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12/06/22

Il grande Saul Bellow, uno dei più grandi narratori americani: perché ci manca


 

Saul Bellow, di cui due giorni fa, il 10 giugno, ricorrevano i centosette anni dalla nascita e il 5 aprile i diciassette dalla morte, è una figura che non farà che prendere spazio nella prospettiva storica della letteratura americana di cui ha rappresentato un legame con la grande tradizione e, assieme, il momento di rottura, di innovazione.
Dopo i libri cesellati e minuziosi degli inizi, come L'uomo in bilico o La vittima che derivano dalle indagini sullo stile e la scrittura di Henry James, si propose di scrivere un libro del tutto americano, "libero dalla schiavitù autoimposta e arbitraria dei modelli inglesi", e nacque il suo primo grande romanzo, Le avventure di Augie March.

Premio Nobel per la letteratura nel 1976, Bellow (1915-2005) è considerato quindi uno dei grandi della letteratura americana, forse il più grande dal dopoguerra, che va ben oltre il ricco filone della produzione ebraica americana e leggerlo essenzialmente legandolo a quella sua intima e evidente matrice sarebbe un errore, una limitazione.
Figlio di immigrati ebrei russi, nato in a Lachine, nel Quebec (Canada), il 10 giugno 1915, Bellow è cresciuto a Chicago negli anni '20 e '30 ed ha avuto una vita sentimentale movimentata, con cinque mogli (e quattro divorzi), oltre a numerosissime amanti.

Uno scrittore diventato punto di riferimento essenziale con opere, per fare solo tre titoli, come Herzog (1964), Il pianeta di Mr. Sammler (1970), Il dono di Humboldt (1975) in cui predomina, sullo sfondo di una curiosità onnivora e prettamente umanista, la descrizione dello spaesamento intimo, che nasce da radici fisiche e culturali (l'ebraismo) e diventa universale e metaforico dei nostri tempi, sotto la continua minaccia di una realtà sempre più incomprensibile, in un mondo che ha perso chiarezza, in cui bene e male si confondono e le eterne domande sul senso dell'esistenza, restano dolorosamente senza risposta.
Augie March riprende il tema caro alla letteratura americana del ragazzo libero e dalle avventure picaresche (il modello sono Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain), col protagonista che racconta di sé e si interroga sul proprio destino, mischiando energia vitale e comicità, brutale solitudine e feroce lotta col mondo nel tentativo di non essere schiacciato e di non perdere i brandelli della propria individualità, rifiutando di essere conglobato e omologato, in difesa della propria umanità.

E quest'ultimo è il tema di fondo dell'opera di Bellow e delle altre sue opere, da Humboldt l'intellettuale che interrogandosi sui mali del Novecento, si chiede come sia potuto accadere tutto e finisce per chiudersi in se stesso, a Mr Sammler, un anziano che guarda con amara coscienza alla propria vita alienata e pressata dalle ingiustizie, dal razzismo, della società americana, come una condanna senza uscita.
I suoi eroi, con i loro lunghi, scintillanti monologhi interiori, sono esuberanti, innamorati, intellettuali, capaci di guardare con autoironia alla propria incapacità a sottrarsi alle seduzioni femminili (spesso rappresentate da donne virago, assetate di sesso e di conto in banca), in un'epoca in cui la famiglia ha perso il suo valore e va disintegrandosi.

Perdenti che non soccombono, e che rielaborano e destrutturano i miti della frontiera e del sogno americano, infranti sulla soglia della modernità.

Una lucidità di pensiero, prima che di scrittura, ineguagliabile. Che aiuta a districarsi nel caos e si ostina a dare voce alla ragione e alle ragioni del cuore. Ultimo grande lascito di una grande letteratura che aiutava non poco a comprendere (e a dare un nome) al mondo.

"La colonna vertebrale della letteratura americana del Novecento - disse Philip Roth alla morte di Bellow - è stata fornita da due romanzieri, William Faulkner e Saul Bellow. Insieme sono i Melville, gli Hawthorne e i Twain del ventesimo secolo".

Fabrizio Falconi - 2022

Fabrizio Falconi

17/11/13

Dieci grandi anime - 3. C.S.Lewis (1)



     
 (Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (1)    


     3Clive Staples Lewis


Credo sia difficile trovare una vita più esemplare di quella di Clive Staples Lewis, come appare dal resoconto che egli stesso ne ha fatto e dal racconto dei molti biografi - tutta giocata sulla drammatica dicotomia gioia-dolore.  In effetti la vicenda umana del grande scrittore irlandese si può riassumere semplicemente in questi due estremi e in un confine poco ampio  tra queste due parole. 

Sorpreso dalla gioia si chiama l’autobiografia scritta e pubblicata da Lewis nel 1955. (1)  Il titolo non è casuale. Da molti anni, prima di quella data, lo scrittore ha usato quella parola – joy – per descrivere il fine della ricerca con l’assoluto, con Dio.   Joy è quel sentimento indescrivibile  indistinto intorno a cui tutta l’opera di Lewis sembra ruotare, che comincia ad affascinare lo scrittore quando egli è poco più di un ragazzo. All’inizio è semplicemente il piacere fisico che deriva dalla lettura delle grandi saghe, dei miti del nord,  delle opere di John Donne e di Milton.  Poi si trasforma in un misto di amore per la natura, fascino per il mistero e l’insondabile, propensione a conoscere e svelare gli arcani che si celano dietro un destino, respiro di un disegno divino dietro l’apparenza delle cose.   Questa gioia prenderà, durante la vita di Lewis strade diverse e apparentemente contraddittorie: a soli 15 anni abbandona la fede cristiana con motivazioni molto dettagliate, espresse proprio nella autobiografia.  E’ un distacco dalle stesse radici famigliari:  il padre, Albert James Lewis era un avvocato con ascendenze gallesi, cattolico; la madre, Flora Augusta Hamilton veniva da una famiglia molto religiosa, suo padre era un pastore protestante. Sembrerebbe un distacco definitivo.

Ma nel 1931 Lewis fa ritorno al cristianesimo con una profonda conversione (nelle pagine autobiografiche di quel periodo c’è la descrizione ancora più circostanziata di quello spirito di gioia) e l’adesione alla chiesa anglicana, alla vigilia della esplosione di un successo letterario enorme, che farà di lui uno degli autori più popolari di lingua inglese nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale.

Quella parola – joy – ha però in serbo altre sorprese per lui: si presenta infatti, molti anni più tardi, quando ormai è uno scrittore celebre, sotto forma di un nome proprio, di una persona che sconvolgerà la vita di Lewis.  Un incontro fatale maturato dapprima attraverso una corrispondenza: comincia a scrivergli, alla fine del 1950, una donna americana, poetessa dilettante, che si dichiara appassionata lettrice delle sue opere. Si chiama Helen Joy Davidman-Greshman, ha trentasette anni, un marito con il quale non va più d’accordo, e due figli.  Si è convertita da poco al cristianesimo grazie anche alla profonda impressione che le ha suscitato la lettura dei libri di Lewis. Forse anche nella speranza di incontrare e conoscere lo scrittore, si trasferisce nel 1953 In Inghilterra, a Londra, insieme ai figli, dopo aver concordato un periodo di separazione dal marito, che si concluderà con la concessione del divorzio, nello stesso anno.    Joy e Lewis cominciano a scriversi lettere dapprima formali, e che riguardano soprattutto i romanzi dello scrittore. Poi, entrano sempre più in confidenza, decidono di incontrarsi. Scoppia, imprevedibilmente  (Clive ha all’epoca cinquantacinque anni) l’amore.  I due si sposano dapprima civilmente – per permettere alla donna il rinnovo del permesso di soggiorno che le è stato negato dalle autorità inglesi - nel 1956, e l’anno seguente anche con rito religioso.

Clive Lewis scriverà nella sua autobiografia che questa singolare circostanza di chiamarsi Joy – proprio come la qualità spirituale che aveva cercato per tutta la vita -   avrà un peso particolare,  nel racconto di questa storia.

Una favola ?  
Non proprio, perché – come dicevamo all’inizio – la vita di Clive Staples Lewis è un continuo ondeggiare tra gioia e dolore.  Il dolore, anzi, sembra seguire quest’uomo, questo scrittore affermato, come un’ombra fedele durante tutta la sua vita.   Al dolore – anzi – finirà per dedicare un testo capitale (2).


Il dolore gli si presenta subito, il 23 agosto del 1908 – il piccolo Clive ha dieci anni -  quando muore la madre. E’ una perdita disperante, per un bambino dalla straripante immaginazione. E’ stata proprio l’adorata madre, Flora, ad iniziarlo all’amore per i romanzi e la letteratura. Il resto l’ha fatto il trasloco, al seguito del padre, nella nuova casa, un nuovo elegante ed enorme cottage immerso nella campagna – chiamato nel libro di memorie, Little Lea -  e la lettura dei libri di Beatrix Potter (l’inventrice di Peter Coniglio), di Mark Twain e di Edith Nesbit. La morte della madre cambia completamente il quadro di una infanzia felice e fantasiosa. Clive, insieme al fratello Warner (Warnie) più grande di tre anni, finisce al seguito di diversi tutori, scelti dal padre per proseguire lo studio delle lingue classiche, poi nel campo di concentramento -   così le definisce Lewis nella sua autobiografia – di severe scuole inglesi, infine al fronte, in guerra, dove gli capita anche, nel 1918,  di veder morire il suo migliore amico, Paddy Moore, e di essere a propria volta ferito, prima di essere ricoverato a lungo in ospedale e ammalarsi di depressione.

(segue -1./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


1.      Surprised by Joy: The Shape of my Early Life è edito in Italia da Jaca Book, Milano, 1981, con il titolo Sorpreso dalla Gioia.

2.     A Grief Observed, pubblicato da Clive Staples Lewis con lo pseudonimo di N.W.Clerk nel 1961, è edito in Italia da Adelphi con il titolo Diario di un dolore, Milano 1990, traduzione di Anna Ravano.