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03/06/21

Viene alla luce l'incredibile meccanismo con cui rafforziamo i ricordi dormendo




Da tempo i ricercatori hanno esplorato l'affascinante e misterioso legame tra ricordi e sonno

Ora uno studio recente, pubblicato su NatureCommunications, ha individuato come, mentre dormiamo, il cervello produce particolari schemi di attivita' e quando alcuni di queste si intrecciano, le esperienze precedenti vengono riattivate, aiutando a cementare i ricordi

Come noto, mentre dormiamo vengono riattivate delle informazioni precedentemente apprese, e questo ci consente di conservare i ricordi a lungo termine. 

Per capirne meglio il meccanismo, il team ha ideato nuovi test in cui ai partecipanti sono state mostrate informazioni prima di fare un pisolino, quindi l'attivita' cerebrale e' stata monitorata durante il sonno con movimenti oculari non rapidi (NRem) utilizzando la registrazione Elettrocardiogramma

I partecipanti sono stati poi testati dopo il risveglio, per collegare l'entita' della riattivazione della memoria mentre dormivano alla effettiva capacita' di ricordare al risveglio

Centrale è emersa essere la combinazione di due attivita' cerebrali che svolgono un ruolo importante: le oscillazioni lente, ovvero impulsi neurali che viaggiano come 'onde' da un punto all'altro nella corteccia cerebrale durante il sonno profondo, e i fusi del sonno, cioe' improvvise e rapide esplosioni di attivita' cerebrale oscillatoria che annunciano il passaggio da un leggero stadio del sonno a uno piu' profondo.

"Abbiamo scoperto - afferma il co-autore dello studio, Bernhard Staresina, della School of Psychology dell'Universita' di Birmingham - un'intricata interazione di attivita' cerebrale, oscillazioni lente e fusi del sonno, che creano finestre di opportunita' che consentono questa riattivazione", come finestre che riattivano i ricordi. 

"Questi risultati gettano nuova luce sulla funzione di memoria del sonno e sottolineano l'importanza di rispettarne i ritmi per orchestrare la creazione di ricordi", aggiunge Thomas Schreiner, della Ludwig-Maximilians-University, Monaco. 

24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





12/11/15

Oltre la Mente - La vita a scartamento ridotto.





Due cose realizzano la vita: la consapevolezza e la pienezza. 

Si possono vivere grandi emozioni, grandi sensazioni (ancora più epidermiche), ma se non si è consapevoli di ciò che (si) vive, tutto scorre senza lasciare traccia, tutt'al più pallidi ricordi. 

Ciò avviene perfino per le sofferenze.  Nella nostra vita ce ne sono di molte inautentiche. Crediamo di star male per quel motivo, molto spesso banale. Invece l'origine del malessere è di tutt'altra natura.  Le sofferenze inautentiche infatti, sono definite da Carl Gustav Jung, come nevrosi. 

Anche discernere una vera sofferenza, dunque, si può fare soltanto se si è consapevoli di essa.  Di cosa è che la fa scaturire, di cosa e perché (ci) provoca quella reazione. 

Allo stesso modo avviene con la pienezza.  Sono molti gli stati d'animo della vita, che rimangono tali. Sono stati dell'animo, appunto.  Che vanno e vengono, che piegano a sinistra e a destra la bandierina della nostra anima, come fa la rosa dei venti. 

Ma noi non siamo (solo) stati d'animo.  L'essere umano è fatto di ben altra profondità, che lo rende grave nella sua condizione terrestre, ovvero pesante, radicato al suolo, bisognoso di trovare (e di rendere consapevoli) le sue radici. 

In questo senso, la pienezza è qualcosa che trascende la vita, rendendola degna di essere vissuta, e non soltanto attraversata. Più leggo i pessimisti, più amo la vita, scriveva Cioran (in Lacrime e santi). E se c'è uno che si intende di pessimismo, questo è lui. 

Questo amore per la vita, per la follia della vita, per la imprevedibilità della vita, per la sua forza trascinante è appunto la pienezza.   Anche la sofferenza contribuisce a questo.  La sofferenza, scrive anzi Dostoevskij, è la causa unica e sola della coscienza. 

Ed è molto velleitario pensare di poter raggiungere la pienezza della vita, senza conoscere la (vera) sofferenza.  La sofferenza, anzi, è la stessa misura della pienezza. Come una cartina di tornasole, infatti, la sofferenza rende vero, per contrasto, il piacere, rende vero, per contrasto, lo stare bene, il sentirsi in sintonia con l'onda della vita. 

Senza sofferenza, senza autenticità, e quindi senza consapevolezza e senza pienezza, si vivono vite a scartamento ridotto.  Si vive funzionando, come una macchina, un puro corpo biologico. 

Su questo binario a scartamento ridotto, il panorama è monotono, è sempre uguale: quel che vediamo scorrere dal finestrino, non ci appassiona e non ci scuote. Ci lascia indifferenti. 

Per questo bisogna avere il coraggio di scegliere il binario più veloce, quello che rischia di scaraventarti fuori e di perderti, ma che scuote e incoraggia, dispone prove e concede la forza per superarle. 


Fabrizio Falconi
(C) -2015 riproduzione riservata.
foto in testa dell'autore


25/10/15

Oltre la Mente - L'attesa è il tempo della gioia.




L'attesa non è soltanto il tempo del tormento e dell'ansia. 

L'attesa, la vigilia, l'avvento (in termini religiosi/cristiani) è (anche) il tempo della gioia.

In psicologia, solo colui che aspetta (qualcosa o qualcuno) è realmente vivo. Quando non si aspetta più nulla o nessuno, si è semplicemente rassegnati o cinici (e in termini psichici formalmente morti).  

Anche chi pratica le discipline orientali (e occidentali) del distacco dalle cose materiali e dagli attaccamenti terrestri, non rinuncia mai ad attendere. Anche soltanto ad attendere ciò che arriva - e ad accettarlo incondizionatamente - dalla vita.

Attendibile è la verità che ci scuote, che dirime il dubbio. 

L'attesa è il tempo in cui la spada resta nell'elsa.  Il tempo nel quale il chicco di grano matura sotto le coltri di neve, in attesa della prossima primavere.  L'attesa è il tempo nel quale un feto si forma completamente nel ventre della madre. La madre che aspetta un figlio. 

L'attesa è carica di promesse.  E in fondo la nostra mente non fa che - continuamente - predisporsi all'attesa.  La nostra giornata è questo: disponiamo di un ordine mentale che ci fa aspettare la prossima cosa, il prossimo impegno, il prossimo svago, quella cosa che prima o poi arriverà e ci farà sentire un po' meglio. 

Quando non si desidera e non si aspetta più nulla, si dice clinicamente che si è inclini alla depressione. 

E non importa, generalmente, che le promesse dell'attesa si concretizzino o meno.  La fiducia o la speranza è più importante.  Soltanto una fede in quel che accadrà determina lo scenario futuro abitabile per la nostra mente. 

Contro questa determinazione vivente - la volontà naturale che si impone e trova sempre i mezzi per avverarsi - si oppone il realismo pessimistico di Schopenhauer e di diversi altri: la speranza è una vana illusione.  Bisogna vivere - dice S. - come se si fosse dentro una colonia penale. E gli altri non sono altro che i nostri compagni di prigionia. 

Ma perfino Schopenhauer concorderebbe sul fatto che anche un coscritto in un campo di prigionia attende qualcosa:  la fine della pena o una fuga, una evasione dalla colonia penale. 

In fondo ciò che possiamo fare di meglio in questa vita - che è essa stessa una attesa - è abitare lo stato/gli stati di attesa e viverli con la maggiore pienezza possibile. 

Pre-gustando, immaginando, interloquendo con i nostri sogni e aspettative, confrontandoli con il principio di realtà. Non rinunciando mai ad assaporare quel che di meglio la vita ha da offrirci e quello che di meglio noi abbiamo da offrire a lei. Il compimento (felice e consapevole) di una attesa.

Fabrizio Falconi (C) -2014 riproduzione riservata.
foto in testa dell'autore: particolare dell'Ares Ludovisi a Palazzo Altemps


14/10/15

Oltre la Mente - L'elaborazione del lutto e il lutto ineluttabile.




Da qualche giorno mi girava intorno la bellezza ultrasensibile della parola 'ineluttabilità', e ragionavo sulla parola 'lutto' che sembra contenere: perché in fondo 'ineluttabilità' è anche qualcosa che non può essere elaborato come lutto, come distacco o mancanza. 

La radice etimologica però ci spiega che le due parole hanno origini dissimili e diverse. 

'Lutto' viene dalla stessa radice di 'lugubre' che è il latino lugere, ovvero piangere (che ha una radice ancora più suggestiva in leug, 'rompere', e nel tedesco loch 'strappo'), mentre ineluttabilità deriva da luctari, lottare. 

Quindi il lutto è qualcosa che si rompe e provoca dolore, l'ineluttabile è qualcosa contro cui non si può lottare.

Eppure chiunque l'ha sperimentato, sa che un lutto (chi ha perso un genitore, un compagno, un amico, un figlio) è per sua natura ineluttabile. Cioè è qualcosa contro cui non si può lottare. 

O meglio, esiste una fase, nel lutto, nel quale si lotta con le unghie e con i denti contro quel dolore divorante, e lo si rifiuta. 

Questa è per esattezza la seconda fase del lutto, nella definizione classica di Elisabeth Kübler Ross, quella della rabbia (come è noto le fasi sono 5: negazione o rifiuto; rabbia; contrattazione o patteggiamento; depressione; accettazione).

Un lutto dunque, dovrebbe terminare sempre con una accettazione. Che è il mezzo attraverso il quale una persona continua a vivere, ad avere riconoscibilità sociale (oltre il lutto) e a sopravvivere. 

L'esperienza insegna però che la Mente sfugge a ogni catalogazione: le sue risorse sono illimitate anche nella risposta agli stimoli esterni (che in questo caso sono la perdita di una persona cara).

Le risposte dunque sono le più varie, e non accade di rado che un lutto sia realmente inaccettabile e inaccettato. 

In questi casi l'elaborazione non si completa: la persona rimane monca, come mutilata, incapace di accettare il distacco, di viverlo profondamente e com-prenderlo. 

Un lutto ineluttabile è perciò per noi quel lutto che resta come tale e senza che contro di esso si riesca a lottare, ma nemmeno si riesca ad accettare

Nessuna efficace lotta per ristabilire il sopravvento della coscienza e per inquadrare questo sentimento nella ragione, riesce.  Ci si ferma ai bordi, senza essere capaci di fluire dall'altra parte.  Ci si affida a pratiche e terapie nella speranza che i farmaci o i suoi surrogati riescano a far fuoriuscire dal tunnel nel quale ci si sente prigionieri: la mancanza di quella persona che è parte di noi, che c'è ancora ma non c'è, che è finita da un'altra parte dove noi non possiamo arrivare, dove noi non possiamo (più) toccarla.

Il fenomeno mi sembra in crescita - e si allarga anche ad altri tipi di lutto (non solo la morte di una persona, ma anche il suo allontanamento, la perdita amorosa, ecc..)  e ciò è dovuto anche allo spaventoso ridimensionamento di quegli 'ammortizzatori' sociali che fino a qualche generazione fa aiutavano nella elaborazione del lutto: i segni esteriori, la riconoscibilità dell'ambiente intorno, il tempo assegnato alla persona rimasta 'orfana'. 

Oggi chi vive un lutto è spesso lasciato nella più completa solitudine

La morte è un argomento fastidioso, che si evita nei consessi sociali, che si preferisce non nominare. Il distacco dalla persona è brutalizzato da pratiche terrificanti: il morto viene chiuso, seppellito e congedato nel modo più frettoloso possibile. I cimiteri sono luoghi che vengono evitati, al morto si preferisce pensare come ad una entità astratta. Il corpo morto non ha più nessun valore, nessun significato. 

Questa mancata elaborazione esteriore rende sempre più difficile la vera elaborazione interiore. 

Il lutto ineluttabile diventa così sempre più diffuso, sempre più pericolosamente reale nel conto delle nostre vite. 


Fabrizio Falconi-© riproduzione riservata 2015.
foto in testa dell'autore


05/10/15

Oltre la Mente - Il senso di colpa. Un veleno (solo a volte) necessario.




Il senso di colpa è una forma della mente umana e una sua caratteristica principale. 

Gli animali non provano colpa. La colpa è legata alla nascita della coscienza.  Si potrebbe anzi dire che l'uomo si è differenziato dal resto della creazione naturale quando ha avvertito il senso di colpa per le proprie azioni (come è esplicato in molti racconti fondativi della religione, come la cacciata dall'Eden nel cristianesimo/ebraismo, per la colpa di aver mangiato il frutto proibito, quindi di aver trasgredito all'ordine divino). 

Il senso di colpa è un meccanismo naturale dunque per l'umano.  Colui che non prova mai colpa per il proprio operato, infatti, potrebbe definirsi non-umano o dis-umano. 

Ma c'è un ordine in cui il senso di colpa può diventare o diventa a tutti gli effetti un veleno per la nostra vita. 

Il senso di colpa è un sistema di allarme della coscienza.  Hemingway, semplificando nella sua elegante stringatezza, affermava che egli aveva un metodo infallibile per stabilire la morale dei suoi atti: come si sentiva dopo aver commesso una certa azione. Se si sentiva bene, l'azione era giusta, se si sentiva male (senso di colpa), era sbagliata. 

Certamente un metodo siffatto non può essere garanzia di un metodo universale. 

Molto spesso infatti, il senso di colpa ha a che fare molto di più con noi stessi che con la natura dell'atto che compiamo. 

Sensi di colpa di ogni tipo (giustificati e non) sono instillati infatti in noi sin dai primi o primissimi anni di vita.  Vi sono anzi non rari casi nei quali un intera sistema educativo - di una persona - è stato fondato sui sensi di colpa. 

Vi sono persone nelle quali questo senso è stato inoculato costantemente come un veleno. E da adulti, queste persone non sono più in grado di dire se il frutto delle loro azioni è la causa di ciò che vogliono veramente o di ciò che temono per evitare un senso di colpa divorante. 

E che dunque per riprendere in mano la loro vita hanno bisogno di depurarsi, di liberarsi del fardello che il senso di colpa fa gravare sulla loro vita, paralizzandole.

Vi sono anche persone che gratificate da questa liberazione, giungono al punto di rifuggire, per contrasto, qualunque senso di colpa.  E credono che la chiave per la felicità - ahimé grandemente illusoria - sia sostanzialmente l'infischiarsene della conseguenza dei propri atti. 

Il senso di colpa è, come ogni forma della mente, necessario. Ma è necessario solo se assolve alla sua funzione: quella di limite del libero arbitrio

Il senso del limite è connaturale alla mente.  Quasi subito la mente del bambino si accorge della presenza di limiti, che regolano il suo possibile comportamento (si può forse rifiutare il cibo, ma non si può infilare un coltello nella mano della mamma). 

Questo è dunque il senso ultimo della vita: l'accettazione del limite.  Inteso non come prigione, ma come possibilità di sviluppo. 

Nessuna pianta può svilupparsi, crescendo in orizzontale, nell'ombra. 

Ogni forma di vita ha bisogno di spingersi verso l'alto, osservando i propri limiti. 

Il riconoscimento dei limiti permette dunque anche di scoprire quali sensi di colpa siano inutili e anzi dannosi alla propria crescita.  E quali invece siano le sentinelle del nostro operare. Se abbiamo sbagliato, e siamo in grado di riconoscerlo, ciò è dovuto alla presenza della forma del senso di colpa.  
Se siamo convinti di aver trovato la chiave della nostra vita, anche i sensi di colpa devono essere attentamente valutati (e smontati del loro abito formale - quello che fa paura) per quello che ci chiedono e per quello che esprimono.  Soltanto così l'anima può pienamente ritrovarsi. Solo una com-prensione delle proprie zone erronee garantisce una evoluzione verso la piena consapevolezza.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata




01/10/15

Folgoranti citazioni da 'Tipi psicologici' di Carl Gustav Jung






Nulla turba tanto il sentimento quanto il pensiero.
(pag.390)
*
Quanto più i sentimenti sono rimossi, tanto maggiore è l'influenza dannosa che essi esercitano segretamente sul pensiero, il quale altrimenti funzionerebbe perfettamente.
(pag.382)
*
La tendenza monistica appartiene all'atteggiamento introverso, quella pluralistica all'atteggiamento estroverso.
(p.345)
*
Il gran parlare che si fa del progresso umano è infatti divenuto sospetto e non ispira fiducia.
(p.308)
*
Ogni eccessiva "purezza" manca di vita. Ogni rinnovamento della vita passa attraverso zone torbide per procedere verso la chiarezza.
(p.265)
*
Normalmente l'uomo, oltre a uno suo stato deve avere anche lo stato opposto, per trovarsi necessariamente nel mezzo. In omaggio alla sola ragione egli non potrà mai rinunciare alla pienezza di vita e alla ricchezza di sensazioni offertegli direttamente dal suo stato momentaneo.  E' necessario che contro la potenza e il piacere di ciò che è temporale vi sia in lui la gioia dell'eterno, e contro la passione della realtà sensibile vi sia l'estasi del soprasensibile. Come l'uno è per lui innegabilmente reale, così occorre che anche l'altro sia per lui coercitivamente imperante.
(p.246)
*
L'optimum di vita non è rappresentato dal crudo egoismo; né l'uomo raggiungerà mai il suo optimum di vita attenendosi all'egoismo, giacché in fondo egli è fatto in modo che la gioia del prossimo, della quale egli è causa, costituisca per lui qualcosa di indispensabile.
(p.231)
*
Il mondo ha sempre da soffrire a causa delle coppie di opposti. E' quindi un dovere etico di essenziale importanza non lasciarsi influenzare dagli opposti (nirdvanda= libero, non tocco dagli opposti), ma elevarsi al di sopra di essi, giacché la liberazione dagli opposti conduce alla redenzione.
(p.212)
*
"Pensare è così difficile che la maggior parte degli uomini emette giudizi". Riflettere richiede innanzitutto tempo, perciò chi riflette non può continuamente esprimere giudizi.
(p.171)
*
Vi sono non solo verità razionali, ma anche verità irrazionali e le cose umane che sembrano impossibili mediante il ricorso all'intelletto, si sono spesso realizzate mediante il ricorso alle facoltà irrazionali. E infatti i più grandi mutamenti intervenuti nell'umanità non sono accaduti grazie ad un calcolo dell'intelletto , ma per vie che sfuggirono agli occhi dei contemporanei o che essi rigettarono come assurde e di cui l'intima necessità fu compresa solo molto più tardi.
Ma ancor più spesso esse non vengono affatto comprese, giacché per noi le leggi più importanti dell'evoluzione spirituale dell'umanità sono ancora un libro chiuso con sette sigilli.
(p.98)
*
Non l'artista soltanto, ma ogni uomo creativo deve alla fantasia tutto ciò che di più grande gli accade di compiere nella sua vita.
(p.70)
*
La verità non è eterna, è un programma. Quanto più una verità è "eterna", tanto più è priva di vita e di valore in quanto che, essendo divenuta intelligibile da sè, non ci dice più nulla.
(p.67)
*
non bisogna dimenticare che la scienza non è la "summa" della vita, ma soltanto uno degli atteggiamenti psichici, o meglio una forma del pensiero umano.
(p.47)

citazioni tratte da:

Carl Gustav Jung, Tipi psicologici. 2011, XX-584 p., brossuraTraduttore Musatti C. L.; Aurigemma L.Editore Bollati Boringhieri (collana I grandi pensatori).



30/09/15

I "Tipi psicologici" di Carl Gustav Jung - Un'opera fondamentale.



I Tipi psicologici scritto da Jung nel 1921 e più volte rivisto nel corso della sua lunga vita è un testo capitale. 

Appena terminata la monumentale edizione di Bollati Boringhieri (integrale), si ha la sensazione di aver scalato un'erta montagna e di aver potuto ammirare, dalla sua cima, un paesaggio nuovo, aperto, totale, inesplorato. 

A distanza di molti anni infatti, Tipi psicologici mantiene una chiarezza illuminante e dispensa una luce esatta su una materia considerata da sempre inafferrabile. 

E' a tal punto innovativa, questa grande opera, che si deve proprio a C.G.Jung e a questo studio, la nascita dei due termini "introverso" ed "estroverso" entrate stabilmente nel linguaggio comune e che ancora oggi usiamo per descrivere il carattere di una persona, anche se la maggior parte ignora la loro origine e al fatto che si debbano all'intuizione di uno dei grandi padri della psicologia, frutto di vent'anni di ricerche sulle specificità che compongono il carattere individuale. 

E' importante sottolineare che nella dottrina di Jung i termini “estroverso” e “introverso” non sono usati per esprimere un giudizio, ma per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno, quello che Jung chiama l'oggetto

E scorrendo le intense pagine del suo studio si scopre quanto le attuali semplificazioni abbiano del tutto snaturato l'originale teoria junghiana, che al contrario di Freud non  concepisce la psicologia come scienza esatta, ma come espressione di fattori soggettivi. 

Jung definisce e descrive  otto tipi psicologici principali, a partire dai due caratteri fondamentali, apollineo e dionisiaco, che hanno dominato lo spirito nella filosofia e nelle arti da Platone e Aristotele fino a Goethe e Nietzsche. 

Semplificando un pensiero estremamente complesso come quello junghiano, l'estroverso ha un rapporto positivo con l'oggetto: lo osserva, studia tutte le circostanze e cerca di adattarsi ad esse il più possibile. La persona estroversa cerca l'approvazione altrui e tende a esprimere giudizi non troppo difformi da quelli del gruppo. 

L'introverso invece tende a rimanere distante dall'oggetto, perché è più attratto dal suo mondo interiore. A differenza dell'estroverso, le sue energie non sono rivolte all'esterno ma si concentrano sulla dimensione individuale. Più che con fatti e parole – la dimensione preferita dall'estroverso – si sente a suo agio con emozioni e pensieri. Ama la solitudine, ha un atteggiamento schivo e tende a essere diffidente e pessimista. 

Ma oltre alla dicotomia Estroversione-Introversione Jung individua quattro funzioni psichiche principali: Sentimento, Pensiero, Sensazione e Intuizione. Ognuna di queste indica un diverso modo di rapportarsi al mondo. 

Dall'interazione di attitudine e funzione psichica dominante si possono definire almeno otto tipi psicologici principali, come riportato dagli attuali manuali di psicologia: 

1. Sentimentale Estroverso: diplomatico, espansivo e molto socievole, si inserisce con estrema facilità in ogni tipo di gruppo. 2. Sentimentale Introverso: taciturno, riservato, spesso malinconico, vive i sentimenti in modo esclusivo senza esprimerli all'esterno. 3. Pensatore Estroverso: riformatore, moralizzatore, per lui contano solo i fatti concreti e poco o nulla le teorie. 4. Pensatore Introverso: riflessivo, chiuso al mondo esterno, insegue pensieri astratti ed è del tutto indifferente all'oggetto. 5. Sensoriale Estroverso: esteta, alla ricerca dei piaceri della vita, realista e gaudente, crede solo nei fatti concreti e tangibili. 6. Sensoriale Introverso: animo da artista, per lui conta solo la sua soggettività, attraverso la quale interpreta e si relaziona al mondo circostante. 7. Intuitivo Estroverso: opportunista, dinamico, guidato da uno spiccato senso degli affari e da una notevole carica di entusiasmo. 8. Intuitivo Introverso: sognatore, è colui che più di ogni altro crede nel potere dell'immaginazione. 

Una lettura comunque fondamentale, per capire qualcosa di più dell'oceano psichico dal quale siamo abitati e che abitiamo.


Fabrizio Falconi


29/09/15

Oltre la Mente. La vita è chiaroscuro.


La mente non è un corpo rigido.  Nemmeno la visione lo è.  Nemmeno i suoni che percepiamo, o le sensazioni tattili delle nostre mani.   La mente elabora i tracciati vibrati dei sensi, ma è già a sua volta elaborata per essere duttile o elastica. 

Un pianto si risolve in riso, un riso in pianto. L'evoluzione della mente umana, basata su esperienza e conoscenza, è come una pianta che si solleva dal terreno e cresce sovrapponendo cellula a cellula, con il passare degli istanti. 

Come la pianta formata di tessuto cellulare, anche la mente è elastica, mutevole, si adatta all'ambiente circostante, seguendo la propria natura. 

La sperimentazione del vuoto della mente avviene in alcuni stati, come l'incoscienza o la meditazione profonda.  Ma anche in quei momenti, la mente non è mai vuota. 

Come insegnano le moderne conoscenze scientifiche, il vuoto non esiste.  

Nella fisica moderna il vuoto è ben lungi dall'essere vuoto, scrive Fritjof Capra  Al contrario, esso contiene un numero illimitato di particelle che vengono generate e scompaiono in un processo senza fine.  Il "vuoto fisico" non è uno stato di semplice "non-essere", ma contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo delle particelle.

Il vuoto è dunque potenzialità.  Quel che noi chiamiamo 'vuoto' è una zona grigia, dove il bianco non è del tutto bianco (e non può esserlo) e il nero non è del tutto nero (né può esserlo). Il grigio, in ogni sua possibile gradazione, è possibilità, infinite possibilità.

Alla Mente dunque, se è concesso di individuarsi solo per contrasto, cioè differenziandosi, è consentito di fare esperienza e quindi di crescere, soltanto per gradazioni, per variazioni: il sole se è pieno uccide, il buio se è pieno uccide. 

La vita può prosperare solo nello spazio intermedio, la vita della mente può prosperare solo nello spazio intermedio. 

Come scrive C.G.Jung, purtroppo, come tutto ciò che è sano e durevole, la verità si tiene più sulla via di mezzo che noi a torto detestiamo. 


E quel purtroppo è molto eloquente (specialmente detto da Jung): tutti vorremmo infatti un bel piatto caldo, già pronto da mangiare.  Tutti vorremmo non interrogarci troppo.  Tutti vorremo come l'aspirante pittrice de Lo stato delle cose (Wenders,1982) non dover diventare matti con il chiaroscuro, che rende irriproducibile quello che vediamo, impossibile da catturare. 

Una mia cara amica ha detto: Io sento in me istinti che devo combattere e contrastare. Tutta la mia tensione interiore è generata da una lotta continua tra ciò che sento giusto e buono e ciò che in realtà faccio quotidianamente.

Sembra essere lo stato permanente in cui si muove la nostra mente. Che è come un mare inquieto, liquido, in movimento. Il che stabilisce anche la nostra incompletezza, perché qualcosa in noi aspira o aspirerebbe ad un porto sicuro, ad un confine certo.  Ad un bianco o nero.

Ma questa imperfezione o incompletezza E' la vita.

Che non è data da altro se non da questo.   Una volta appresa, con profonda consapevolezza, questa lezione, si può o si potrebbe dire, insieme a Simone Weil:

Io desidero, io supplico che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi, interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché esso guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata.




03/09/15

SaggiaMente. La sofferenza dell'anima.




La mente non è (solo) il cervello.  Gli occidentali ci hanno messo parecchio a giungere a questa conclusione che nel pensiero orientale era già assodata migliaia di anni orsono. 

Non è solo il cervello - l'organo biologicamente preposto al pensare - l'autore dei nostri stati d'animo, delle nostre ansie, delle nostre intuizioni, dei nostri dolori.   La mente si muove oltre i confini strettamente biologici, oltre le semplici connessioni neuronali (cellule neuronali fra l'altro non esistono solo nel cervello, ma anche in altri organi del corpo): si pensa anche quindi con il cuore, si pensa con lo stomaco, si pensa con gli organi genitali, si pensa con l'intestino. 

Si è felici o tristi anche con il cuore, con lo stomaco, con gli organi genitali, con la pelle, con l'intestino. 

Ma c'è qualcosa che trascende ancora il pensiero, la mente, biologicamente intesa come cervello o in modo più esteso come prosecuzione del/nel corpo. 

Questo qualcosa è stato variamente denominato nel corso dei millenni della storia dell'uomo.  Ad esso, a questo quid, ci si è riferito e ci si riferisce, non sapendo cosa sia, nei più diversi modi.  James Hillman, ne Il codice dell'anima, ha meticolosamente e dettagliatamente elencato questi nomi, che seppure con sfumature diverse, indicano questo quid, che non è, è non sembra essere soltanto mente: carattere;  predisposizione; anima; Sè; destino; istinto; talento.

Si tratta di quel nucleo originario della nostra personalità, della nostra individualità.  

Anche nella consapevolezza e nella accettazione e ricerca di questo quid, il pensiero orientale ha trovato strade di comprensione molto tempo prima, anche se dal pensiero greco platonico in poi, anche la tradizione occidentale ha preso le misure di una componente così essenziale della natura umana. 

Per verificare la potenza di questo quid - e anche la sua reale sussistenza - ci sono diverse strade e diversi cammini personali.   La strada più evidente è quella della sofferenza.   Cioran scrive che è proprio la sofferenza che plasma e crea la coscienza.  

Ma un certo tipo di sofferenza, rende evidente la potenza del quid, cioè dell'anima. 

Sono quelle sofferenze che non appartengono a stati mentali o a patologie o processi meramente cerebrali/neuronali.  Quasi tutti hanno sperimentato quel particolare malessere dell'individuo che non dipende da una malattia biologica - si è perfettamente sani nella mente e nel corpo - ma che sembra insinuarsi direttamente nella nostra radice più profonda dell'essere. 

Si può essere molto felici, esteriormente - avere tutto ciò che apparente-mente serve per essere felici, ogni condizione di bisogno appagata - ed essere al contempo interiormente enormemente infelici. 

Nel recinto di esistenze normali, si dibattono inquietudini interiori, vere crisi, mancanze di senso, infelicità diffuse che dipendono da ciò che il nostro quid silenziosamente o rumorosamente richiede, e che se non ascoltato procura danni enormi. 

La sofferenza dell'anima può infatti generare vere malattie della mente e del corpo. O del corpo e della mente, che appaiono così inestricabilmente legati. 

Ma la sofferenza dell'anima è anche un meraviglioso segnale, di cui disponiamo - se riusciamo a dare ascolto ad esso, e spazio, spazio, spazio - per capire cosa la vita ci chiede e cosa noi possiamo dare alla vita.


Fabrizio Falconi - 2015 


06/12/13

Guardare come se fosse la prima volta. Krishnamurti.




Quindi, ci addentriamo ora nell’indagare che cosa significa osservare senza osservatore.

Perché l’osservatore è il passato, è il terreno del conosciuto, perché è il risultato della conoscenza e quindi dell’esperienza e così via. 

Esiste un’osservazione senza osservatore, che è il passato? 

Posso guardarvi, guardare mia moglie, i miei amici, i miei vicini, senza le immagini che ho costruito nella relazione? 
Posso guardarti senza che tutto ciò si metta tra noi? E possibile? Mi hai ferito, hai detto delle cose molto spiacevoli sul mio conto, hai diffuso voci scandalose su di me. Posso guardarti senza trattenere tutto ciò nella memoria? 
Il che significa, posso guardarti senza che il pensiero intervenga a ricordarmi gli insulti, le ferite, oppure i complimenti? 
Posso guardare quell’albero senza la conoscenza dell’albero? 
Posso ascoltare il suono del fiume che scorre senza dargli un nome o riconoscerlo, ma semplicemente, ascoltare la bellezza del suono? 
Potete farlo? 
Forse potete ascoltare il fiume, riuscite a osservare le montagne senza alcuna premeditazione, ma riuscite a guardare voi stessi, con tutto il bagaglio conscio e inconscio, guardarvi con occhi che non sono mai stati toccati dal passato? 
Avete mai provato? 

Scusate, non avrei dovuto dire “provato”: provare è sbagliato. L’avete mai fatto? Avete mai guardato vostra moglie, la vostra fidanzata, il vostro fidanzato, o chiunque sia, senza un singolo ricordo del passato? Se lo farete, scoprirete che il pensiero è ripetitivo, meccanico, e le relazioni non lo sono, quindi scoprirete che l’amore non è il prodotto del pensiero. Per questo non esiste un amore divino o un amore umano, esiste solo l’amore.


Tratto da Sulla mente e il pensiero, di Jiddu Krishnamurti, Titolo originale dell’opera On mind and thought (Harper, San Francisco) Traduzione di Andrea Anastasio, Krishnamurti Foundation Trust Ltd. and Krishnamurti Foundation of America 2004, Astrolabio Ubaldini Editore, Roma

06/11/13

Epicuro e il giardino nel quale vorrei abitare.





Il corpo è stanco della tirannia della mente.

Sembriamo sempre più incapaci di abbandonarci, di mettere a dormire la mente, di dedicarci alle virtù che nobilitano l'essere umano. 

Incollati agli specchi riflettenti il nostro io (quello più superficiale) sembriamo diventati impermeabili all'ascolto di se stessi. 

Cambiare è possibile.

Nel 306 avanti Cristo un ateniese di nascita (ma ionico d’adozione), Epicuro, acquistò una casa nell’esclusivo quartiere di Melite e un piccolo giardino appena fuori dalla porta del Dipylon (la stessa strada che portava all’Accademia di Platone).
In questo giardino Epicuro – che ai tempi d’oggi abbiamo tristemente umiliato come epigono della filosofia del carpe diem, cioè della soddisfazione edonistica dei desideri (niente di più lontano da quanto egli ricercava e sosteneva) – edificò la sua Accademia, per un mondo che immaginava nuovo, per la conquista dell’ataraxia (la pace dell’anima o tranquillità spirituale).

I mezzi che Epicureo identificò sono gli stessi che anche oggi servirebbero a fare di un uomo una persona, e di un gruppo una comunità di umana, vera.

La principale virtù epicuree è l’amicizia: di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita, il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia, scrive Epicuro.

Dalla amicizia discende l’importanza della conversazione. Non c’è piacere più grande né forma più alta di felicità mortale di una conversazione intelligente tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri.

Con lo stesso spirito il filosofo greco raccomandava di coltivare la soavità nei modi e nel carattere. La soavità è agli antipodi della rudezza dei cinici, dell’altezzosità dei platonici e dell’austerità degli stoici.

Strettamente legata alla soavità è poi l’epieikeia, la considerazione per gli altri.  Che si manifesta attraverso la gentilezza, la civiltà, la cortesia, il rispetto.

C’è poi la franchezza nel parlare, contro l’adulazione e la ruffianeria.

E infine le ultime tre virtù pazienza, speranza e gratitudine, proiettate come disposizioni esistenziali verso le estasi temporali - presente (pazienza), futuro (speranza), passato (gratitudine).
Di queste, la più importante dice Epicuro è la gratitudine: la vita dello stolto,  scrive, è ingrata e sempre rivolta al futuro. 

Ecco:
amicizia, conversazione, soavità, considerazione per gli altri, franchezza nel parlare, pazienza, speranza, gratitudine. 

Ecco il giardino nel quale vorrei abitare.


09/03/12

Douglas Hofstadter: "La nostra anima risiede non solo nei nostri cervelli, ma anche nei cervelli di altre persone."



Niente di più scivoloso che palare di 'anima'.

Eppure, spesso abbiamo l'impressione che 'anima' non riguardi semplicemente noi stessi, non riguardi direttamente solo e semplicemente l'individualità, la singolarità umana. L'uomo è animale sociale, l'uomo è perfettamente, completamente calato nell'anima mundi. 


Nel 1979, un giovane esperto di intelligenza artificiale sorprese il mondo con un libro di enorme mole, labirintico, geniale e di immenso successo. Il libro era "Gödel, Escher e Bach" e il suo autore Douglas Hofstadter. 

Attraverso logica matematica, musica, paradossi grafici e linguistici, Hofstadter cercava di dare sostanza a un'intuizione che sembrava scandalosa: la mente umana potrebbe non essere altro che un computer, i neuroni dei semplici chip, l'intelligenza mera capacità di eseguire i programmi scritti nel cervello. 

A quasi trent'anni di distanza, molte cose sono cambiate: i computer non occupano più gli scantinati delle università ma sono in tutte le case e in tutte le tasche, e gli studi sul cervello hanno raggiunto un grado di raffinatezza quasi inimmaginabile. Eppure, resta intatto l'ultimo mistero: dove si trova e come è fatta l'anima? 

Cos'è che chiamiamo "io" quando parliamo con noi stessi? Cosa resta di noi (se resta qualcosa) dopo la nostra morte fisica? 

Nell'ultimo libro di Hofstadter, pubblicato anche in Italia, Anelli nell'Io,  Hofstadter affronta anche direttamente il tema della dolorosa perdita della moglie, che ha suscitato nuove e profonde riflessioni.  Inoltre, ritroviamo tutta la sua abilità di divulgatore, capace di spaziare dalla letteratura all'informatica, dai giochi di parole ai dibattiti più attuali della filosofia, dagli esempi più curiosi agli esperimenti mentali più originali e vividi.

07/09/09

Psicanalisi e felicità.


Mi è venuto in mente, guardando le puntate della seconda serie di un bellissimo prodotto per la tv dell'americana HBO, "In Treatment". Si tratta di un serial - che nasce da un'idea della tv israeliana - che vede al centro uno psicoanalista, il quale in ogni puntata - della durata di 30 minuti - riceve nel suo studio un diverso paziente, 'in terapia'.

Il povero analista - che deve fra l'altro fare i conti con i disastri della sua vita personale (ha tre figli e un matrimonio entrato in crisi proprio a causa dell'innamoramento per una giovane paziente) - deve affrontare i casi più disparati: nella prima serie erano una ragazza avvenente e provocante, in crisi; un 'eroe di guerra' dell'Iraq; una coppia in crisi matrimoniale; nella seconda una ragazza malata di cancro, una quarantenne in crisi per assenza di maternità, un anziano manager.

Guardando questa serie mi sono reso conto di come - meglio non si potrebbe - la psicoanalisi stessa sia ormai entrata in crisi, nel nostro mondo occidentale. La speranza - pretesa - di curare le ferite e i dolori dell'anima attraverso lo scioglimento dei nodi psicologici, e di raggiungere una pienezza di senso, e di felicità, in gran voga fino a un trentennio fa - si è oggi alquanto ridimensionata.

Intendiamoci: l'analisi è una cosa seria - specie quando gli analisti sono seri e preparati - e moltissime persone sono state letteralmente 'salvate' da una terapia psico-analitica.

Ma i dolori, le ferite, le mancanze, soprattutto le RISPOSTE alla mancanza di senso che sentiamo spesso nelle nostre vite, non possono quasi mai essere risolte solo da un trattamento psico-analitico.

In "in treatment" non a caso, regna l'infelicità diffusa: quella dei pazienti, che ricavano soltanto frustrazione dalle loro speranze di 'guarigione', e soprattutto quella dell'analista, che sperimenta la sua inadeguatezza, inutilità, perlopiù aggravata dalla sofferenza altrui.

Qualcuno mi disse un giorno che la psico-analisi non è altro che una 'confessione' laica, cioè l'equivalente del sacramento della Confessione, naturalmente de-sacralizzata, e divenuta anzi un rito laico, di assoluzione o auto-assoluzione (o se preferite di riconciliazione o auto-riconciliazione).

Non so se questo sia vero o no. Vero è, indubitabilmente, che le scienze psico-analitiche hanno avuto un incredibile ed esponenziale boom concomitante con l'entrata in crisi verticale - in occidente - del sacramento della confessione, ma più in generale della pratica religiosa.

Fatto sta che mi sembra un buon segno quello che anche la scienza e la pratica psico-analitica comincino ad interrogarsi sulla validità del metodo, e sulla efficacia delle cure, nella riconsiderazione del fatto che "curare" i problemi di una persona, della sua vita, delle sue relazioni, del suo carattere, delle sue vicissitudini, non può mai risolversi semplicemente in una operazione di tipo 'meccanico'.

Esiste qualcosa, dentro di noi, che non si può spiegare (e quindi curare) soltanto sulla base di procedimenti psichici. Siamo fatti (anche) di un 'quid' che sfugge ad ogni analisi, ad ogni studio, esame, approfondimento, giustificazione, evidenza. Anzi, spesso è proprio quel 'quid' che ci fa stare così male.

E' il centro del nostro 'Sè', come lo chiamava Carl Gustav Jung. Quella voce che parla anche quando non vogliamo sentirla. La psicoanalisi va benissimo per cercare di stare meglio. Ma la guarigione, la vera guarigione, siamo soltanto noi - raggiungendo quella parte di Sè così profonda (eterna?), che sa così tanto di noi e della nostra storia - che possiamo darcela.