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01/04/22

L'incredibile destino di Dag Drollet, ucciso dal figlio di Marlon Brando

 


Questa foto è davvero un reperto piuttosto terribile. Fu scattata nel 1988 e ritrae, da sinistra a destra Cheyenne Brando (la figlia di Marlon Brando e dalla tahitiana Tarita, terza moglie di Brando), insieme al fidanzato Dag Drollet (che aveva cominciato a frequentare l'anno prima), e alla madre di lui, Lisette. 

Due anni dopo questa foto, Dag Drollet fu ucciso con un colpo di pistola da Christian Brando, anche lui figlio dell'attore, fratellastro di Cheyenne, la quale all'epoca era incinta di Dag all'ottavo mese. 

Fu un evento scioccante per l'opinione pubblica mondiale: Christian Brando se la cavò con 5 anni di galera (Cheyenne non fu ritenuta testimone attendibile perché gravemente instabile psichicamente e dipendente da droghe). E l'evoluzione delle cose fu ancora più tragica: Christian, morì il 26 gennaio 2008, a 50 anni, a causa di una polmonite fulminante. Cheyenne Brando, invece, si impiccò il 16 aprile 1995 a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti, quando aveva soltanto 25 anni.

Ma perché Christian uccise il fidanzato della sorella? 

Christian Brando al momento dell'arresto

Dag Drollet, come si vede dalla foto, era un bellissimo ragazzo. Suo padre, Jacques Drollet, era membro dell'Assemblea della Polinesia francese. Cheyenne lo conobbe nel 1987, quando aveva 17  anni, a una cena perché la famiglia Brando e i Drollets erano amici di lunga data. 

Due anni dopo, Cheyenne rimase incinta. Su richiesta di Marlon Brando, la coppia si trasferì negli Stati Uniti, nella casa di Marlon's Mulholland Drive in attesa della nascita del loro bambino. 

Il 16 maggio 1990, il fatto di cronaca che mise fine alla vita del giovane:  Drollet fu infatti colpito a morte dal fratellastro maggiore di Cheyenne, Christian , proprio nella casa del padre. 

Christian Brando, che era un attore intento a ricavarsi un suo posto oltre il cliché di essere figlio del grande Marlon Brando, fu subito arrestato e accusato di omicidio di primo grado. Nei primi interrogatori sostenne che la sparatoria era stata accidentale. 

Raccontò che all'inizio di quella serata Cheyenne gli aveva confessato che Drollet la stava abusando fisicamente. 

Più tardi quella notte, Christian affrontò Drollet e questi rimase ucciso. Christian affermò che dalla pistola fosse partito un colpo mentre Drollet cercava di portargli via l'arma. 

Il processo iniziò, con grande eco mediatica. I pubblici ministeri del caso tentarono di citare in giudizio Cheyenne come testimone al processo di Christian, poiché ritenevano che il suo resoconto dell'evento della notte fosse cruciale per dimostrare che la sparatoria era premeditata. 

Tuttavia, Cheyenne rifiutò di testimoniare contro il fratellastro e fuggì a Tahiti. 

Sempre più provata psicologicamente, il 26 giugno 1990 diede alla luce un figlio che chiamò Tuki Brando. 
Cheyenne durante il periodo di riabilitazione psichiatrico


Subito dopo la nascita di Tuki, Cheyenne tentò il suicidio per due volte e fu ricoverata in ospedale psichiatrico per disintossicarsi dalla droga di cui faceva uso. 

A dicembre del 1990, Cheyenne fu dichiarata "disabile mentale" da un giudice francese e ritenuta incapace di testimoniare nel processo di suo fratello. 

Senza la testimonianza di Cheyenne, i pubblici ministeri conclusero di non poter più provare che la morte di Drollet fosse premeditata e presentarono a un patteggiamento a Christian Brando, che accettò l'accordo e si dichiarò colpevole dell'accusa minore di omicidio volontario . Fu condannato a dieci anni di reclusione. 

In totale ne scontò cinque e fu posto in libertà vigilata per tre anni. 

In un'intervista rilasciata dopo il suo rilascio, Christian ha dichiarato di dubitare delle accuse di abusi fisici di Cheyenne contro Drollet, a causa della instabilità mentale della sorella. "Mi sento un completo idiota per averle creduto", disse. 

Negli anni successivi alla morte di Drollet e al processo del fratellastro Christian, la salute mentale di Cheyenne continuò a peggiorare. Entrò ripetutamente in cure di riabilitazione dalla droga e ricoveri in ospedali psichiatrici. 

In questo periodo Cheyenne scatenò le sue accuse anche contro il padre, Marlon Brando, accusandolo  di averla molestata e di essere complice della morte di Drollet: Marlon Brando negò entrambe le accuse. 

A Cheyenne fu successivamente formalmente formulata la diagnosi di schizofrenia, fu isolata dai suoi ex amici e perse la custodia di suo figlio, Tuki, che fu affidato a sua madre, che lo ha cresciuto a Tahiti. 

Il 16 aprile 1995 il tristissimo epilogo: Cheyenne si impiccò a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti. 

Né suo padre né il suo fratellastro Christian poterono partecipare al suo funerale. 

Fu sepolta nel cimitero cattolico romano di Uranie a Papeete nella cripta di famiglia della famiglia di Dag Drollet.

Fabrizio Falconi - 2022 

La tomba di Dag Drollet e Cheyenne Brando a Papeete 



28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

27/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)

La pellicola è ambientata nel 1969, in piena guerra del Vietnam. Il capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), è appena tornato a Saigon: è un ufficiale dell'esercito americano, già per tre anni in Vietnam, formalmente in ruolo nella 173ª Brigata Aviotrasportata, ma in realtà incaricato di operazioni speciali della CIA. 

L'incarico che gli viene affidato stavolta è molto difficile e pericoloso: per questo altri, prima di lui, hanno rinunciato. Dovrà trovare ed eliminare il pericoloso e folle colonnello Kurtz (interpretato da un demoniaco Marlon Brando) che si asserragliato nel cuore della giungla instaurando, a capo di una colonia di locali, un dominio violento e isolato.

Apocalypse Now è la descrizione di questa discesa ad inferos, di questo viaggio che Willard deve intraprendere per raggiungere Kurtz è che è costellato da prove e da visioni ai limite del fantastico, come quando si imbatte nel capitano William "Bill" Killgore, della “Cavalleria dell'aria” che prima dell'attacco spara Wagner a tutto volume dagli altoparlanti che ha fatto installare sui suoi elicotteri e che, durante il combattimento in corso, decide che deve assolutamente fare surf. 

L'attraversamento della giungla, dei suoi fantasmi e dei suoi territori d'ombra è anche - proprio come nel romanzo ispiratore di Coppola, il "Cuore di Tenebra" di James Conrad - un viaggio all'interno dell'ombra interiore, dei fantasmi più cupi dell'inconscio, dei tabù e degli orrori che galleggiano nel cuore umano. 

Fino all'incontro con l'orrore, con il male per eccellenza: ovvero Kurtz e i suoi guerrieri. Arrivato al cospetto del Colonnello, per Willard non ci saranno molte alternative e l'unica strada possibile si rivelerà tutt'altro che rassicurante, in un memorabile finale di catarsi e violenza. 

L'opera di Coppola è ormai un must assoluto e una delle pietre miliari della cinematografia di ogni epoca. Tutto in questo film, dalla fotografia di Vittorio Storaro al montaggio, alla scenografia, alla recitazione allucinata degli attori principali, alla colonna sonora di Carmine Coppola, è al servizio del mondo estetico che Francis Ford Coppola crea, incantato e incantando, distruggendo l’epica romantica della guerra e tutto l’immaginario che la sorregge. 

La Guerra è una nave di folli, dove l'animo umano si perde alla ricerca e nel terrore dei propri fantasmi, in una morale al contrario portata alle sue estreme conseguenze dall'estremo, lucido immoralismo del colonnello Kurtz e della sua nichilistica concezione del destino umano. 

Un film che è divenuto leggenda - anche a partire dalle incredibili circostanze nelle quali fu diretto e dell'incredibile travaglio psicologico che stremò Coppola, insieme alle difficoltà finanziare che rischiarono molto seriamente di gettarlo sul lastrico per sempre. 

Il film vinse tra le ovazioni la Palma d'Oro al Festival di Cannes e una quantità incredibile di premi in tutto il mondo anche se fu scandalosamente snobbato alla cerimonia degli Oscar dove si aggiudicò soltanto due statuette a fronte delle otto nominations. 

Fabrizio Falconi






10/07/14

Bernardo Bertolucci racconta (e ricorda) Marlon Brando. Una bellissima intervista di Paola Zanuttini.


Dieci anni dalla morte del grande Marlon Brando. Il ricordo e il racconto di Bernardo Bertolucci per il Venerdì di Repubblica in una intervista di Paola Zanuttini.

Roma. Al primo ciak di Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci grida «Buona la prima!». Ma non è tanto buona. Perché l’operatore di macchina Enrico Umetelli, arrossendo, gli sussurra: «Scusa, mi sono trovato Marlon Brando nella loop e sono rimasto a guardarlo, paralizzato». L’arrivo di Brando sul set ha sprigionato meraviglia, innamoramento, tremore. Anche Vittorio Storaro, che non è un principiante, si fa intimidire: nei camerini allestiti sul ponte di Passy, ha notato che l’attore ha la faccia troppo rossa, ma non osa farne parola con lui. Interpella il regista: «Secondo te, si offende?». Bertolucci lo tranquillizza: «Ma va’, diglielo». Storaro va. Il divo non si scompone, anzi. Piglia un asciugamano, se lo strofina in faccia, porta via tutto il cerone e domanda: «Meglio, così?».
Nel soggiorno color sabbia, con il soffitto azzurro come un cielo sul deserto, Bertolucci rievoca il suo Marlon Brando, a dieci anni dalla morte e a 42 dalla lavorazione di Ultimo tango. Intanto, una seducente gattina, passata con nonchalance dal randagismo ai divani, fa di tutto – fusa, moine, coda ritta – per occupare la scena: va detto che ci riesce. Perché, mentre il padrone mi racconta la sua triste storia a lieto fine, io la carezzo a dovere. Poi esagera, la micia: monta sul tavolo e lappa nel mio bicchiere. Gag da applauso, ma Bertolucci la esilia dalla stanza. A malincuore.
Per il ruolo di Paul in Ultimo tango lei aveva pensato prima a Jean-Louis Trintignant, poi a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Come è arrivato a Brando?
Con Trintignan e Dominique Sanda avevo appena girato Il conformista; mi piacevano molto, pensavo di ricomporre la coppia, ma Dominique era incinta e Jean-Louis declinò l’offerta quasi piangendo: non se la sentiva di spogliarsi. Soprattutto per sua figlia, la piccola Marie che ora non c’è più: temeva i commenti a scuola. Allora, visto che si girava a Parigi e la cooproduzione era francese, mi rivolsi alle due star francesi del momento: Belmondo e Delon, che mi piacevano. Belmondo quasi mi buttò fuori dal suo ufficio. Secondo lui gli stavo proponendo un porno.
Conservatore dentro, Belmondo.
Lo so, ma aveva fatto  Fino all’ultimo respiro, film determinante, per me. Delon, invece, aveva amato la sceneggiatura, ma voleva un ruolo da coproduttore, per mantenere un suo controllo. Non mi pareva il caso, e quindi adieu. Tempo dopo, ero a cena a piazza Navona, c’erano dei francesi, la costumista Git Magrini e Luigi Luraschi, il distributore Paramount che avrebbe preso il film. Uscì il nome di Brando, Luraschi disse che conosceva il suo agente, e, forse, poteva chiamarlo.
A lei piaceva Brando?
Certo, ma mi sembrava irraggiungibile. Come Zapata o Il selvaggio. Mi dava la sensazione di fare un film antihollywoodiano, ma hollywoodiano in quanto antihollywoodiano.
Questa è un po’ fumosa. E imbevuta di rivoluzionaria intransigenza.
No. Amando il cinema, non avrei mai potuto dire che le commedie musicali facevano schifo perché erano politicamente disimpegnate.
Lei era un talento emergente di trent’anni, Brando un mostro sacro di quasi cinquanta. Come andò il primo incontro?
Non sapeva niente di me. Aveva chiesto informazioni a una sua amica cinephile, una cinese ricchissima proprietaria di supermarket che aveva visto Il conformista e gli aveva intimato: “Devi andare assolutamente!”. Ci incontriamo a Parigi, all’hotel Raphael. Sono stravolto, non ci credo, eppure è lì. Tengo le gambe accavallate, ma ho un piede fuori controllo che scatta come una molla. Con l’inglese me la cavo male, ho fatto una settimana alla Berlitz, buona per spiegargli il film in dieci parole e, mentre tento di farlo, lui sta a occhi bassi. Gli chiedo perché non mi guarda in faccia: “Guardo il tuo piede. Voglio vedere quando la finisci con quel su e giù”.
Il duca nel suo dominio, come nella famosa intervista di Truman Capote.
Sì, ma sorridente. Poi si va a mangiare e dopo ancora in una saletta a vedere Il conformista. Durante la proiezione esco, non ho voglia di star lì. Quando torno mi fa: “Vieni a Los Angeles un mese. Ci mettiamo a casa mia e parliamo della sceneggiatura”. Adattava i dialoghi alla sua voce, Marlon, ma io lo faccio con tutti miei attori. In realtà, a casa sua, una villa su Mulholland Drive, non abbiamo mai parlato del film. Mi portava a mangiare dal giapponese, io gli chiedevo perché era sempre solo e lui rispondeva che stava benissimo così, che non gli piaceva andare in giro. Però era curiosissimo delle persone. A cento metri da casa sua, più in basso, c’era quella di Jack Nicholson; mi ha fatto sporgere dal giardino per mostramela: “Jack fa le cosacce con una ragazza in piscina”.
Nel ruolo fatale di Jeanne, Maria Schneider era molto nuda, Brando meno. Allora, lei ha giustificato la disparità di trattamento con la tesi che un uomo senza braghe perde mistero. Ne è ancora convinto?
No, è una sciocchezza. Nel film di Abel Ferrara su Strauss-Kahn, Depardieu è nudissimo e meraviglioso, una specie di Pantagruel. Però Marlon si è spogliato abbastanza, c’è anche quella posizione incriminata – quasi yoga – con Maria, che poi è stata ripresa da un logo di abbigliamento. Il problema è che aveva il pancione, non volevo esporlo troppo.
Altro indumento, più rispettabile: il cappotto di cammello di Marlon-Paul, molto simile a quello di Alain Delon nel contemporaneo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini: coincidenza o plagio?
Il mio film è uscito prima. E Alain aveva letto la sceneggiatura. In ogni caso, io ho visto La prima notte di quiete dopo l’anteprima mondiale di Ultimo tango al New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. La critica Pauline Kael ha scritto che quella data sarebbe diventata una pietra miliare nella storia del cinema, come lo era quella della prima rappresentazione della Sagra della primavera, il 29 maggio 1913, nella storia della musica. L’avevo trovato bello, il film di Zurlini.
Non era troppo melodrammatico?
Può darsi, non mi ricordo più niente, solo il cappotto. Forse l’ho perdonato proprio perché c’era il cappotto di cammello.
Nel 1972, dopo anni di stracca, Brando esce con due film epocali che lo rilanciano: Il padrino a marzo e Ultimo tango aottobre. Mentre Coppola gli restituisce la gloria, ma non la carica erotica – con quelle guance imbolsite dal cotone – lei lo incorona di nuovo sex symbol. Sgualcito e irresistibile.
Accidenti! Avrà pure avuto la pancia, ma la sua testa era meravigliosa.
Brando si divideva fra i due set? E metteva zizzania fra lei e Coppola?
Per niente. Le riprese del Padrino erano già terminate, quando lavorava con noi. Un sabato pomeriggio, Coppola, che era a Parigi, passò a trovarci. Giravamo in esterni, senza Marlon perché il sabato non lavorava, per la felicità di Jean-Pierre Léaud, che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria ed era terrorizzato dall’idea di incontrarlo. Visto che avevo due biglietti per un balletto, ci andai con Francis. Mi raccontò del Padrino e mi chiese di Marlon. Non troppi anni dopo, sul set di Apocalypse Now, avrebbe avuto i suoi problemi con lui: Brando non voleva girare e Francis ci diventava pazzo, poi decise di fare solo l’inquadratura con The horror, the horror. Il direttore della fotografia era Storaro e quando Marlon si decise finalmente a parlare gli domandò mie notizie: “Come sta il bambino profeta?”. Ma sul set di Ultimo tango non è successo niente di tutto questo. Mi spiace, non ho aneddoti di screzi, liti o dispetti da star impazzita. È sempre stato puntuale ed estremamente professionale.
Intervista di Paola Zanuttini a Bernardo Bertolucci, che diresse Brando in Ultimo tango a Parigi, uscita su il Venerdì di Repubblica