lettera scritta a Goethe dall'imperatore francese che pero' non e' esposta: "noi non siamo un museo ", ha spiegato la curatrice alludendo alla scelta e al numero limitato dei documenti selezionati. 

Altra testimonianza preziosa e' un frammento di una partitura di Mozart inviato a Goethe da una amica di Vienna con cui corrispondeva. Si tratta di una pagina manoscritta della Fantasia per pianoforte in do minore, ultimata dall'amico del grande compositore, il clarinettista Anton Stadler. 

Altro documento significativo, una lettera dal lascito di Moses Mendelsohn (1729-1786). Il celebre filosofo tedesco proveniva da una illustre famiglia della borghesia ebrea che ha prodotto anche il grande compositore romantico, Felix Mendelsohn Bartholdy (1809-1847), nipote del filosofo. 

La morte precoce del poeta e amico Friedrich Schiller nel 1805, ha contribuito ad alimentare la passione di Goethe per gli autografi di "persone eccezionali, notevoli, capaci", egli stesso si vedeva sempre piu' attraverso il filtro storico, ha spiegato la curatrice Liepsch. Goethe teneva molto alla sua collezione, da lui meticolosamente archiviata, e usava spesso sfogliare e rimirare gli oggetti raccolti, come i manoscritti di partiture. 

Arricchiva il suo tesoro durante viaggi, attraverso scambi, o anche grazie all'aiuto di amici che sapevano della sua passione. Accanto al piacere di possedere degli originali,  Goethe amava il contatto con questi documenti "per poter evocare e richiamare attorno a se' - come scrisse egli stesso nelle lettere - gli spiriti delle persone allontanatesi o scomparse" .

11/06/14

I due poli dell'unione umana e le convenzioni borghesi (Una pagina del Felix Krull di Thomas Mann) .


Thomas Mann in Autochrome, 1909


Di cose delicate ed imprecise si deve parlare con delicata vaghezza: per questo sia qui inserita una ulteriore osservazione.

Soltanto nei due poli dell'unione umana, là dove non vi sono ancora o non vi sono più parole, nello sguardo e nell'abbraccio, può trovarsi la felicità, giacché lì soltanto esiste assolutezza, libertà, mistero e profonda assenza d'ogni riguardo. 

Tutto quello che nei rapporti umani sta frammezzo quei due poli è tiepido, è determinato, deciso e limitato da formalità e convenzioni borghesi.

Qui domina la parola, questo mezzo freddo e smorto, questo primo prodotto di una civiltà mediocre, così estraneo alla calda e muta sfera della natura, tanto che si potrebbe affermare che già ogni parola è in se stessa un luogo comune. 

E questo lo dico io,  mentre, immerso nell'opera della mia biografia, debbo dedicare massima cura all'espressione letteraria.

Tuttavia, non è il comunicare per parole il mio elemento; il mio vero interesse non sta in esso.  Si rivolge piuttosto alle mute, estreme regioni dei rapporti umani, innanzitutto a quella in cui la estraneità e la mancanza di nessi borghesi riflettono un originario stato di libertà, mentre gli sguardi si accoppiano irresponsabili, con sognante lascivia; poi anche all'altra dove la suprema unione, intimità e fusione ricrea nel modo più perfetto tale inespresso stato primordiale. 


Thomas Mann, da Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, Traduzione di Lavinia Mazzucchetti, Mondadori,1955.




01/10/12

Scoperti in Israele 15 disegni di Hermann Hesse.





Una quindicina di disegni dello scrittore tedesco Hermann Hesse (autore, fra l'altro di 'Il Lupo nella Steppa' e 'Siddharta') saranno esposti fra due settimane dalla Biblioteca nazionale israeliana di Gerusalemme dove sono stati scoperti dopo un oblio di decine di anni. 

Lo riferisce il quotidiano Haaretz, secondo cui le illustrazioni accompagnano una delle numerose stesure di Hesse della favola d'amore 'Metamorfosi di Pictor': quindici pagine in tutto, che pure saranno presentate al pubblico. 

Secondo il giornale, nel 1932 Hesse dedico' il volumetto a un ebreo tedesco di nome Menachem Weitz. Di lui sono rimasti scarni elementi biografici: a quanto pare si era trasferito a Gerusalemme dove viveva di agricoltura.

Nel 1943 la favola di Hesse raggiunse la Biblioteca di Gerusalemme: la' fu registrata a matita, ma non catalogata. 

Solo di recente e' stata recuperata da un ricercatore specializzato in letteratura tedesca e sara' esposta nel 50.mo anniversario della morte del celebre scrittore. 

Haaretz aggiunge che altri disegni sconosciuti di Hesse (datati 1927) sono stati intanto ritrovati in Israele nell' archivio del filosofo ebreo-tedesco Martin Buber. 

13/07/12

Franz Werfel - "Una scrittura femminile azzurro pallido" . Qualche considerazione.





C'è qualcosa di convenzionale, ma anche di sottilmente perturbante nel celebrato romanzo Una scrittura femminile azzurro pallido,  scritto nel 1941 (e pubblicato per la prima volta soltanto 14 anni dopo, nel 1955) da Franz Werfel e diventato un piccolo grande caso editoriale in Italia da quando, parecchi anni fa fu pubblicato da Adelphi e continuamente ristampato. 

In una storia di 131 pagine quello che sta a cuore a Werfel, esule dopo l'Anschluss come molti altri intellettuali ebrei, è raccontare cosa succede - e cosa è successo - nell'anima dei volontari collaborazionisti, di gente normale che si lascia cadere a peso morto, proprio perché incapace di affrontare le proprie personali ombre, le proprie personali debolezze, le proprie eclatanti cadute. 

Ed è nella scena madre del romanzo, quella nella quale Leonida riaffronta il fantasma di Vera, la donna da lui vigliaccamente abbandonata sedici anni prima senza un motivo né una spiegazione, che Werfel inserisce quegli elementi simbolici così stringenti per il lettore.   Il salotto dell'albergo nel quale Leonida è costretto ad incontrare Vera è il contrario di quel che si aspettava: un luogo tetro - la stanza "piena zeppa di mobili pesantissimi che si innalzano come fortezze arcigne" - claustrofobico, mortuario. Sono mortuarie anche le rose tea che Leonida ha ingenuamente portato con sé e che alla fine dell'incontro lascia "nelle tenebre" della stanza proprio perché sono "fiori di morte."

La morte accompagna Leonida anche nella scena finale - l'ultimo capitolo si intitola Nel sonno ed è un presagio del sonno mortale che ormai lo attende, dopo che la sua anima è perduta per sempre - in quel Teatro dell'Opera, in quella platea dove ciascuno recita il suo ruolo, aus dem Leben der Marionetten, per dirla con Bergman, dove a ciascuno dei figuranti non resta che vivere un doloroso e inutile oblio, conseguente a una non voluta, forzata consapevolezza.

Leonida è accerchiato dal destino, che è il suo carattere e il suo fato. Da quando ha indossato quel frac lasciatogli dall'amico, suicida, le cose non potevano andare diversamente.  La sua carriera è stata spettacolare, ma tutto è servito alla fine, soltanto per ingannare se stesso.  

Il danno è questo.  Nessuna salvezza, da fuori, potrà venire. Perché l'unica salvezza, è sempre e soltanto nell'attraversamento consapevole del dolore. E Leonida, come molti altri, il dolore l'ha soltanto voluto sfiorare, e guardare negli altri. Come fosse, appunto, la semplice vita delle marionette.

Fabrizio Falconi - luglio 2012.



18/04/12

Hermann Hesse e la paura.


Si ha paura di migliaia di cose, del dolore, dei giudizi, del proprio cuore; si ha paura del sonno, del risveglio, paura della solitudine, del freddo, della follia, della morte. Specialmente di quest'ultima, della morte. Ma sono tutte maschere, travestimenti.
In realtà c'è una sola paura: quella di lasciarsi cadere, di fare quel passo verso l'ignoto lontano da ogni certezza possibile... c'è una sola arte, una sola dottrina, un solo mistero: lasciarsi cadere, non opporsi recalcitrando alla volontà di Dio, non aggrapparsi a niente, né al bene né al male. Allora si è redenti, liberi dalla sofferenza, liberi dalla paura. 


Hermann Hesse, Aforismi, pag.73.

11/12/08

Canto alla Bellezza.





Per tutta la vita cerchiamo bellezza.

E la mancanza di bellezza intorno, quando non la vediamo e non la sappiamo e non la viviamo, genera guasti irreparabili.

Abbiamo così bisogno di bellezza.

Hermann Broch, ne La morte di Virgilio, scriveva un meraviglioso canto alla bellezza:

Così in dolente tristezza
la bellezza si svela all'uomo,
gli si svela nella sua compiutezza, che è quella
del simbolo e dell'equilibrio,
affascinante e sospesa nell'opposizione
dell'io che guarda la bellezza del mondo colmo di
bellezza,
l'uno e l'altro nel proprio spazio, l'uno e l'altro limitato
in se stesso,
chiuso in se stesso nel proprio equilibrio, e proprio per
questo
entrimani in equilibrio reciproco, proprio per questo in
uno spazio comune
...
il gioco saturo di bellezza, che satura di bellezza e che,
innamorato della bellezza,
ha luogo ai confini della realtà e
ingannando il tempo senza annullarlo,
giocando col caso senza dominarlo,
infinitamente ripetibile, e tuttavia
fin da principio destinato a perdersi,
perchè solo l'umano è divino.

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