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13/09/21

L'incredibile storia di Antonio Pigafetta, uno dei 19 superstiti (tra 256) del primo viaggio intorno al mondo - tornano i diari



E' una delle vicende storiche umane più incredibili e ha per protagonista un italiano diventato celebre non tanto e non solo per essere uno dei 19 sopravvissuti su 256 uomini partiti, quanto per aver tenuto il diario di bordo continuo - giorno per giorno - della straordinaria impresa del primo viaggio attorno al mondo.

A far tornare d'attualità il vicentino Antonio Pigafetta, nel quinto centenario della circumnavigazione del globo tentata da Fernando Magellano, l'uscita di una nuova edizione del resoconto del navigatore, che scrisse giorno dopo giorno, tutti i giorni e che andò perduto e fu poi miracolosamente ritrovato (il manoscritto originale fu smarrito e soltanto all'inizio del 1800 uno studioso, Carlo Amoretti – prima agostiniano e poi prete secolare, poligrafo e accademico di formazione enciclopedista – scovò in un andito della Biblioteca Ambrosiana di Milano uno scartafaccio che diede alle stampe).

Il resoconto, editato con il titolo “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” ebbe diverse versioni e riporta, nei  particolari, «le grandi e stupende cose del mare Oceàno» di quella che definita da Stefan Zweig, la «più superba odissea della storia dell’umanità», grazie al quale furono definiti una volta per tutti i reali confini e le reali dimensioni del mondo. 

Pigafetta si imbarcò da Siviglia il 20 settembre 1519 su una delle cinque caracche che avrebbero tentato l'impresa navigando verso Occidente, con il nome di Antonio Lombardo (pseudonimo derivante dai suoi natali geografici). 

Il resoconto è scritto in lingua italiana, con divertenti (per noi) forme dialettali tipiche degli scrittori veneti non molto colti della prima metà del secolo XVI. Ed ebbe un enorme successo dalla sua prima stampa in francese e poi nelle sue innumerevoli traduzioni. 

Della vita di questo incredibile personaggio, Pigafetta, si sa molto poco. Nel suo resoconto  raccoglie informazioni sui costumi delle popolazioni che incontra, – dal Brasile alla Terra del Fuoco e dalle Filippine alle Molucche -, e quando riferisce, per esempio, delle fanciulle che ingravidano per effetto del vento, o degli uccelli di Giava che trasportano bufali ed elefanti sulla cima degli alberi; o, ancora, delle donne della Malesia che hanno orecchie tanto grandi da coprire l’intero corpo, cita sempre la fonte – l’interprete, il pilota o i nativi del luogo – e si avvale di formule generiche come: «ci dissero, mi raccontarono» e simili

Dopo tre anni di avventurosa e terribile navigazione, solo una delle cinque caracche, seppur malconcia e rappezzata, fece ritorno a Siviglia

Aveva un carico di 26 tonnellate di spezie. Una fortuna, se è vero – come si legge – che il pepe valeva all’epoca più dell’argento e che con un sacchetto di nemmeno una libbra ci si comprava una casa

Della variopinta ciurma di 256 uomini partiti dalla Spagna solo 19 sopravvissero.

 E tra questi, per nostra fortuna, Antonio Pigafetta, che pure, mesi addietro, aveva rischiato di morire  tra i flutti come racconta lui stesso in una colorita descrizione: «Andai a bordo della nave per pescare, ma me slizegarono [scivolarono] li piedi sopra una antenna, perché era piovesto [piovuto], e così cascai nel mare che niuno me vide». 

Riuscì comunque a mettersi in salvo, il nostro autore, e nel rendere omaggio al suo resoconto, secoli dopo, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez gli ha addirittura attribuito la patente di padre de «lo real maravilloso de Hispanoamérica».

Quando arrivò al Porto di Siviglia da dove era partita, la Victoria (unica nave sopravvissuta, anche se in realtà anche una seconda riuscì ad arrivare molto tempo dopo, in seguito alla decisione di invertire la rotta e rifare il viaggio a ritroso, per tornare, ormai stremati dalla ricerca del ritorno passando da Occidente) era il 6 settembre 1522 ed erano passati, dalla partenza 2 anni, 11 mesi e 17 giorni. 

A bordo della piccola nave comandata Juan Sebastián Elcano (Magellano era stato ucciso durante una battaglia svoltasi nelle Filippine), che stazzava solo 85 tonnellate, che imbarcava acqua e aveva una velatura di fortuna,  vi erano soltanto 19 uomini malmessi, ammalati e denutriti, tra marinai e soldati. Tra essi due italiani, Antonio Pigafetta, colui che scriverà la storia della spedizione, e Martino de Judicibus.

Pigafetta, tornato a casa, si stupì che il giorno non corrispondesse a quello che avrebbe dovuto essere, secondo il suo diario di viaggio.  Ricontrollò scrupolosamente il diario e si accorse di non aver sbagliato nulla, di non aver saltato alcun giorno. Quello che ancora non poteva sapere era che avendo navigato da oriente a occidente e avendo circumnavigato il globo, una giornata era andata persa per puri motivi astronomici dovuti alla rotazione terrestre.

Fabrizio Falconi - settembre 2021 

08/03/21

8 marzo: WWF, Tante le donne che nel mondo si battono per la Natura


Jane Goodall con uno scimpanzé


La natura è madre, donna. E sono tantissime le donne nel mondo che hanno scelto di impegnarsi per la sua tutela, afferma il Wwf Italia ricordando varie figure, dall'etologa Jane Goodall che ha dedicato la sua vita alla ricerca sugli scimpanze' e alla protezione degli animali; alla giovane Greta Thunberg, che da sola ogni venerdi' scioperava per il clima e che a 16 anni ha iniziato a parlare della crisi climatica davanti ai politici di tutto il mondo, mettendoli con coraggio davanti alle loro responsabilita' per garantire un futuro alle giovani generazioni. 

Dalla biologa Rachel Louise Carson che negli anni 40 inizio' a studiare i pesticidi e lancio' il movimento ambientalista negli Stati Uniti con il suo "Primavera silenziosa", fino all'attrice premio Oscar Jane Fonda, che a oltre 80 anni ancora oggi protesta per chiedere azione contro i gas serra e non perde occasione per evidenziare la stretta correlazione fra crisi climatica e salute umana

Sono tante le eroine che alzano la voce per proteggere la natura e ognuna di loro rappresenta anche le migliaia di donne e ragazze che ogni giorno, attraverso le loro professionalita', si occupano di ambiente. 

In Italia, spiega il Wwf, sono tante le donne del panda impegnate sul campo, ecco solo alcune delle loro storie: Giulia Prato e Claudia Scianna, del Programma Mare Wwf, sono in contatto ogni giorno con uno dei settori maschili per eccellenza, quello della pesca e dei pescatori. Con il dialogo e la competenza, magari superando le diffidenze iniziali, lavorano per coinvolgere i pescatori nella tutela del mare, e farne degli alleati. 

A difesa delle tartarughe marine in Sicilia c'e' Oleana Prato, volontaria del Wwf, che la scorsa estate ha censito e in molti casi gestito, fino alla schiusa, ben 72 nidi lungo le coste siciliane, pari al 29% di tutte le nidificazioni italiane, assicurando oltre 3.100 piccoli nati alla biodiversita' marina

 Impegnata nella ricerca sui cetacei a bordo delle Vele del Panda con Wwf Travel, la giovane etologa Laura Pintore: nella stagione 2020 in 23 giornate di monitoraggio ha censito 32 cetacei ma anche individui di Caretta caretta, mobula, verdesca e pesce spada

In Abruzzo l'Oasi delle Gole del Sagittario dopo Filomena Ricci, oggi Delegato Regionale del Wwf, il testimone della direzione e' passato da un paio d'anni a Sefora Inzaghi. 

04/07/20

Spuntano dai fondali di Ventotene resti di una nave romana del VI secolo avanti Cristo




Nel mese di giugno 2020, a largo dell'isola di Ventotene, a seguito di una segnalazione effettuata da un esperto subacqueo del posto circa la possibile presenza di evidenze archeologiche su quel fondale marino, i militari del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (TPC) di Roma e del Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma, hanno individuato ad una profondita' di circa 40 metri, un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e una contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 51 cm) interessato da processi di ossidazione e corrosione, saldato ad un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro con barra mobile (lunghezza 1,5 m) ed un'ancora di minori dimensioni, tutte verosimilmente appartenenti al medesimo relitto di nave romana di epoca imperiale (I-II sec. d.C.).

E poi un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro (lunghezza 4 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora di "tipo rampino" (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C. 

Un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.. E infine un'ancora "tipo rampino" in ferro (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno. 

La Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone Latina e Rieti, attraverso il suo Servizio di tutela subacquea, ha stabilito di valorizzare il contesto archeologico in situ, secondo le recenti indicazioni UNESCO in merito al patrimonio culturale subacqueo 



26/01/15

In fuga dall'Isola.






Una volta abitavamo, insieme, sul Continente. Il Continente era fatto di terra odorosa e solida. Il Continente è da dove veniamo. Sul Continente abbiamo imparato – a prezzo di guerre e catastrofi – a convivere. Il Continente è la nostra storia, la nostra maledizione e il nostro rimpianto. I greci, sul Continente, hanno prodotto idee. I romani strade. I cristiani una fede.  E per molto molto tempo questo è bastato. Poi, tutto questo non è bastato più. 

Il Continente divenne, senza che quasi ce ne accorgessimo, inabitabile. I nostri padri ci abbandonarono. Molti di loro morirono ammazzati, altri, molti, si disinteressarono di noi. Venti contrari e siccità, una intollerabile promiscuità ci convinse che era l’ora di abbandonare il continente, e andare per mare. 

Qualcuno di noi, per primo, trovò l’Arcipelago. Ora viviamo qui, e la situazione nuova ci mette a disagio. La luce è abbagliante, e ci costringe a tenere gli occhi socchiusi. Il silenzio è abitato da un rumore di fondo indistinto, il rumore del mare, che rende pazzi. Ciascuno di noi è solo. 

 Per comunicare con gli altri di noi, che sono sulle altre isole, abbiamo bisogno di mezzi meccanici. Non sempre funzionano. Ma hanno il vantaggio di illuderci. 

E l’illusione è sempre meglio della realtà, così almeno ci illudiamo che sia. Vivendo sull’isola non sappiamo più bene chi siamo. 

Il tempo è indistinto. Sull’isola, ogni giorno vale come un altro. Sull’isola, non abbiamo punti di riferimento. 

Al punto tale che anche l’isola potrebbe muoversi, nella corrente, senza che ce ne accorgiamo. 

Un barlume di orientamento potrebbe venire soltanto dal cielo, di notte, quando brillano le stelle. Ma alla sera, siamo troppo stanchi per alzare gli occhi al cielo. 

Sull’isola, poi, tutto è relativo: non esistono bello e brutto, perché ci sono soltanto io qui, a giudicare. E ciò che sulla mia isola è bello, non lo sarà sulla tua. Non esiste giusto o ingiusto perché sono io il promulgatore della giustizia dell’isola e non pretendo di amministrarla su un’altra isola. Le isole sono collegate da canali. E’ difficile attraversarli, ma non impossibile. 

Ogni tanto mi assale una feroce nostalgia del Continente. Ma so già che non potrei mai tornarvi. Lo troverei cambiato per sempre, preda della giungla e degli animali feroci. Sull’isola, scavo ogni giorno un pezzetto di terra, e vi deposito qualcosa di me: unghie, denti che cadono, capelli. Fecondo la terra, ma so che nessuna terra può essere fecondata in mezzo alle tempeste del mare. Di notte imbastisco una preghiera. Qualcosa che ricordo di aver imparato da bambino. Poi mi perdo le parole, e devo ricominciare daccapo. 

Lo so, impazzirò se le cose continueranno così. Nessun colore di frutto o di foresta, di corallo o di mare, nessuna visione potrà salvarmi. La mia salvezza è la fuga dall’Isola. E’ quel che farò. Come un folle, mi lascerò portare alla deriva su qualche letto di canne. Sono sicuro che il mondo non è sparito, oltre queste isole. Ne sento, anzi, il soffio in lontananza. Ne sono sicuro. 

Oggi, nel mio taccuino rilegato in pelle scura ho scritto queste parole. Le ho ricopiate, le ha scritte quaranta anni fa un uomo che è morto, quattro mesi dopo averle scritte, in un incidente aereo, in Congo: 

Io non so chi – o che cosa – abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno – o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d’Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l’impegno nella vita è l’oltraggio, e che l’umiliazione più profonda costituisce l’esaltazione massima che all’uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto.  

Queste parole mi hanno dato speranza. E mi sono ricordato che la speranza era la qualità di mio padre, e prima di lui di mio nonno, e dei padri dei miei padri. Ho preso il largo, di sera, e non temevo la notte.

L’isola si allontanava, ma era dentro di me. Io ero l’isola. E la nuova terra, la nuova fertile terra, sarebbe stata l’anima vivente di tante nuove isole, senza più mare a confonderle, a perderle. Pensavo, mentre nuotavo, alla solita domanda insistente: To be or not to be ? E' stato allora che di fronte alla disperazione di Amleto:  the time is out of joint (il mondo è fuori dei cardini), mi sono ricordato della risposta giusta del Bardo: born to set it right (nato per rimetterlo in sesto). E sono arrivato al termine del mare. 


 Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata) - 2009

11/05/11

Lessico dei Poeti 4 - 'Mare'.


Mare.

Una volta partecipai ad un corso nel quale si chiedeva ai partecipanti di associare a diverse parole una sensazione. Tra queste parole, molto comuni, vi era la parola “mare”. Al momento di svelare le risposte scoprimmo che molti avevano associato la parola “vita” alla parola “mare”. Ma, anche se in misura meno consistente, alcuni avevano invece associato la parola “morte”, e uno aveva scelto invece il verbo “perdersi”. Questi sentimenti estremi suscita in noi il mare. Paura dell’abisso, beatitudine dell’acqua che rigenera, senso di perdizione. Tutto questo esprimono, con la sintesi tipica che solo i grandi poeti possono avere, i versi scritti da Jacques Prevert (1900-1977), nella poesia “L’annegato” :

Per l’annegato la morte è il mare/ E per il mare l’annegato è forse un po’ della sua vita/Ma/ se domandate all’annegato cosa pensa del mare/ Se gli domandate cosa pensa del mare /Se gli domandate il suo parere/ sulla vita della morte e l’amore della vita/ sulla morte della vita/ sulla vita dell’amore/ la più leggera schiuma delle onde di questo mare/ del più lontano dei suoi nuovi e così vecchi fiumi/ sorride senza rispondervi/senza rispondere per lui.

In questi versi di un poeta che forse un po’ a torto è stato ritenuto troppo ‘facile’ e ‘popolare’, c’è tutto questo: il mare che per l’annegato è la morte; ma anche paradossalmente il mare che è vita anche in quel corpo dell’annegato; e quel senso di perdersi che è appunto “la più leggera schiuma delle onde che… sorride senza rispondere. “ Tutto trascina, tutto porta via, il mare, per i poeti. Tutto ricorda, tutto suggerisce, tutto rinnova. Tutto spegne e tutto accende, tutto spera, e tutto dispera.

Sentimento bene espresso da Giovanna Bemporad, grande poetessa italiana, in In riva al mare, contenuta nella sua raccolta di esordio, Esercizi, che resta una specie di miracolo nel panorama della poesia italiana del Novecento. Una raccolta uscita a Venezia nel 1948, quando la poetessa aveva vent’anni.

Dalla mia fronte io esco in riva al mare

Dove destreggia sommessa i suoi baci

L’onda e conchiglie, imbuti del rumore,

ci ascoltano pudiche e indifferenti.

Su me sospende il cielo la sua curva

Larga, ariosa, e modella i miei passi

Non di un’età, non di un attimo , un’ora

Ma di un’antichità: parola estratta

Dalla tua pausa, o mare, fronte colma.

Antichità. Un’altra parola chiave per capire il linguaggio del mare, il suo esercizio attrattivo nei confronti dei mortali. Il mito è metafora per interpretare la disperazione del vivere, in un’altra meravigliosa poesia, I figli del mare , una della ultime composizioni poetiche di Carlo Michelstaedter, scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare: Itti e Senia costretti ad attraversare la morte dei mortali.

Ritornate

Alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.

Ma a questo invito alla rassegnazione Itti replica che la morte così temuta dagli uomini altro non è che coraggio, e non abbandono: il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore, navigando verso il mare libero, scegliendo il rischio e la sfida.

Il mare che è attesa. Quel senso di sospensione, quello ‘stare sulla riva’ (dopo il fallimento delle passioni e delle ideologie), che un altro poeta italiano, Gianni d’Elia ( nato a Pesaro nel 1953) descrive propriamente in una lirica che dà il titolo a Sulla riva dell’epoca (pubblicata da Einaudi, nel 2000) :

Qui stiamo. Aspettiamo, sulla riva

Del mare, che appaia qualche segnale

Che ancora non sappiamo. Oltre il macello

Umano, anche oltre il sogno che avevamo

Nella mente e nel cuore, facendo pugno

Nella mano. …. Pure qui

Restiamo e insistiamo, fra mondo

E terra, a dare il fiore….

Il mare che non dà sonno e non dà requie. Che atterrisce e invita, che – visto da fermo – invita sempre e sempre a ricapitolare la propria vita, a ripercorrerne i passi, i ricordi, le attese, i gesti minimi. L’estate al mare, un altro “must” che i poeti italiani – gente che sa cosa vuol dire il mare – ha saputo raccontare con i toni più alti, e suggestivi.

Tra gli ultimi in ordine di tempo, Milo de Angelis, nato a Milano nel 1951, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, in Tema dell’Addio, pubblicato da Mondadori nel 2005:

Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza

di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.

E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria.

a tre secondi dalla fine. E Roberta

che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,

in un silenzio di ospedali, quando il tempo

rivela i suoi grandi paradigmi.

“Torneranno vivi gli amori tenebrosi

che in mezzo agli anni lasciarono una spina,

torneranno, torneranno luminosi."

Fabrizio Falconi