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04/03/16

Sabratha, la Guerra tra le gloriose rovine romane.



Fa impressione leggere le notizie di questi giorni dei combattimenti e degli attentati e rapimenti che si svolgono nei dintorni di Sabrahta, città della Libia dove esistono meravigliosi reperti archeologici. Sabratha del resto ha una storia incredibilmente affascinante, che affonda nell'alba della civiltà.



Sabratha fu fondata nel VII secolo a.C. dai Fenici di Tiro in uno dei pochi porti naturali della Tripolitania e divenne ben presto un avamposto commerciale allo sbocco di un'importante via carovaniera. 

Per questa sua posizione strategica, Sabratha conobbe un rapido sviluppo e cadde ben presto sotto il controllo di Cartagine

Passata per breve tempo al Regno di Numidia sotto Massinissa, Sabratha fu poi presa dai romani nel 46 a.C., sotto i quali godette di una nuova prosperità. 

All'epoca dei Severi la città venne completamente ricostruita ed abbellita soprattutto grazie al fatto che l'imperatore Settimio Severo era nativo della vicina Leptis Magna. 

Numerosi edifici pubblici vennero ricoperti di preziosi marmi, mentre a quell'epoca risale il monumentale teatro in riva al mare. (vedi foto)

Nel momento del suo apogeo, Sabratha contava circa 20.000 abitanti.

Il declino si profilò a partire dal IV secolo, con la graduale decadenza dell'Impero romano e le prime incursioni di popolazioni berbere, e venne accelerato da una serie di eventi naturali, primo tra tutti il terribile terremoto del 365. 

Nel 439 i Vandali di Genserico conquistarono la città, ma furono cacciati dai bizantini al comando dei Generalissimi Narsete e Belisario. 

I bizantini, governati dall'Imperatore Giustiniano, ne avviarono una parziale ricostruzione. Vennero costruite chiese, un nuovo porto e altre strutture fondamentali, tra le quali una nuova cinta muraria. 

Divenne presto una delle città più importanti dell'Esarcato d'Africa

Il dominio di Costantinopoli terminò nel 709, dopo ben quattro invasioni musulmane, con la conquista di Cartagine e la caduta dell'Esarcato. 

Con l'arrivo degli Arabi nel VII secolo Sabratha perse completamente la sua importanza, giacché unico centro della Tripolitania divenne la città di Oea (l'attuale Tripoli).

25/08/11

La crisi che viviamo e la chiamata politica e spirituale. "Segnare una svolta" - di Alberto Melloni.


E' un testo breve, ma veramente illuminante questo che vi riporto, di Alberto Melloni, sul Corriere della Sera di pochi giorni fa.  Il momento di crisi per tutto l'Occidente - e il mondo - è un ripensamento globale della nostra vita. Come ogni 'crisi' è anche una 'occasione', un punto di svolta e di scelte, dalle quali dipenderà il nostro futuro.  Un momento cruciale che impone agli spiriti intelligenti, di muoversi, di non starsene più fermi nei propri freschi o angusti cortili. Ecco l'articolo.


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall' Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.


In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ' 29 e nell' 89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un' era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta. Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale.


 E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall' oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine. Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che - parlando in tedesco e pensando in cattolico - hanno dato all' Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall' egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall' euforia dei crocifissi e dall' ossessione dei diritti dei gay.


La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa - nel VI secolo si diceva, ma anche nell' XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio - è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall' atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti.


 Oggi questo atto - reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche - tarda a farsi sentire. Eppure solo l' intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un' Europa poco amata, non finisce l' euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un' opportunità di giustizia o l' anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c' è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia. Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l' afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà.


Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.

Alberto Melloni, Il Corriere della Sera, 20,8,2011.