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08/02/21

Alla Casa del Cinema di Roma una grande mostra su Mario Monicelli

 

Mario Monicelli al lavoro (alla sua sinistra si riconosce un giovanissimo Carlo Vanzina, assistente alla regia)



Debutta oggi,  lunedi' 8 febbraio alla Casa del Cinema la mostra "Mario Monicelli" realizzata dal Centro Sperimentale di Cinematografia.

La mostra e' allestita nelle sale della Casa del Cinema intitolate a due grandi sceneggiatori del cinema italiano come Sergio Amidei e Cesare Zavattini. 

Si tratta di una spettacolare galleria di immagini provenienti dall'archivio fotografico della Cineteca Nazionale, che ripercorrono passo passo tutta la storia artistica di Mario Monicelli, dagli esordi in coppia con Steno alla fine degli anni '40 (Toto' cerca casa) fino al film del commiato, Le rose del deserto (2006)

In attesa della riapertura degli spazi espositivi di Casa del Cinema sarà possibile "vedere" questa straordinaria storia artistica per immagini grazie alle riprese della mostra con la regia di Stefano Landini e agli approfondimenti su singoli momenti del cinema di Monicelli, accompagnati da un anomalo "Virgilio" come il critico Alberto Crespi che raccontera' insieme al direttore della Casa del Cinema, Giorgio Gosetti e ad altri ospiti - tra i quali lo scrittore Paolo Di Paolo, autore di un saggio presente nel numero di "Bianco e Nero" dedicato a Monicelli - alcuni titoli memorabili nella filmografia del regista, da "L'armata Brancaleone" a "La grande guerra", dagli esordi sul set alle collaborazioni con gli sceneggiatori, gli attori, i produttori, i tecnici di un cinema italiano applaudito in tutto il mondo. 

Appuntamento ogni lunedi', dall' 8 febbraio sui social network della Casa del Cinema (Facebook, Twitter, Instagram) e sui profili Facebook del Centro Sperimentale di Cinematografia e della Cineteca Nazionale, in attesa di una visita dal vivo della mostra.

29/06/20

29 giugno 2000 - 20 anni senza "Il Mattatore" - Ricordo di Vittorio Gassman






Ha scelto il giorno di San Pietro e Paolo, patroni di Roma, per andarsene nel sonno, giusto 20 anni fa il 29 giugno. 

Non era romano Vittorio Gassman, figlio di un ingegnere tedesco, passato per una breve stagione a Palmi, cresciuto a Roma e rivelatosi a Milano; non era romano, ma sapeva esserlo piu' di tanti suoi concittadini, capace pero' di mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali. 

Ma alla fine e' stato tanto romano da meritarsi (come solo Anna Magnani e Marcello Mastroianni) una doppia targa stradale nelle vie della sua citta' adottiva

Del "mattatore", appellativo che lo ha sempre accompagnato dal 1959 quando ebbe grande successo televisivo in uno spettacolo dallo stesso titolo che poi trasloco' nella riuscita commedia di Dino Risi, non e' facile dare una sola definizione: gli riusciva tutto e apparentemente senza sforzo

Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo e svelo' nella sua autobiografia i tarli dell'anima, si scopri' la fatica della perfezione, l'infaticabile ricerca del dettaglio, la necessita' di superarsi ogni volta con precisione maniacale.

Si e' detto che aveva personalita' bipolare e si descrisse malato di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la propria immagine pubblica. 

Eppure era felicemente ammalato di vita, sprizzava giovialita', fisicita', intelligenza e per questo fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice esecutore

Aveva fin da giovane la presenza scenica del prim'attore, ereditava il piglio roboante della generazione di Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), usava il corpo come strumento della sua arte. 

Prestante e bello, da ragazzo era arrivato a disputarsi lo scudetto del basket universitario con la societa' sportiva Parioli, ma il teatro ebbe presto la meglio, visto che gia' svettava tra i compagni di corso all'Accademia d'arte drammatica. 

In piena guerra, nel '43, debutto' a Milano con Alda Borelli nella "Nemica" di Niccodemi, ma fu all'Eliseo di Roma, in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fece notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo

Se sul palcoscenico non ha mai avuto difficolta' a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci furono Luchino Visconti, il compagno d'Accademia Luigi Squarzina e piu' tardi Giorgio Strehler), al cinema dovette passare per piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da "villain" e seduttore pericoloso come in "Riso amaro" di Giuseppe De Santis nel 1949

Ma nel decennio successivo fu il teatro a mantenere alta la sua popolarita': fra il '52 e il '56 la sua lettura di Shakespeare (prima "Amleto" e poi "Otello") fecero storia cosi' come l'"Orestiade" di Eschilo con la regia di Pasolini. 

Gassman sembrava un dio greco, l'incarnazione del teatro, svettava in un'Italia ancora piegata sotto le conseguenze della guerra persa. 

Ma il cinema, nella persona di Mario Monicelli, gli offri' l'occasione di essere "altro". Ne "I soliti ignoti" (1958) incontro' il successo nel modo meno atteso: con Peppe "er Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indosso' una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per anni. 

Fu l'inizio di un'escalation inarrestabile che lo consegna alla storia della commedia all'italiana, uno dei "quattro colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi

Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come Dino Risi, Luciano Salce, Luigio Zampa, Ettore Scola, con Monicelli in testa

Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul "Miles Gloriosus" plautino, cosi' come Risi gli offri' lo spaccone disperato de "Il sorpasso", mentre Scola fu suo complice in tutto l'itinerario della maturita' da "C'eravamo tanto amati" a "La famiglia"

Meno nota, ma non meno intensa e' la carriera internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali e, dopo la rivelazione in "Guerra e Pace" (1956), dagli anni '70 in poi avra' i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, Andre' Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson. 

Si provera' anche come regista in proprio, riversando una buona dose di autobiografia in tentativi ambiziosi come "Kean" o "Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con Paolo Villaggio.

Chiudera' la carriera la' dove l'aveva iniziata, in palcoscenico, tra l'intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo "Ulisse e la balena bianca" che e' una sorta di testamento artistico ed esistenziale. 

Nato nel 1922, sognava di morire in scena e per poco non ci e' riuscito. 

Spirito irregolare e controcorrente, ha dato scandalo nella vita privata con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme.

Spirito inquieto, paradossalmente e' stato il meno "italiano" dei nostri grandi attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava. 

Sognava un suo teatro ma solo dopo morto il Quirino di Roma gli e' stato intitolato; meritava l'Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di un premio a Cannes (per lo stesso film)

La Mostra di Venezia gli ha dato il Leone d'oro alla carriera nel 1996, ma poteva accorgersi di lui ben prima

E' stato un gigante solo e forse proprio questo enorme vuoto che lasciava ogni volta che usciva di scena lo rapiva e terrorizzava insieme. Di certo e' il sentimento che lascia nel cinema e nel teatro italiano anche oggi. Sulla sua lapide sta scritto: "Non fu mai impallato". 




07/06/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 27. "La Grande Guerra" di Mario Monicelli (1959)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 27. "La Grande Guerra" di Mario Monicelli (1959)

Film straordinario, che ebbe e continua ad avere uno straordinario successo all'estero, rappresenta uno dei migliori esempi di sempre del felice connubio di tragedia e commedia che in Italia è stato genericamente chiamato "commedia all'italiana". 

In realtà il film non può essere tecnicamente compreso sotto quella definizione: La Grande Guerra è infatti un affresco corale, ironico e struggente che consiste in un grande apologo contro la guerra, muovendo i passi dalla vita di trincea durante la prima guerra mondiale, con le vicissitudini di un gruppo di commilitoni sul fronte italiano nel 1916, narrate con piglio neorealista e con una maniacale  attenzione ai particolari storici. 

Monicelli trasse lo spunto per il film da un'idea di Luciano Vincenzoni che si era a sua volta ispirato ad un racconto di Guy de Maupassant, Due amici, affidando la sceneggiatura allo stesso Vicenzoni e ad Age & Scarpelli. 

I protagonisti del film sono due soldati, il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) che si incontrano per la prima volta in un distretto militare durante la chiamata alle armi  e finiscono sulla stessa tradotta per il fronte, diventando nonostante le rispettive differenze e diffidenze, amici. 

Seppure di carattere completamente diverso, i due sempliciotti sono uniti dalla mancanza di qualsiasi ideale e dalla volontà di evitare ogni pericolo pur di uscire indenni dalla guerra. 

Attraversate numerose peripezie durante l'addestramento, i combattimenti e i rari momenti di congedo, in seguito alla disfatta di Caporetto vengono comandati come staffette portaordini, mansione molto pericolosa, che viene loro affidata perché considerati come i "meno efficienti". 

Una sera, dopo aver svolto la loro missione, si coricano nella stalla di un avamposto poco lontano dalla prima linea, ma una repentina avanzata degli austriaci li "trasporta" in territorio nemico. 

Sorpresi ad indossare cappotti dell'esercito austro-ungarico nel tentativo di fuga, vengono catturati, accusati di spionaggio e minacciati di fucilazione. 

Sopraffatti dalla paura ammettono di essere in possesso di informazioni cruciali sul contrattacco italiano sul Piave, e pur di salvarsi decidono di passarle al nemico. 

Ma proprio quando stanno per concretizzare il loro tradimento, l'arroganza dell'ufficiale austriaco ed una battuta di disprezzo verso gli italiani ridà forza alla loro dignità, portandoli a mantenere il segreto fino all'esecuzione capitale, l'uno insultando spavaldamente il capitano nemico (il milanese Busacca)  l'altro (Jacovacci), dopo la fucilazione del compagno, fingendo di non essere a conoscenza delle informazioni, finendo così per essere fucilato poco dopo l'amico. 

La battaglia si conclude poco tempo dopo, con la vittoria dell'esercito italiano e la riconquista della postazione caduta in mano agli Austriaci, ignorando il sacrificio nobile di Busacca e Iacovacci, ritenuti fuggiaschi, i quali hanno optato per la fucilazione pur di non tradire i propri connazionali. 

Tra i molti film contro la Guerra, questo di Monicelli è probabilmente l'unico ad aver mescolato così sapientemente i toni della tragedia a quelli della farsa: una sorta di Orizzonti di Gloria senza il cinismo, la brutalità e la ferocia morale di Kubrick, e con la levità invece, tutta italiana e universale, di Monicelli, virata ad un atavico pessimismo, al quale fornisce una parziale compensazione solo la scelta di restare umani, con tutte le proprie bassezze o debolezze.

Il film vinse il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia (ex aequo con il Generale della Rovere di Rossellini) e ottenne la nomination al Miglior Film Straniero, sia al Globo d'Oro sia agli Oscar.

Fabrizio Falconi

La Grande Guerra
di Mario Monicelli
Italia, 1959 
Durata: 129 minuti
Con: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Folco Lulli, Bernard Blier, Romolo Valli.




28/02/18

"Tutto ciò che ho visto, tutto ciò che ho capito", una bellissima intervista a Liv Ullmann che quest'anno compie 80 anni.


Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Giorgio Vasta e uscita sul Venerdì di Repubblica del 6 Febbraio scorso, che ringraziamo. 
Una scogliera filmata in bianco e nero, le rocce piatte e scabre, sullo sfondo un frammento di mare grigio. Dal limite basso dell’inquadratura compare una donna, indossa un lupetto e una giacca impermeabile: ci guarda, solleva una macchina fotografica, fissa nell’oculare del mirino, scatta, impercettibilmente ci sorride, si volta e si allontana verso la costa caliginosa.
È una scena brevissima di Persona, il film con cui nel 1966 Ingmar Bergman ridefinisce la grammatica della narrazione per immagini, eppure, forse proprio per questa sua fugacità, quel lampo di fotogrammi è uno dei modi in cui il volto di Liv Ullmann – il suo sguardo perentorio e disarmato – si è fatto cinematograficamente indimenticabile.
Quando l’attrice norvegese gira Persona ha ventotto anni – nata a Tokyo nel ’38 trascorre l’infanzia in Canada e poi negli Stati Uniti, dopo la fine della Seconda guerra torna in Norvegia, a Trondheim – e, sebbene prima di allora abbia già recitato in altri film, il ruolo di Elisabet Vogler – l’attrice teatrale che all’improvviso smette di parlare trasformando il silenzio in una strategia di disvelamento – è il suo vero e proprio esordio. Una nuova origine, un ennesimo inizio. Qualcosa che non se ne sta immobile alle nostre spalle bensì davanti a noi, una sostanza di cui sentiamo la mancanza e che per una vita intera continuiamo a cercare. Nel suo capolavoro del 1957, Bergman chiamava questa origine là da venire «il posto delle fragole»; per Ullmann è qualcosa di immateriale.
Rispondendo alle nostre domande da Key Largo, in Florida, dove trascorre l’inverno – la voce fluida e sottile, a tratti esitante – Liv Ullmann racconta: «La mia origine è mio padre, che è morto quando avevo sei anni e che sento sempre intorno a me, ed è mia madre, scomparsa dieci anni fa, alla quale ho domandato scusa per tutto ciò che non ho saputo capire. Ma la mia origine è soprattutto mia nonna, l’odore del suo collo quando da piccola mi prendeva sulle ginocchia per raccontarmi le storie della sua infanzia. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che avesse quello stesso odore senza trovarlo né in mia madre né nell’uomo che amo né negli uomini di cui sono stata innamorata».
Il senso del dovere e il senso di colpa sono stati un altro modo in cui l’origine si è manifestata. «In tutti i miei film ho avuto la possibilità di elaborare il mio senso del dovere e di vederlo rappresentato nei ruoli che ho interpretato. Il senso di colpa è stato invece parte integrante della mia educazione, un condizionamento determinato anche dall’essere una donna in un mondo di uomini».
Colpa e dovere sono la corazza che Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen – per Ullmann una stella polare, un ruolo così lungamente frequentato da diventare la cartina di tornasole delle sue più personali metamorfosi –, riesce infine a spezzare. «Nel tempo il mio desiderio di liberarmi da questa armatura ha combattuto contro la mia educazione, ma in realtà non sono mai riuscita a svincolarmi del tutto. Ancora adesso, ogni mattina appena mi sveglio mi dico: Oggi sarò Liv, sarò una persona perbene ma non farò quanto gli altri si aspettano da me, solo quello che io penso sia ok. Come Nora, anch’io attendo ogni giorno di percepirmi come meraviglia».
In Cambiare, l’autobiografia pubblicata nel ’77 (seguita nell’85 da un secondo libro di memorie, Scelte), Ullmann racconta che negli anni di più intensa attività – durante i quali viaggia da un continente all’altro (spesso insieme a Linn, la figlia nata nel ’66 dalla relazione con Bergman) lavorando anche con Jan Troell, Terence Young, Richard Attenborough, e in Italia con Monicelli e Bolognini – poteva trovarsi, rientrata a casa, a osservare Tasse, la sua gatta, per rubarleun’espressione da usare in scena. Tutto ciò che esisteva era un patrimonio al quale attingere. «Il mondo è stato il mio partner. Nel mio modo di essere attrice c’è la consapevolezza di possedere qualsiasi sentimento, tutto ciò che ho visto e tutto ciò che ho capito. Quel che ho fatto è stato andare dentro di me, trovare questi sentimenti e tradurli all’esterno: in ogni gesto, anche solo in un’andatura».


Senz’altro in quelle espressioni che i close-up di Bergman hanno saputo osservare come nessun altro, da quella di Jenny in L’immagine allo specchio a quella di Anna Fromm in Passione, da quella di Alma in L’ora del lupo a quella di Eva in Sinfonia d’autunno, passando per il volto di Marianne in quel trattato di anatomofisiologia di una coppia che è Scene da un matrimonio – lo sguardo che slitta dalla felicità all’indifferenza fino a una disperazione del legame da cui affiora un ultimo barlume di solidarietà. «Amo il primo piano perché in quel momento il nostro sguardo arriva vicinissimo all’animo umano. È qualcosa che in teatro non può avvenire ma nel cinema sì, e quando avviene è fantastico: in quel momento la recitazione scompare: l’unica cosa che si deve vedere è la realtà di un volto al di là della realtà».
Passando in rassegna quei ritratti-indagine ci rendiamo conto che per il regista svedese il volto della donna con cui condivise una decina di film e cinque anni di vita(in gran parte trascorsi nella tana-rifugio dell’isola di Fårö, situata tra Russia e Svezia: «un relitto dell’età della pietra», nella percezione di Ullmann) è stato un luogo inesauribile da cui non riusciva a distogliere lo sguardo, come non ci riusciamo noi, oggi, constatando la potenza di quell’ovale così saldamente morbido, ortogonale e poroso, altero e delicato, fatto di granito e di cotone: un volto esemplare, essenziale e complesso, all’apparenza imperturbato ma in realtà – in quella particolare realtà che è il cinema – timido, inquieto, profondamente vulnerabile (un volto, quello di Liv – e quindi di Elisabet Jenny Anna Alma Eva Marianne – che nei prossimi mesi verrà visto innumerevoli volte: alla fine del 2018 Ullmann compirà ottant’anni e nello stesso anno in tutto il mondo si celebra il centesimo anniversario della nascita del regista del Settimo sigillo).
«Tutte le immagini scompariranno» ha scritto Annie Ernaux in Gli anni. Tutte le immagini. Tutto ciò che abbiamo pensato, tutto ciò che abbiamo ricordato. Tutte le percezioni. Prima di allora abbiamo però ancora modo di recuperare qualcosa. E dunque, quando la nostra conversazione sta per concludersi, c’è ancora il tempo per contraddire una certezza. «Trent’anni fa ero sull’isola di Macao. Davanti a me un recinto con un cartello che vietava l’ingresso, oltre il recinto decine di persone con la lebbra. Non intendevo entrare ma un prete cattolico mi si era avvicinato e mi aveva condotto all’interno. Addossata al recinto giaceva una donna molto vecchia: il volto deturpato, i moncherini, un pianto da neonata. Quando mi sono chinata e l’ho abbracciata ho sentito che il suo collo aveva lo stesso odore di quello di mia nonna».
Ciò che sparisce – chi sparisce – diventa di colpo reale: diventa l’origine davanti a noi, il nostro posto delle fragole. Un fantasma che prende la forma di un odore o si concentra in un balenare di fotogrammi: la scogliera, la donna, lo scatto della foto: Liv Ullmann che per un istante – dunque, in quella forma di memoria che è il cinema, per sempre – ci guarda, ci sorride, diventa indimenticabile.
Giorgio Vasta per il Venerdì di Repubblica

26/09/17

Come Age e Scarpelli inventarono il nome di Brancaleone passeggiando per Roma.



La Tomba di Laudomia, figlia di Brancaleone, nella chiesa di San Pantaleo.

Molto probabilmente nel celebre film L’armata Brancaleone, diretto da Mario Monicelli nel 1966, uno dei capolavori del cinema italiano, Age e Scarpelli, che firmarono la sceneggiatura si ispirarono, per il nome del protagonista, ad uno dei tredici cavalieri italiani che si sfidarono, il 13 febbraio del 1503, nella piana tra Andria e Corato, in Puglia, nel celebre scontro cavalleresco passato alla storia come Disfida di Barletta: tra i tredici cavalieri italiani che combatterono sotto l’egida spagnola contro i loro avversari francesi, ve n’era infatti uno che si chiamava Giovanni Brancaleone. 

E chissà se Age (Agenore Incrocci) e Furio Scarpelli non trassero questa ispirazione visitando la piccola chiesa di San Pantaleo, che si affaccia sulla piazza omonima, lungo Corso Vittorio Emanuele II: qui, in questo poco conosciuto edificio di culto, infatti, si conserva una memoria romana di quella celebre Disfida, ovvero i resti mortali di Laudomia, che era la figlia di Giovanni Brancaleone, come si legge sulla lapide del sarcofago nel passetto per raggiungere la sacrestia, con una iscrizione che recita

D.O.M. Laudomiae Johannis
Brachalonii qui inter
tredicim Italos cum
totidem Gallis certavit et vicit. 

E’ comunque solo una delle attrattive di questa Chiesa poco conosciuta, che merita di essere visitata se non altro per la sua lunghissima storia: esistente già dal 1100 d.C. fu intitolata al martire romano San Pantaleo, martirizzato nel 305 d.C. sotto l’imperatore Diocleziano; e oggi ospita anche il corpo di San Giuseppe Calasanzio, morto a Roma nel 1648, fondatore dei Chierici Poveri della Madre di Dio, e proclamato santo nel 1767

I suoi resti sono conservati in una magnifica urna di porfido rosso, mentre le scuole a lui intitolate si trovano in molti e diversi angoli di quattro diversi continenti.

Fabrizio Falconi, tratto da: Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editori, Roma, Roma rist.2017. 

Chiesa di San Pantaleo, Roma

04/04/16

Una grande mostra dedicata a Mario Monicelli e al suo cinema.



Alla Galleria d'ArteModerna e Contemporanea di Viareggio si è appena inaugurata 'Mario. Chiara Rapaccini e Andrea Vierucci per Monicelli', terza mostra del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016 che ha aperto i battenti ieri per proseguire sino al 10 aprile, tra Lucca, Viareggio e Barga. 

Proprio il 3 aprile, al cinema Centrale di Viareggio, che Monicelli aveva eletto come sua citta' d'adozione, verra' riproposto in sala L'Armata Brancaleone, del 1966. 

Introdurra' la proiezione Chiara Rapaccini, compagna di una vita del regista. La mostra, che gli rende omaggio, proseguira' fino al 16 maggio

 L'esposizione e' nata dall'incontro tra l'artista Chiara Rapaccini, in arte Rap, e il fotografo Andrea Vierucci. 

L'incontro, avvenuto sul set di un servizio fotografico per la rivista Ville Giardini, ha segnato l'inizio di un'amicizia e un sodalizio artistico che li ha portati nel corso del 2015, anno dedicato al centenario della nascita del cineasta, a collaborare con entusiasmo a diversi progetti

Le opere di Chiara Rapaccini sono diventate, tra le altre cose, protagoniste di un'installazione surreale, ambientata all'interno di una fabbrica abbandonata nella laguna di Orbetello, che Vierucci ha poi fotografato. 

Alla GAMC di Viareggio i due artisti scelgono di raccontare il cinema italiano attraverso le arti

Le foto di scena dei set di Monicelli si trasformano in teli dipinti, graffiati, ricamati, fotografati in un'archeologia industriale, per tornare, come in un gioco dell'oca, al filmato proiettato sul muro del museo. 

Dai tessuti di cotone, un giovane Mario Monicelli sorride, giocando con i suoi cappelli. Intorno, leggeri, fluttuanti, i volti di Toto', Anna Magnani, Gassman e Mastroianni

 L'unione tra architettura, cinema, pittura e fotografia sembrano magicamente ritrovare un unico filo conduttore nelle immagini di Andrea Vierucci che ha raccolto con grande coinvolgimento emotivo oltre che professionale il lavoro di Chiara Rapaccini.

 Per i suoi teli, Chiara Rapaccini si e' ispirata alle fotografie del suo archivio privato scattate dai piu' grandi fotografi di scena degli anni '60, '70, '80, '90, sui set dei film di Mario Monicelli. 

Queste foto erano state gettate via, insieme ad altri documenti preziosi, dallo stesso Monicelli, come "documenti del passato di nessun valore"

Chiara le ha recuperate, e negli anni le ha catalogate, ordinate, archiviate, lasciandosi ispirare dai forti contrasti del bianco e nero della pellicola e dalla straordinaria forza espressiva del lavoro dei maestri della fotografia di scena, Secchiaroli, Strizzi, Doisneau.