21/11/22
Una straordinaria foto d'epoca: i Pink Floyd a Saint-Tropez con una - neonata - Naomi Watts
14/10/22
Beatles: "Love me Do" ha compiuto 60 anni !
08/10/22
Branduardi canta Yeats: Storia di un album straordinario
David, insieme al fratello Dory (che era il produttore artistico di questo disco), nel giugno 1967 era stato costretto a lasciare la Libia per motivi razziali, in quanto di famiglia ebraica.
Trasferitosi a Roma con la famiglia, ai primi degli anni '70 aveva cominciato a lavorare nel mondo dello spettacolo, diventando promoter dei più grandi eventi che in quegli anni si svolsero in Italia, compresi i concerti di Aretha Franklin e dei Led Zeppelin.
Da sempre estimatore di Branduardi, Zard aveva stavolta deciso di produrgli (con la sua etichetta "Musiza" - ovvero "Musica - Zard") un album che non aveva nessuna velleità di vendite popolari, non contenendo nessun possibile hit, nessuna "Fiera dell'Est" o "Cogli la prima mela."
Branduardi, cresciuto nell'ambiente della musica colta, e grande conoscitore di poesia (anni prima aveva per esempio realizzato una versione fantastica di "Confessioni di un malandrino" di Sergej Esenin) e di letteratura, aveva con la moglie Luisa Zappa, trasformato in canzoni, adattandole in musica, alcune meravigliose poesie di William Butler Yeats.
Per l'esattezza: I cigni di Coole (The Wild Swans at Coole); Il cappello a sonagli (The Cap and Bells); La canzone di Aengus il vagabondo (The Song of Wandering Aengus); Il mantello, la barca e le scarpe (The Cloak, the Boat and the Shoes) A una bambina che danza nel vento (To a Child Dancing in the Wind); Il violinista di Dooney (The Fiddler of Dooney); Quando tu sarai... (When you are Old); Un aviatore irlandese prevede la sua morte (An Irish Airman Forsees his Death); Nel giardino dei salici (Down to the Salley Gardens) Innisfree, l'isola sul lago (The Lake Isle of Innisfree). Si tratta di 10 veri gioielli, per un progetto che fu all'epoca approvato personalmente da Michael e Ann Yeats, i figli del grande poeta.
Il nono album di Branduardi uscì conquistandosi una ristretta cerchia di fedelissimi che ancora oggi tengono da parte e venerano questo piccolo capolavoro della musica italiana.
Tutte le musiche sono firmate dallo stesso Branduardi con l'eccezione di La canzone di Aengus il vagabondo, la cui musica è scritta da Donovan. Angelo Branduardi, come sua abitudine, suonò quasi tutti gli strumenti da solo (chitarra, violino, violino baritono, voce, cori, flauto) insieme al fidato Maurizio Fabrizio e a Josè De Ribamar "Papete" alle percussioni.
Altri tempi, dunque, che hanno lasciato però tracce molto profonde.
Fabrizio Falconi - 2022
20/07/22
"Paranoid Android" : come nacque il capolavoro dei Radiohead, sull'album "OK computer"
OK Computer dei Radiohead è stato pubblicato nel 1997 e rimane non solo uno degli album definitivi degli anni '90 ma anche "l'ultimo album che ha cambiato la storia del rock". Una miscela di rock ed elettronica, oggi il disco è considerato il ponte tra gli esordi chitarristici di Pablo Honey e The Bends e ciò che sarebbe avvenuto con dischi come Kid A e Amnesiac.
Fondendo musica pionieristica e commenti sociali taglienti sulla diffusione della tecnologia e dell'economia neoliberale, l'LP è uno degli album più completi mai pubblicati. Grazie alla sua pertinenza, OK Computer è stato un successo trasversale ed è rimasto uno dei migliori della band.
Sebbene il disco sia stellare dall'inizio alla fine, con brani come "Karma Police", "Exit Music (For a Film)" e "No Surprises", il pezzo forte è la seconda traccia, "Paranoid Android". Un'epopea rock di oltre sei minuti, che mette in mostra ogni aspetto della maestria dei Radiohead in quel momento, e non sorprenderà sapere che la band si è ispirata a "Happiness is a Warm Gun" dei Beatles, un brano costantemente locomotore di "Abbey Road", per il modo in cui ha fuso insieme due brani musicali contrastanti.
Un altro brano classico che li ha ispirati è stato "Bohemian Rhapsody" dei Queen e, a causa delle sue dinamiche sempre mutevoli, sarebbe stato etichettato come "La 'Bohemian Rhapsody' degli anni '90", cosa che la band avrebbe immancabilmente scrollato di dosso grazie alla sua modestia senza compromessi.
Sebbene potremmo parlare per ore della musica di "Paranoid Android", il brano si distingue anche per un altro motivo: i testi del frontman Thom Yorke.
La prima è avvenuta quando Yorke si trovava in un bar di Los Angeles e si è seduto accanto a un gruppo di amici strafatti di cocaina. Una delle donne del gruppo era stata accidentalmente ricoperta dal drink di un'altra persona e si era scatenata in una rabbia di proporzioni "disumane". "C'era uno sguardo negli occhi di questa donna che non avevo mai visto prima da nessuna parte", ha spiegato "Quella notte non sono riuscito a dormire per questo".
Anche se Yorke ha parodiato la donna con l'intramontabile battuta "scalciante porcellino di Gucci", ha voluto fare qualcosa di più con la sua esperienza che non semplicemente criticarla. Ha usato questa esperienza come mezzo per osservare la società nel suo complesso. Ha sfogato la sua rabbia su di noi come collettività, non solo sulla donna, poiché le sue azioni erano indicative di come ci troviamo nei tempi moderni; da qui il sarcasmo di "Dio ama i suoi figli, sì".
Per il titolo, Yorke ha scelto "Paranoid Android" sia come riferimento a Marvin, l'originale androide paranoico del romanzo spaziale di Douglas Adams Guida galattica per gli autostoppisti, sia per fare del sarcasmo su come il pubblico lo vedeva.
Una canzone incredibilmente stratificata, non c'è da stupirsi che "Paranoid Android" sia uno dei brani ancora oggi più ascoltati e più discussi dei Radiohead.
19/07/22
In un'epoca senza maestri, un grande tributo a Philip Glass da Woody Allen, Scorsese e tanti altri
17/06/22
* Domani il leggendario Paul McCartney compie 80 anni ! Storia della sua canzone forse più intima e più famosa*
Domani Paul McCartney di sicuro il musicista vivente più famoso al mondo, compie la bellezza di 80 anni. Nato il 18 giugno 1942, sotto il segno dei Gemelli, a Liverpool, McCartney, in coppia con il collega John Lennon ha scritto qualcosa come 170 canzoni fondamentali nella storia della musica. A queste sono da aggiungere poi, ovviamente, quelle della sua lunga carriera solista.
Tra quelle 170 forse la canzone più intima e famosa, quella che meglio di ogni altro disegna il mito di Paul, inserite nell'ultimo album dei Beatles, omonimo, è Let it Be, esattamente la sesta traccia di quel capolavoro, canto del cigno del gruppo.
Come è noto, Paul McCartney rivelò che l'ispirazione per la canzone gli venne da un sogno, nel quale aveva parlato con la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni.
Paul, infatti, al momento dell'incontro fatale con John Lennon era orfano di madre, come lo stesso John, che aveva perso la sua all'età di 16 anni.
Nel sogno, secondo il racconto del musicista, la madre consigliava a Paul, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciare correre, cioè to let it be, nel senso che "tutto si sarebbe aggiustato".
John Lennon accolse la canzone con malcelato sarcasmo, poiché la considerava troppo "pseudo-religiosa". Secondo alcuni, l'antipatia di Lennon per il brano sarebbe confermata proprio dalla collocazione della canzone sull'album, posta appena dopo l'irridente frase di Lennon: «And now we'd like to do "Hark The Angels Come"!» ("Ed ora vorremmo eseguire Udite! Gli angeli cantano!"), e subito prima dell'esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool.
Il singolo raggiunse la prima posizione in classifica in mezzo mondo.
Fu l'ultimo singolo dei Beatles pubblicato prima dello scioglimento della band. Infatti sia l'album Let It Be che il singolo The Long and Winding Road uscirono quando il gruppo ormai ufficialmente non era più in attività.
Nel 2004 il brano ha raggiunto il ventesimo posto nella classifica delle 500 canzoni migliori di tutti i tempi pubblicata dalla rivista Rolling Stone.
La versione finale venne registrata il 31 gennaio 1969, come parte del progetto Get Back (l'album che successivamente diventerà Let It Be). McCartney suonava un pianoforte a coda Blüthner, Lennon il basso, Billy Preston l'organo, George Harrison la chitarra elettrica e Ringo Starr la batteria.
In questa seduta furono registrate due versioni della canzone. In entrambe le versioni il pianoforte suonato da McCartney presenta un accordo dissonante a 2:58.
Recentemente McCartney nella sua autobiografia (Paul McCartney - The lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi - A cura di Paul Muldoon, Traduzione di Franco Zanetti e Luca Perasi, Rizzoli e © 2021) è tornato con un più ampio racconto, sulla genesi di Let it be. Ecco il passo relativo:
"Sting una volta mi ha detto che cantare Let it be al Live Aid non è stata una buona scelta da parte mia. Pensava che fosse implicito che era necessario agire, e "non cercate di cambiare, le cose vanno già bene così" non era un messaggio adatto in quell'occasione, in quell'enorme chiamata alle armi che il Live Aid rappresentava. Ma Let It be non è una canzone sull'autosoddisfazione, o sulla connivenza. Parla dell'avere un senso del quadro d'insieme, del rassegnarsi alla visione globale.
La canzone è nata in un momento di angoscia. Era un periodo difficile, perché stavamo andando verso la separazione dei Beatles. E un periodo di cambiamento, in parte anche perché John e Yoko si erano messi assieme e questo aveva condizionato le dinamiche del gruppo. Yoko si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso. Ma era anche qualcosa con cui dovevamo fare i conti. Sino a che non vi fosse stato un problema davvero serio - sino a che uno di noi non avesse detto: "Non posso cantare se lei è qui" - dovevamo lasciare che fosse così. Non eravamo polemici, ce la siamo messa via e siamo andati avanti. Eravamo ragazzi del Nord, quell'atteggiamento era parte della nostra cultura. Sorridi e sopporta. Una cosa interessante di Let It be che mi hanno fatto ricordare di recente è che, all'epoca in cui studiavo letteratura inglese al Liverpool Institute High School for Boys con il mio insegnante preferito, Alan Durband, ho letto l'Amleto. A quel tempo dovevi imparare brani a memoria perché quando li portavi all'esame dovevi essere in grado di citarli parola per parola. Ci sono un paio di frasi, verso la fine che recitano: "O, I could tell you - But let it be. - Horatio, I am dead". Mi sa che quei versi mi si sono conficcati nella memoria, senza che ne fossi consapevole. Quando stavo scrivendo Let it be stavo facendo troppo di tutto, ero sfinito, e ne stavo pagando il prezzo. La band, io... stavamo tutti passando "times of trouble", brutti momenti, come dice la canzone, e non sembrava esserci modo di uscire da quel casino. Un giorno mi sono addormentato stanchissimo e ho sognato che mia mamma (che era morta più di dieci anni prima) era, letteralmente, venuta da me. Quando sogni di vedere qualcuno che hai perso, anche se a volte è solo per una manciata di secondi, sembra proprio che sia lì con te, ed è come se ci fosse sempre stato. Penso che chiunque abbia perso una persona cara lo capisca, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla loro morte.
Ancora oggi sogno John e George e parlo con loro. E in quel sogno, vedere il bel viso premuroso di mia mamma e trovarmi con lei in un luogo tranquillo mi ha dato molto conforto. Mi sono subito sentito a mio agio, amato e protetto. Mia mamma era una persona molto rassicurante, e come molto spesso fanno le donne, era lei che mandava avanti la famiglia. Ci teneva su il morale. Nel sogno sembrava aver capito che ero preoccupato per quello che stava succedendo nella mia vita e per quello che sarebbe successo, e mi ha detto: "Andrà tutto bene. Così sia". Mi sono svegliato pensando che fosse una grande idea per una canzone. Ho cominciato pensando alle circostanze in cui mi trovavo - alle grane sul lavoro. All'epoca in cui abbiamo registrato Let It be stavo spingendo affinché la band ritornasse a esibirsi in piccoli club - per tornare alle origini e rinnovare il legame che ci univa, chiudere il decennio come lo avevamo iniziato, suonando solo per il piacere di farlo. Non lo abbiamo fatto, come Beatles, ma quell'idea è stata alla base della direzione presa dall'album Let It be. Non volevamo trucchetti di studio. Volevamo un album onesto, senza sovraincisioni. Non è andata a finire proprio così, ma quella era l'intenzione. La cosa triste è che i Beatles non hanno mai suonato questa canzone in concerto. Dunque l'esecuzione al Live Aid è stata, per molte persone, la prima volta che hanno sentito il pezzo suonato su un palco.
Comunque sia, Let It be è entrata ormai da tempo nella scaletta dei miei concerti. È sempre stata una canzone collettiva, sull'accettazione degli altri, e credo che il suo momento funzioni proprio bene quando sei davanti a una folla. Vedi molta gente che abbraccia i propri partner o gli amici o i propri cari e che canta in coro. Le prime volte, quando la suonavo, si vedevano anche tantissimi accendini tenuti sollevati. Adesso ai concerti non si può più fumare, e le luci vengono dai cellulari. Riesci sempre a capire quando una canzone non è molto popolare, perché la gente mette via il telefono. Ma quando faccio questa, lo tirano fuori. Anni fa eravamo in Giappone e abbiamo suonato al Budokan di Tokyo. Avevamo appena fatto tre serate alla Tokyo Dome, un grande stadio da baseball da cinquantacinquemila posti. Per compensare abbiamo chiuso il tour con una serata al Budokan, che in confronto offre una certa intimità. Non erano passati proprio cinquant'anni da quando i Beatles ci avevano suonato, ma è stato uno spettacolo speciale, in un posto che mi suscita molti ricordi. Ai miei addetti al tour piace farmi delle sorprese, e in quell'occasione hanno distribuito a tutto il pubblico dei braccialetti. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma durante Let it be tutta la sala si è illuminata, con migliaia di braccia che si muovevano. In momenti come questi, a volte è difficile continuare a cantare.
Alcuni hanno detto che Let it be ha una leggera connotazione religiosa, e sembra un po' una canzone gospel, in particolare per via del pianoforte e dell'organo. Probabilmente il termine Mother Mary viene in prima battuta inteso come un riferimento a Maria Vergine, la Madre di Dio. Come forse ricorderete, mia madre Mary era cattolica, mio papà invece era protestante, e io e mio fratello siamo stati battezzati. Per quanto riguarda la religione, quindi, sono ovviamente influenzato dal cristianesimo, ma ci sono tanti validi insegnamenti in tutte le religioni. Non sono particolarmente religioso nel senso convenzionale del termine, ma credo nell'idea che ci sia una specie di forza superiore che ci aiuta. Questa canzone allora diventa una preghiera, o una piccola preghiera. Da qualche parte, nel fondo di essa, c'è un desiderio. E la stessa parola "amen" significa "e così sia" - o "let it be"".
fonti: Wikipedia - LaRepubblica
08/06/22
*Quando Charles Manson il guru killer di "Bel-Air" era convinto che le canzoni dei Beatles gli parlassero e il caso di "Sexy Sadie".*
La guida spirituale, presentata l'anno precedente ai Beatles dalla moglie di George Harrison Pattie Boyd in un periodo particolarmente delicato del loro percorso esistenziale, aveva suscitato dapprima curiosità e fiducia nei membri del gruppo, specialmente in Harrison e Lennon. Quest'ultimo sosteneva fermamente che nel guru risiedeva la risposta a tutti i suoi problemi, che magari gli sarebbe stata elargita con una semplice e risolutiva frase, foriera di una verità talmente profonda e paradossale da cambiare radicalmente in lui il modo di concepire difficoltà e avversità. Tuttavia questa frase tardava a venire, fintantoché il gruppo cominciò a nutrire seri dubbi sui metodi e sulla filosofia di vita del Maharishi.
03/06/22
*Krishnamurti e Maharishi si sono mai incontrati? Sì, una volta, e non andò molto bene...*
02/06/22
La Canzone più drammatica (e allo stesso tempo lieve e sublime) scritta dai Beatles: "She's Leaving Home*
Da quel capolavoro assoluto che è Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, album del 1967, ho riscoperto con meraviglia una delle canzoni di quell'album, piuttosto dimenticata.
01/05/22
Chi era Michael Abram, l'uomo che nel 1999 colpì George Harrison con 44 coltellate
Michael Abram, l'autore dell'aggressione a George Harrison nel 1999 |
18/03/22
Il VIDEO più divertente (e intelligente) del mondo...
14/01/22
Il lato oscuro di Fabrizio De André: come possono essere crudeli i padri (anche se sono grandi poeti)
Fa impressione la crudeltà dei padri. Anche - e a maggior ragione - quando sono persone illuminate, grandi musicisti e poeti, che hanno lasciato il patrimonio della loro arte a tutti.
Il lato oscuro del grande Fabrizio De André emerge da questi passaggi della intervista rilasciata dal figlio, Cristiano a Massimo Cotto, qualche tempo fa, su Sette del Corriere della Sera.
Lo riporto qui:
Un padre assente?
12/01/22
Quella volta che David Bowie cantò a Sanremo. Ma perché?
Pochi lo ricordano ma perfino il grande, immenso David Bowie cadde su Sanremo (oltre che Sulla Terra, come avveniva all'extraterrestre che impersonava, nel film diretto da Nicolas Roeg).
In quella occasione andò in scena anche un vero e proprio "corto circuito" che soltanto la televisione riesce ad assemblare. A presentare David fu infatti il povero Mike Bongiorno (all'epoca già 73enne), che di fronte al Duca Bianco, che chiaramente non capiva una sola parola di italiano, disse: “Non mi è mai successo di presentare uno spettacolo presentando un mito… Pensate, è un cantante così famoso da essere l’unico quotato in Borsa!”
L’ UNITA’ – Venerdì 21 febbraio 1997
Biondissimo, sorridente, felice. Se la categoria degli “splendidi cinquantenni” cercasse un rappresentante ideale, David Bowie sarebbe una scelta naturale. Di passaggio a Sanremo per promuovere il suo nuovo album, Earthling, il Duca Bianco si concede alla stampa. Per raccontare le nuove delizie del drum’n’bass che esplode dal suo disco. Parole chiave: spontaneità, arte e, naturalmente, money. Ecco l’ uomo che cadde su Sanremo.
di Roberto Giallo
SANREMO. Cap Ferrat. Come un gioiello in uno scrigno, David Bowie se ne sta tranquillo in un albergone elegante della. Costa Azzurra, a Cap Ferrat, coccolato a vista da guardie del corpo e discografici, in attesa di suonare al Festival. Compare di colpo tutto di nero vestito, biondissimo, con quegli occhi uno azzurro e uno blu che gli danno (pure!) un’aria sorniona. Qualche anno fa si era definito “oscenamente felice”, e il suo sorriso dice subito che si sente ancora così. In più, sembra un ragazzino, segno inequivocabile che il rock mantiene giovani. Ghigna e scherza, disponibile finché una Erinni multinazionale fa cenno, burbera, che il tempo è finito, e se lo porta via.
Bowie, ha un’idea di dove capiterà questa sera, in che tipo di manifestazione canterà?
No, francamente non ho la minima idea di che show sarà, e altrettanto francamente non mi interessa. Tengo moltissimo a questo mio nuovo disco e voglio fare ogni sforzo per promuoverlo a dovere. La casa discografica mi ha assicurato un’audience altissima e questo va benissimo. Quello che mi interessa è far sentire la mia band, la migliore che ho mai avuto. Per noi 7.000 o 40.000 persone è la stessa cosa, stiamo bene ovunque, indipendentemente dal contesto.