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18/04/19

Libro del Giorno: "Così Parlò Zarathustra" di Friedrich Nietzsche


Fa impressione rileggere lo Zarathustra, dopo che lo si è fatto quando si avevano 20 anni.  Le prospettive cambiano, ovviamente.  Ma è anche una operazione salutare, perché si scoprono continuamente cose nuove, rispetto alle rimasticature che - soprattutto nel mare magnum del web - hanno trasformato (anche) l'opera di Nietzsche in un prontuario di aforismi completamente estraniati dal testo e quindi completamente fraintesi. 

Come è noto, Nietzsche cominciò a scrivere Zarathustra nel 1881, quando si trovava in Italia e aveva affrontato  un breve viaggio in traghetto a Messina e Taormina, al termine del quale aveva cominciato a frequentare "l'Arcadia" locale.

La lavorazione andò avanti per 4 lunghi anni, durante i quali il filosofo conobbe Lou von Salomé, una giovane studentessa russa in viaggio d'istruzione attraverso l'Europa e iniziò con lei e con il comune amico Paul Rée, che gli aveva presentato lei, una singolare (e casta) liason a trois.

Dopo ripetute proposte di matrimonio rifiutate e sconvenienti baci in pubblico ricevuti(ma nulla di concreto accadde tra di loro, restando il rapporto su un piano puramente platonico), Lou si allontanò da Nietzsche e anche da Rée. 

Questa delusione accelerò il lavoro di Nietzsche sullo Zarathustra, che portò a termine nel 1885, tre anni prima del trasferimento a Torino e del celebre crollo mentale di Nietzsche (3 gennaio 1889 la prima crisi di follia in pubblico) dal quale non si riprese più fino alla morte (25 agosto 1900).

Zarathustra è dunque l'ultima delle grandi opere di Nietzsche e quella che viene ritenuta unanimemente il suo Testamento.

Al contrario di ciò che si crede si tratta di un'opera assai difficile, anzi "la più difficile", come sottolinea Roberto Escobar nella preziosa introduzione, come è evidente fin dal sottotitolo che il filosofo scelse: un libro per tutti e per nessuno

Realizzato nella forma di un diario intimo predicatorio, ed esplicitamente ispirato allo stile dell'Antico e del Nuovo Testamento,  Zarathustra è un libro esplosivo, in cui il profeta e mistico iranico fondatore dello Zoroastrismo e vissuto presumibilmente nel IX secolo a.C., diventa colui che sovverte ogni morale, che bandisce verità nuove, che preannuncia e prefigura l'avvento di un Superuomo (purtroppo questo termine ha prevalso, nella traduzione italiana, su quello più corretto di Oltreuomo), che si pone al di là del Bene e del Male, che il Bene e Male comprende e supera, che raccoglie la notizia della morte di Dio, per far-si protagonista del proprio destino e del proprio passato (Eterno Ritorno). 

Ri-leggere oggi Nietzsche, ri-leggere oggi lo Zarathustra significa andare definitivamente oltre le aberrazioni del nazismo che usò e deformò queste teorie (come anche quelle di Darwin) per i propri terribili fini, e restituire al filosofo l'autentico valore della sua grande visione che così profondamente ha influenzato il pensiero del Novecento e che - al contrario di altri - continua a influenzare anche quello di oggi, essendo strutturalmente attuale. 

Zarathustra poi, essendo un libro-mondo, può essere letto da diversi punti di vista: anche da quello strettamente poetico, che ancora maggiormente scava nell'abisso del cuore umano con figure e scene metaforiche che non si dimenticano più.

Insomma, c'è sempre un motivo - ce ne sono tanti - per rileggere questo libro pericoloso, sovversivo, radicale, visionario. 

Fabrizio Falconi




04/05/18

Il Libro del Giorno: "La taverna del Doge Loredan" di Alberto Ongaro.



Morto poche settimane fa a Venezia (il 23 marzo scorso) la città dove era nato e dove ha quasi sempre vissuto, Alberto Ongaro pubblicò questo romanzo nel lontano 1980, che è divenuto negli anni un piccolo best-seller italiano, caldeggiato da lettori e recensori che - esagerando non poco - lo hanno definito uno dei migliori romanzi degli ultimi decenni in Italia. 

Ongaro amava l'avventura e i viaggi e la sua stessa vita ha obbedito a questa passione, dai tempi lontani in cui fu incarcerato per attività antifascista, durante la guerra, fino all'amicizia strettissima con Hugo Pratt che lo portò - oltre che a divenire uno degli sceneggiatori delle sue novelle grafiche - a intraprendere lunghi viaggi con lui in Sudamerica, firmando lunghe corrispondenze per l'Europeo. 

Dal 1979, tornato a Venezia, si dedicò esclusivamente alla sua attività di scrittore, e i suoi romanzi, pieni di storie di avventure e intrecci storici hanno conquistato un seguito considerevole. 

Anche la Taverna del Doge Loredan non sfugge al mix di ingredienti amato da Ongaro.  Perlopiù con il pretesto - a far da supporto alla storia - del ritrovamento di un misterioso libro, che diventa pagina dopo pagina il protagonista della storia.

Si susseguono fino alla fine del romanzo dunque i due piani narrativi, uno riferito all'oggi che riguarda l'editore e tipografo Schultz che vive in una vecchia casa veneziana ed è anche un ex capitano di marina mercantile e del suo misterioso alter ego Paso Doble che interloquisce con lui, rivangando storie di amori passati e di viaggi in treno; l'altro, quello raccontato nel libro ritrovato, riguardante una storia ambientata nella Londra di due secoli fa, che ha per protagonista un giovane aristocratico Jacob Flint, alle prese con la bellissima e disinibita Nina e con l'amante di lei, Terry Fielding, capo della malavita inglese. 

E' perfino ovvio che le due storie si intreccino con riferimenti che vanno dall'una all'altra in continuazione, fino ad un rocambolesco finale. 

Non v'è dubbio che Ongaro sia abile nel concertare una avventura picaresca e dai toni libertini, ma il romanzo non è mai seriamente avvincente, perché la qualità della scrittura è di grana ordinaria, sembrando più adatta a far da testo ad una storia a fumetti, seppure nobili, come quelle che disegnava il grande Hugo Pratt. 

Sembra più che altro di leggere parodia - nemmeno ben riuscita - di vera letteratura. Tutto ha un suono posticcio, come i nomi dei protagonisti, come le avventure fasulle, come i dialoghi scontati, come il ritmo che da un passaggio all'altro delle due storie non riesce mai a farsi vera letteratura, vera narrativa. 

28/06/16

Il libro del giorno: "Heidegger e il suo tempo" di Rudiger Safranski.





Safranski scrive una monumentale biografia (518 pagine + 60 pag. di note) molto curiosa dal punto di vista dell'organizzazione del materiale: soffermandosi per quasi 200 pagine sul periodo compreso tra gli anni '20 e '30 (con minuziose ricostruzioni sugli 'sgarri' accademici tra Heidegger e i suoi colleghi dell'epoca) e sorvolando con leggerezza sul periodo del dopoguerra, radunando in un centinaio di pagine gli anni dal '45 al '75 che hanno rappresentato così tanto nella storia filosofica di Heidegger. 

Per il resto Safranski sembra attratto e contemporaneamente distante dal suo Heidegger, con incomprensibili lacune come quella riguardante l'Olocausto. 

Come ne viene fuori Heidegger?

Il suo pensiero oscuro, seduttivo, visionario e criptico allo stesso modo allontana, attira, innervosisce e scuote, come sempre.  La filosofia prevale sempre sulla biografia mettendo in ombra il personaggio Heidegger, ambiguo, ambizioso opportunista, maschilista, tutto sommato 'pover'uomo' dal punto di vista umano, a quel che da questi atti risulta.  

Ma il monumento della sua filosofia merita di essere diluito dal passaggio dei giorni e degli anni. Cominciando magari dalla diretta lettura di Essere e Tempo. 

Poesia e filosofia, Duns Scoto, Meister Eckhart, la gettatezza e l'esserci - il Da Sein - Husserl e i marxisti. Impressionanti visioni sul Novecento. 


Rudiger Safranski
Heidegger e il suo tempo, 
Traduzione di Nicola Curcio
Edizione italiana a cura di Massimo Bonola
Longanesi editore, 1996.