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04/07/22

Sembra incredibile, ma al funerale di Elsa Morante, la più grande scrittrice italiana, a Roma, non ci furono più di 20 persone.

 


Sembra davvero incredibile il disinteresse che il nostro paese dimostrò per gli ultimi anni vissuti da uno dei suoi più grandi scrittori, Elsa Morante, che a Roma morì, il 25 novembre 1985, a settantatré anni. 

Come si sa, l'ultimo romanzo di Elsa Morante fu Aracoeli, pubblicato sempre da Einaudi nel 1982, per il quale, nel 1984, ottenne il Prix Médicis, uno dei più prestigiosi premi francesi. 

Poco prima della fine della stesura del romanzo, la Morante, cadendo, si era procurata una frattura al femore, che la costrinse lungamente a letto. 

Ma dopo l'uscita del libro scoprì anche di essere gravemente ammalata; tentò il suicidio nel 1983, ma fu salvata in extremis dalla sua governante, Lucia Mansi. 

Ricoverata in clinica, fu sottoposta a una complessa operazione chirurgica, che però non le giovò molto. Morì nel 1985 a seguito di un infarto.

Come ricorda l'editore Livio Garzanti per i funerali, alla chiesa di piazza del Popolo, qualche giorno dopo, c’erano meno di venti persone. "Ultimo, sbarcò da un’automobile Moravia (che la Morante aveva spostato nel 1941, ndr.), elegante, accompagnato dalla nuova giovanissima Carmen Llera. Un tic nervoso gli scuoteva le spalle in controcampo con la sua zoppia."

Un funerale del tutto indegno, per una scrittrice e una intellettuale quale fu la Morante, che ha lasciato un segno indelebile nel Novecento italiano.

Di quel funerale nemmeno si trovano testimonianze fotografiche in rete. Nemmeno una. 

Questo invece è il corsivo che scrisse Laura Laurenzi, giornalista di Repubblica, il giorno dopo:

Piangono tutti, gli amici più cari; gli altri invece, molti altri, sembrano essere venuti soltanto per guardare. Piange Lucia, spezzata dal dolore, la vecchia governante che due anni e mezzo fa strappò Elsa al suicidio, piange e si raccomanda che le belle piante di limone e di mandarino che ornano il feretro non vadano perdute. Piange la sorella Maria, dal viso forte e sereno, piange Carlo Cecchi, l' amico più caro, con gli occhi cerchiati e un' aria smarrita. Natalia Ginzburg è immobile nel dolore, cupa e severa, sottobraccio alla figlia Alessandra, anche lei commossa. Ed è commossa, il viso rigato di lacrime, l' infermiera di Villa Margherita che ha seguito giorno per giorno la lunga agonìa e racconta di sofferenze tremende, e di urla spaventose durante la notte. 

A Makarousse, il bambino libico di nove anni vicino di stanza della Morante e condannato da un cancro, l' ultimo amico profondo della scrittrice, nessuno ha avuto il coraggio di spiegare che Elsa è morta, non c' è più. "Ci domanda continuamente di lei - racconta l' infermiera -. Per ora gli abbiamo detto che è stata trasferita in un' altra clinica"

Piange, mescolata ai colleghi, anche la fororeporter Antonia Cesareo, amica anni fa della Morante ("Fu Elsa, insistendo, a convincermi che dovevo assolutamente fare un figlio"), piange e non riesce a scattare fotografie. La chiesa è quella di Santa Maria del Popolo, parrocchia della Morante, la chiesa degli splendidi Caravaggio amata da tanti scrittori e dove furono celebrati anche i funerali di Gadda. 

Più che un funerale Elsa Morante avrebbe voluto una festa: lo disse in una delle sue ultime interviste. Una festa, tutti felici, e musiche di Mozart, di Bach e del primo Bob Dylan. L' hanno accontentata soltanto su Bach: "Per gli altri autori era troppo complicato, bisognava forse usare dei dischi", spiega Dacia Maraini, venuta prima degli altri per curare le musiche del rito. L' organista suona dunque la Passione secondo Matteo, come aveva espressamente chiesto la Morante, e alcuni dei Preludi Corali, per primo "Cristo giaceva nelle catene della morte". 

Moravia, pallidissimo, il volto contratto, si fa strada fra una siepe di fotografi. Lui e la sua nuova compagna Carmen Lhera arrivano insieme ma entrano separati, e si fermano in fondo alla chiesa, al quart' ultimo banco, mentre tutti i parenti e gli amici più stretti, microcosmo quotidiano delle ultime sofferenze, sono accanto alla bara, nel primo banco di destra. 

Soltanto due i cuscini di fiori. Uno dice "i cugini Morante", l' altro "il condominio di via dell' Oca". Una bimba depone un mazzo di margherite sulla bara. C' è anche Claudia Cardinale, un piccolo tailleur grigio, i capelli legati, senza trucco, quasi non riuscisse a togliersi di dosso il personaggio spoglio e sofferente di Ida Ramundo, la protagonista della Storia che sta interpretando sul set. 

Ma Elsa Morante era religiosa? Avrebbe voluto tutto questo? "Sì, credeva in Dio - spiega la sorella -, anche se la sua religiosità non era certo chiesastica, ma tutta spirituale". 

All' uscita del feretro sulla piazza un applauso, prima incerto, come imbarazzato, poi lungo e commosso, che suona come un grazie. Nella folla che riempie la chiesa e il sagrato, fra gli altri, l' anziano poeta Attilio Bertolucci ("Ci frequentammo tanto negli anni 50, fui io a presentarle Pierpaolo Pasolini"), Giorgio Bassani amico di quei tempi, Cesare Zavattini.

Nessun uomo politico, non un ministro. 

Elsa Morante, per suo stesso volere, concluse le formalità burocratiche, sarà cremata.

15/05/22

Qual è il romanzo italiano più grande del Novecento? Una risposta, io l'avrei

 


Se mi chiedessero qual è il più grande romanzo italiano del Novecento, io una risposta l'avrei. 

Come premessa, probabilmente indicherei una cinquina di finalisti, di cui farebbero parte anche L'Isola di Arturo di Elsa Morante, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino e Il Nome della Rosa di Umberto Eco. 

Ma alla fine, dovendo scegliere un solo titolo e un solo nome - e prevalendo in questo caso motivi razionali e di affezione personale, direi senza dubbio, Il Male Oscuro, scritto da Giuseppe Berto nel 1964. 

Personaggio piuttosto controverso nell'ambiente letterario del Novecento, e piuttosto isolato, durante il suo percorso, dal contesto dei suoi colleghi scrittori e da una buona parte della critica militante, Berto con quel romanzo conobbe un successo inaspettato e clamoroso vincendo nel giro di una settimana il premio Viareggio e il premio Campiello dello stesso anno, il 1964.

Berto, nel dopoguerra, pagò caramente - con l'isolamento di cui parlavamo prima - l'adesione giovanile al fascismo. 

Nato a Mogliano Veneto allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, Berto, già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. 

Tornato in Italia nel ’46, a trentadue anni aveva con sé i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi pubblicherà di lì a poco. 

Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. 

Nel 1963 rimase famoso nelle cronache lo scontro, a cui seguì una vertenza giudiziaria, con Alberto Moravia, che non apprezzava l'opera di Berto: i due non si stimavano, soprattutto Moravia era drastico, in senso negativo, nei giudizi sulla prosa dell’altro. Ma la vera ragione dello scontro fra i due  fu l’appoggio dato dallo scrittore romano a Dacia Maraini e al suo romanzo “L’età del malessere” in vista del premio Formentor (che poi le fu dato). 

Fra Dacia Maraini e Moravia esisteva un legame amoroso e solo per questo, secondo Berto (e secondo molti altri), Moravia premeva per l’assegnazione del premio alla sua protetta, a prescindere dai valori letterari. 

Che Giuseppe Berto fosse rimasto male dell’atteggiamento di Moravia, allora molto potente, non è provato ma è coerente con il personaggio, lontano dai riflettori, tutto concentrato su se stesso, tormentato e perennemente lacerato dai fantasmi del passato e dalle sue vicende personali e familiari. 

Ma quando e come fu scritto Il Male Oscuro, romanzo fluviale e sperimentale che si presenta come un  unico ininterrotto flusso di memoria organizzato nella forma di un monologo interiore? 

La svolta per Berto maturò, a Capo Vaticano, luogo di bellezza straordinaria, sulla costa tirrenica della Calabria. 

Lo scrittore capitò in questo posto per caso, come egli stesso diceva “quando ancora i contadini portavano le mucche e i maiali a fare il bagno, quando l’emigrazione incominciava a farsi esodo. Per loro quel mare, ora tanto decantato, quelle spiagge, quei declivi pieni di ginestre e fichi d’India, quelle fantastiche rocce, tanta ricchezza naturale insomma, significava solo fatica, fame”. 

Al di là quell’orizzonte ricamato dalle isole Elie: Stromboli, Vulcano, Panarea, Alicudi, Filicudi, c’era soltanto un sogno: il “cammino della speranza”. 

Per Giuseppe Berto, invece, perseguitato dalla nevrosi, Capo Vaticano fu l’approdo. “Appena la vidi seppi che quella dalla quale si scorgevano quelle magiche isole, era la mia seconda patria. E qui sono venuto a vivere”. 

Da Nicola La Sorba, un contadino del luogo, per una manciata di lenticchie comprò metà della punta di Capo Vaticano

Qui pose le tende, qui – dice – “buttai la storia che avevo più a portata di mano, cioè la storia della mia malattia. Lavorai qua fra le pietre scrivendo una cartella dopo l’altra, con il rischio di bloccarmi fino alla fine”. 

“Stese effettivamente questo suo libro – scrive Agostino Pantano, amico e conoscitore di Berto – restando chiuso per due mesi in una specie di bunker ricavato nel corpo di una fondazione di cemento”. 

Come scrittore nella bellezza di questo luogo riuscì a realizzarsi, mentre non riuscì, se non con il tempo, un rapporto con la gente del posto che definitiva diversa dalla “sua gente”. Si mise in polemica con tutti e con tutto, tuonando contro i nascenti scempi edilizi. Per lui quel posto sarebbe dovuto diventare un luogo per un tipo di turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero per la gente estenuata dalla nevrosi. “Turismo non è solo viaggiare – diceva – è anche venire a contatto con civiltà diverse, capirsi, amarsi. I calabresi non sono gente facile. Potrebbe nascerne incomprensione, o addirittura odio, invece di amore”. 

Ma intanto con il passare degli anni, un male non più oscuro lo sospingeva verso la morte. Pochi giorni prima di morire, dal luogo di cura, ritornò a Capo Vaticano, salutò gli amici, si fermò davanti ai luoghi che aveva tanto amato.

Chiese di essere seppellito nel cimitero del luogo in mezzo alla gente comune, in mezzo alla sua gente, per riguardare per sempre le luci sul mare, le magiche isole Eolie.

E questi luoghi rimasero nel suo grande capolavoro, che a distanza di sessant'anni non ha perso nulla della sua forza dirompente e della sua qualità irripetibile. 

Fabrizio Falconi 

29/12/21

Libro del Giorno: "E' inutile che io parli" di Ezra Pound

 


La Rapallo cosmopolita e letteraria tra le due guerre, i rapporti con il fascismo, l’instancabile lavoro ai Cantos, gli amici scrittori e filosofi, il pensiero economico, la sua amatissima Italia, la vecchiaia, la Poesia… 

Questo volume, da poco pubblicato dall'editore De Piante è prezioso perché raccoglie le principali interviste rilasciate da Pound e apparse sulla stampa italiana dagli anni Venti agli anni Settanta del Novecento. 

Raccolte per la prima volta in volume, offrono al lettore un ritratto del tutto inedito del poeta americano, non offuscato dalle polemiche, spesso pretestuose, del Dopoguerra. 

Si scoprono così giudizi, ricordi e riflessioni fulminanti di uno dei grandi e controversi protagonisti del secolo scorso: lucido, determinato, consapevole della realtà e soprattutto intenzionato ingenuamente a migliorarla con il suo impegno dalla parte sbagliata della storia

Pound, come è noto, pagò la sua adesione ideologica al fascismo, i suoi strambi proclami lanciati dalla radio italiana, mentre i suoi connazionali americani combattevano sui fronti europei. E pagò duramente, alla fine della guerra, con la cattura, il trasferimento negli Stati Uniti, il processo durante il quale la possibile condanna a morte per tradimento fu tramutata - considerando il soggetto un malato di mente - in reclusione coatta al manicomio di Sant'Elizabeth, dove Pound rimase per 12 anni.

Tornato in Italia, nel 1958, Pound vi rimase fino alla morte avvenuta a Venezia nel 1972 all'età di 87 anni.

Il libro è interessante perché permette di ricostruire l'intero rapporto di Pound  con il nostro paese. Il poeta vi arrivò con spirito esule, disgustato dal potere americano, dopo un periodo londinese e uno parigino. In Italia trovò quella vivacità, quel fervore, quello spirito di cambiamento che cercava e finì per stabilirsi nel golfo del Tigullio, dove soggiornavano molti e grandi intellettuali stranieri, e dove presero a fargli visita giornalisti, poeti, scrittori, giornalisti italiani, attratti dal suo spirito visionario e soprattutto dalla grandezza della sua poesia, da quell'opera - I Cantos - che scrisse in gran parte in Italia e che restano un monumento della poesia di tutti i tempi.

Tra i diversi contributi anche il resoconto fedele, originale, della intervista televisiva che realizzò Pier Paolo Pasolini a casa del poeta, a Venezia. 

L'edizione è curata e ottima, a parte la scelta piuttosto incomprensibile dell'autoritratto di Van Gogh in copertina (forse motivata da una certa somiglianza tra Pound e il pittore fiammingo).

Ezra Pound 

E' inutile che io parli

Curatore: Luca Gallesi 

De Piante Editore, 2021 

Pagine: 240 p., EAN: 9791280362018

Euro: 20,00

04/03/21

Libro del Giorno: "Cuori pensanti" di Laura Boella

 


5 brevi lezioni di filosofia per tempi difficili: così recita il sottotitolo di questo libro di Laura Boella dedicato a 5 figure femminili fondamentali nella storia e nella filosofia del Novecento. 

Edith Stein, Maria Zambrano, Hannah Arendt, Simone Weil, Etty Hillesum. 

La voce intensa, l'intelligenza e la straordinaria sensibilità di cinque grandi pensatrici. Cinque donne indipendenti, audaci, ostili a ogni conformismo. 

Cuori Pensanti è un piccolo libro di filosofia che rappresenta una continua fonte d'ispirazione

L'eredità delle filosofe non è soltanto scritta nei loro libri, ma vive nella loro esperienza, nei loro giudizi, nelle scelte etiche, politiche e spirituali. 

"In queste pagine," scrive l'autrice, "non ho fatto altro che lasciarmi trasportare dalla passione che mi accompagna da molti anni per queste straordinarie figure di pensatrici, cercando di esaltarne il coraggio di amare e di pensare." 

Cinque brevi lezioni di filosofia condensate in poco più di cento pagine: un piccolo compendio che attraversa la vita, gli amori, le inquietudini, le domande, le riflessioni di cinque pensatrici straordinarie che hanno sfidato la morale convenzionale e le cui biografie sono avvolte in un alone di leggenda. 

Per ognuna di loro, la filosofia non è stata un riparo o un ritiro dal mondo: è stata la pratica audace e ostinata di un addestramento al sentire la vita in tutta la sua ricchezza e complessità, di una vigilanza sulle proprie emozioni, di un raccoglimento capace di lasciar emergere ogni esperienza in tutte le sue sfumature, con assoluta chiarezza. 

Le loro parole e i loro pensieri sono una continua fonte d'ispirazione, oggi come ieri.

Laura Boella

Cuori Pensanti

Milano, Chiarelettere, 2020 

pp. 144 pagine, Euro 14,25

ISBN-10 : 8832963183 

ISBN-13 : 978-8832963182

03/12/20

L'incredibile storia dei due fratellini salvati sull'ultima scialuppa del Titanic

 


Molto più commovente della storia d’amore raccontata nel film Titanic, questa è la straordinaria esperienza di due fratellini sopravvissuti al naufragio del transatlantico, conosciuti come gli “orfani del Titanic”, gli unici bambini che si siano salvati senza avere al fianco un genitore o un tutore.

Michel Navratil, un sarto di origine slovacca che viveva in Francia, si era imbarcato con i due figli Michel Marcel (12 giugno 1908-30 gennaio 2001) ed Edmond (1910-1953). 

I bambini erano stati sottratti alla custodia della madre, così l’uomo assunse il falso nome di Louis M. Hoffman, mentre i figli furono registrati come Lolo e Momon

Durante il viaggio, come passeggeri di 2° classe, papà Navratil fece credere di essere vedovo, dimostrandosi un genitore attento e amorevole. Dopo la collisione con l'iceberg, avvenuta alle ore 23.40 del 14 aprile 1912, l’ultima scialuppa di salvataggio ad essere calata fu la “D”, alle ore 2.05 delle notte. 

Mentre rimanevano ancora 1500 persone a bordo, solo 47 passeggeri, potevano sperare di salvarsi salendo sulla “D”. I marinai del Titanic fecero imbarcare solo donne e bambini, e Navratil, compiendo l’ultimo gesto d’amore per i suoi figli, riuscì a calarli nella scialuppa.

Michel, che all’epoca non aveva ancora quattro anni, in seguito raccontò che al momento del distacco il padre gli disse: “Figlio mio, quando vostra madre verrà a prendervi, come sicuramente farà, dille che l’ho amata veramente, e ancora la amo. Dille che mi aspettavo che lei ci raggiungesse, affinché noi tutti potessimo vivere felicemente insieme nella pace e nella libertà del Nuovo Mondo.”


22/01/19

A Pavia la straordinaria mostra su Vivian Maier, una delle più grandi ed enigmatiche fotografe del Novecento.




Dal 9 febbraio al 5 maggio 2019, le Scuderie del Castello Visconteo di Pavia rendono omaggio a Vivian Maier (1926-2009), una delle più singolari e misteriose figure di artista, la ‘bambinaia-fotografa’, recentemente ritrovata e definita una delle massime esponenti della cosiddetta street photography.

La rassegna, curata da Anne Morin e da Piero Francesco Pozzi, è promossa dalla Fondazione Teatro Fraschini e dal Comune di Pavia – Settore Cultura, Turismo, Istruzione, Politiche giovanili, prodotta e organizzata da ViDi, in collaborazione con diChroma photography, John Maloof Collection, Howard Greenberg Gallery, New York.

“La primavera del 2019 - afferma Giacomo Galazzo, assessore alla Cultura del Comune di Pavia e presidente Fondazione Teatro Fraschini - sarà l'occasione di una vera e propria celebrazione dell'arte fotografica, protagonista di un importante percorso culturale in questo mandato amministrativo. Lo concluderemo con una doppia iniziativa al Castello Visconteo, luogo strategico per la cultura e per la promozione della città”.
“Alle Scuderie - prosegue Giacomo Galazzo - con una rassegna su una firma celebre e amatissima e con una bella storia da raccontare, quella di Vivian Maier. In Sala mostre, invece, dopo la positiva esperienza pavese alla biennale di Jinan, ricambieremo la bella ospitalità ricevuta ospitando l'arte del Maestro Zeng Yi, che con i suoi scatti ci racconterà la Cina da un punto di vista diverso da quello più frequentato nella discussione pubblica. Ancora una volta, crediamo, l'arte e la cultura saranno uno straordinario veicolo di conoscenza reciproca”.

Il percorso espositivo propone un racconto per immagini composto da oltre cento fotografie in bianco e nero e a colori, oltre che da pellicole super 8 mm, in grado di descrivere Vivian Maier da vicino, lasciando che siano le opere stesse a sottolineare gli aspetti più intimi e personali della produzione dell’artista che, mentre era in vita, ha realizzato un numero impressionante di fotografie senza farle mai vedere a nessuno, come se volesse conservarle gelosamente per se stessa.

Nata a New York da madre francese e padre austriaco, Vivian Maier (1926-2009) trascorre la maggior parte della sua giovinezza in Francia, dove comincia a scattare le prime fotografie utilizzando una modesta Kodak Brownie. Nel 1951 torna a vivere negli Stati Uniti e inizia a lavorare come tata per diverse famiglie. Una professione che manterrà per tutta la vita e che, a causa dell’instabilità economica e abitativa, condizionerà alcune scelte importanti della sua produzione fotografica. Fotografa per vocazione, Vivian non esce mai di casa senza la macchina fotografica al collo e scatta compulsivamente con la sua Rolleiflex accumulando una quantità di rullini così numerosa da non riuscire a svilupparli tutti.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio, cercando di sopravvivere, senza fissa dimora e in gravi difficoltà economiche, Vivian vede i suoi negativi andare all’asta a causa di un mancato pagamento alla compagnia dove li aveva immagazzinati. Parte del materiale viene acquistato nel 2007 da John Maloof, un agente immobiliare, che, affascinato da questa misteriosa fotografa, inizia a cercare i suoi lavori dando vita a un archivio di oltre 120.000 negativi. Un vero e proprio tesoro che ha permesso al grande pubblico di scoprire in seguito la sua affascinante vicenda.

Con uno spirito curioso e una particolare attenzione ai dettagli, Vivian ritrae le strade di New York e Chicago, i suoi abitanti, i bambini, gli animali, gli oggetti abbandonati, i graffiti, i giornali e tutto ciò che le scorre davanti agli occhi. Il suo lavoro mostra il bisogno di salvare la “realtà” delle cose trovate nei bidoni della spazzatura o buttate sul marciapiede. Pur lavorando nei quartieri borghesi, dai suoi scatti emerge un certo fascino verso ciò che è lasciato da parte, essere umano o no, e un’affinità emotiva nei confronti di chi lotta per rimanere a galla.

Alle Scuderie non mancano i celebri autoritratti in cui il suo sguardo severo riflette negli specchi, nelle vetrine e la sua lunga ombra invade l’obiettivo quasi come se volesse finalmente presentarsi al pubblico che non ha mai voluto o potuto incontrare.

L’esposizione offre quindi, la possibilità di scoprire una straordinaria fotografa che con le sue immagini profonde e mai banali racconta uno spaccato originale sulla vita americana della seconda metà del XX secolo.
Per tutta la durata della mostra una serie di incontri ed eventi permetteranno ai visitatori di approfondire l’opera di Vivian Maier e la storia della fotografia.

Una mostra “family friendly” con un percorso creato ad hoc per i bambini, un kit didattico in omaggio da ritirare in biglietteria appositamente creato per la visita dei più piccoli. Inoltre, all’interno delle Scuderie, un’opera ad “altezza bambino” attende i giovani visitatori per un’esperienza immersiva a loro dedicata.

Pavia, gennaio 2019

VIVIAN MAIER. Street photographer
Pavia, Scuderie del Castello Visconteo (viale XI Febbraio, 35)
9 febbraio - 5 maggio 2019

Orari
Dal martedì al venerdì: 10.00-13.00/14.00-18.00
Sabato, domenica e festivi: 10.00 - 19.00
(La biglietteria chiude un'ora prima)

Biglietti
Audioguida inclusa nel prezzo
Intero: € 10,00; ridotto: € 8,00; Scuole: € 5,00 

Informazioni e prenotazioni
Tel. 02.36638600


PAVIA
ALLE SCUDERIE DEL CASTELLO VISCONTEO
DAL 9 FEBBRAIO AL 5 MAGGIO 2019
LA MOSTRA
VIVIAN MAIER. Street photographer

L’esposizione presenta oltre 100 immagini di una delle più singolari e misteriose figure di artista, definita la ‘bambinaia-fotografa’.

06/11/18

Libro del Giorno: "Peggy Guggenheim" di Laurence Tacou-Rumney




Un volume che è la più accurata biografia esistente di Peggy Guggenheim indubbiamente una delle più importanti mecenati e collezioniste dell'arte del Novecento, accompagnata da un incredibile apparato fotografico che attinge copiosamente dall'archivio personale della stessa ereditiera lasciato nel Palazzo Venier dei Leoni, affacciato sul Canal Grande di Venezia, ultima sua abitazione e sede della Collezione Peggy Guggenheim, colei che fu ribattezzata "l' ultima dogaressa". 

Si tratta dunque di un saggio biografico e analitico originariamente pubblicato in Francia dall'editore Flammarion, di cui è autrice la giornalista Laurence Tacou, moglie di Sandro Rumney, nipote quest'ultimo di Peggy, visto che è uno dei figli di Pegeen, la figlia di Peggy, morta suicida a Parigi nel 1967. 

E' stato proprio il nipote Sandro Rumney a fornire abbondanti materiali inediti sulla vita e l' attività di sua nonna. 

Se il personaggio di Peggy Guggenheim ci era noto attraverso le cronache artistiche e mondane del suo tempo, nonché le sue memorie pubblicate nel 1946 con il titolo Out Of This Century - Confessions Of An Art Addict,  libro che destò un grande scandalo all'epoca, grazie ai documenti confidenziali a cui ha attinto, Laurence Tacou mette in luce in questo volume  i volti contrastanti di questa donna singolare: orfana errabonda; seduttrice sempre alla ricerca del suo Pigmalione; star degli anni folli; mecenate che scoprì alcuni dei maggiori artisti suoi contemporanei; avventuriera sempre in lotta contro i pregiudizi del suo tempo; volitiva e coraggiosa nell' avversità e tuttavia fragile e romantica. 

Margaret detta Peggy, discendente da due delle più potenti famiglie ebree degli Stati Uniti (nonostante uno dei suoi nonni fosse venuto al mondo in una stalla) nasce a New York il 26 agosto 1898. 

La morte del padre Benjamin fu il primo terribile choc della sua vita. Benjamin aveva dilapidato buona parte del suo patrimonio, lasciando il grosso della fortuna dei Guggenheim nelle mani del fratello Salomon e morì da eroe durante l'affondamento del Titanic, di cui era uno dei passeggeri a bordo. 

Peggy, che ha il bernoccolo degli affari, prenderà la sua rivincita. I suoi esordi sono però difficili. Rimasta orfana a quattordici anni prova l' umiliazione di essere considerata come "la parente povera", ma non tarda a reagire. 

Spinta dalla volontà di sfuggire al suo ambiente borghese comincia a lavorare appena ventenne in una libreria frequentata da giovani artisti.
Incontrerà così Laurence Vail, drammaturgo d' avanguardia, che oscillerà poi fra letteratura e pittura. Coup de foudre immediato, ma subito l' amante scompare.

Peggy lo ritroverà a Parigi, dopo una breve avventura con un giovane russo, Fira Berenson. Insieme a Laurence si lancia allora nella bohème degli anni folli, frequentando i celebri caffè di Montparnasse e Saint-Germain-des-Prés.

E' in cima alla torre Eiffel che Laurence chiede la sua mano. La vita con colui che Peggy chiamerà "l' eterno marito" e da cui avrà due figli, Sindbad e Pegeen, sarà sempre tumultuosa. Lui le fa grandi scenate in pubblico. Un giorno, perché la moglie ha sacrificato alla moda la sua opulenta capigliatura, getta dalla finestra mobili e soprammobili, poi fugge di casa stringendo al petto la chioma recisa. I loro continui bisticci comprometteranno la loro unione.

A Saint Tropez durante un ballo, John Holmes, atletico scozzese e aspirante scrittore, bacia focosamente Peggy in presenza del marito, il quale minaccia di ucciderlo. Situazione vaudevillesca.

Peggy e il bel John fuggono insieme e vagabondano attraverso l' Europa, prima di stabilirsi a Parigi. Quando, nel 1934, Holmes muore in seguito a una caduta da cavallo, Peggy sprofonda in una grave depressione.

Sarà salvata da un' amicizia equivoca con la scrittrice Dijuna Barnes, che le dedica Nightwood, un libro ispirato agli amori saffici.

Poco dopo Peggy avrà un' altra relazione appassionata con lo scrittore Douglas Garman, editore di una rivista di avanguardia. Il guaio è che lui si converte al marxismo e si invaghisce di una militante operaia. Fine del loro amore. "Credo sia la fine della mia vita", dichiara Peggy.

Avrà però la forza di reagire impegnando tutte le proprie energie nella creazione di una galleria d' arte, ' Guggenheim Jeune' , iniziando così la sua carriera di collezionista e mecenate. Marcel Duchamp, suo consigliere artistico, la introduce negli ambienti del surrealismo e dell' astrattismo. La prima mostra, dedicata a Jean Cocteau, riscuote un immediato successo. 

La seconda lancia Kandinsky, al tempo del tutto sconosciuto.

La terza consacrerà i maggiori scultori dell' avanguardia internazionale, fra cui Brancusi, Calder, Moore e Arp. I vernissage della "Guggenheim Jeune" costituiscono sempre degli avvenimenti artistico-mondani. 

In quel periodo Peggy incontra Samuel Beckett a un pranzo al Fouquet' s. Lui la riaccompagna a casa, poi timidamente propone di accompagnarla a letto, e lei accetta. La loro relazione durerà circa un anno. L' enigmatico scrittore irlandese dedicherà alla vamp vari poemi firmati Oblomov.

Frattanto scoppia la seconda guerra mondiale. Peggy vuole allora salvare a tutti i costi dalla minaccia nazista la sua collezione di "arte degenerata".

Riuscirà a spedire negli Stati Uniti, dissimulati sotto abiti e cappotti, intere casse di preziosi Kandinsky, Klee, Picabia, Severini, Miro, De Chirico, Dalì e altri, dichiarati come "effetti personali". Poi a sua volta s' imbarca per New York con "l' eterno marito" Laurence e i figli, e il futuro marito Max Ernst. 

Il suo idillio con il pittore surrealista, cominciato come un' avventura diventa un' irresistibile passione, che li condurrà a un matrimonio, il quale non tarderà a trasformarsi in inferno. Lei considera lui come un bambino irresponsabile ed è gelosa delle sue conquiste, in particolare di Leonor Fini e di Dorothea Tanning. Lui è violento e la tratta da puttana.

La picchierà a sangue per un bacio innocente del suo amico di sempre Marcel Duchamp. Dopo aver divorziato da Max Ernst, Peggy avrà ancora una relazione col collezionista inglese Mc Pherson. Tuttavia il suo agitato percorso amoroso volge al termine, mentre si afferma il suo ruolo in campo artistico.

In piena guerra, nel 1942, Peggy apre a Parigi una nuova galleria, "Art of this Century", con una grande mostra consacrata alle opere di ben 77 artisti, molti dei quali le dovranno il loro successo (fra quelli che chiama i suoi "figliocci di guerra" figurano Robert Motherwell e Jackson Pollock, da lei scoperto quando lavorava come falegname). 

Per dimostrare la sua imparzialità fra surrealismo e astrattismo, i due movimenti che ha promosso, il giorno dell' inaugurazione Peggy accoglie i suoi invitati ostentando all' orecchio destro un orecchino che raffigura un paesaggio miniaturizzato di Tanguy e al sinistro un mini-mobile di Calder. Dopo la firma della pace, Peggy attraversa un periodo difficile. "Art of this Century" è in crisi.

Lei deve mantenere due ex mariti. Peraltro molti artisti amici sono ripartiti per l' Europa, perciò decide di chiudere la sua galleria newyorkese e andarsene anche lei per tentare una nuova avventura sul Vecchio Continente.

E' a Venezia che concreterà il suo ultimo sogno, installando i suoi tesori nel Palazzo Venier e nel giardino adiacente. Diventata cittadina onoraria della Serenissima vi trascorrerà serena gli ultimi anni, continuando ad arricchire la sua collezione, partecipando regolarmente alla Biennale di Venezia, confortata dall' amore dei suoi nipoti e dall'affetto per i suoi cani. 

Pur con tutti i limiti di un testo che appare sostanzialmente didascalico, il volume ha un enorme valore testimoniale di una meravigliosa epoca della cultura e dell'arte del Novecento, che ha influenzato l'intera storia dell'Occidente.

(Fonte: Elena Guicciardi per La Repubblica, 14 agosto 1996). 


Peggy Guggenheim. L'album di una collezionista 
di Laurence Tacou Rumney 
Octavo Editore, 1996


13/04/18

Finalmente restaurato "Novecento", il capolavoro di Bernardo Bertolucci - In Anteprima stasera a Palermo.




Finalmente restaurato uno dei capolavori del cinema italiano, "Novecento", realizzato da Bernardo Bertolucci nel 1976, con uno straordinario cast di attori tra i quali Robert De Niro e Gerard Depardieu, come protagonisti.

"Novecento", di Bernardo Bertolucci, I e II atto, sara' proiettato a Palermo, in questa nuova versione restaurata, in anteprima nazionale, stasera 13  aprile alle ore 21 e il 20 aprile alla stessa ora al Cinema De Seta dei Cantieri alla Zisa, per iniziativa della dell'associazione Lumpen, con la direzione artistica di Franco Maresco. 

Il film sara' preceduto da un'intervista inedita a Bertolucci, realizzata dalla Cineteca di Bologna

Le pellicole si potranno vedere anche il 16 e il 23 aprile, alle 21 (precedute alle 20.30 dalla presentazione di Gianmauro Costa e Dario Oliveri), al cinema Rouge et Noir. 

 "Con Novecento - spiega la direzione artistica del Rouge et Noir - avviamo un discorso sul secolo delle rivoluzioni, nel cinquantenario del '68, ideato con Panormos International Weeks di Evelina Santangelo e Paola Caridi, in collaborazione con Marina di Libri e Institut Francais, dal titolo "Rivoluzioni a fondo perduto?" che prevede altri film, mostre, dibattiti. Ai maggiorenni sara' offerto, in omaggio al tema, un Cuba Libre. 

08/12/17

"Questo non è un film su Casanova. E' un film su di me!" Donald Sutherland rivela i segreti del "Casanova" di Fellini.



In una bellissima intervista rilasciata a Paola Piacenza per Io Donna del Corriere della Sera del 2 Dicembre 2017, il grande Donald Sutherland svela alcuni retroscena molto interessanti del suo lavoro in Italia con due grandi registi come Bernardo Bertolucci e Federico Fellini.  Riporto qui a beneficio dei lettori del Blog la parte riguardante. 

Dice di aver detto no a film perché violenti, eppure non esiste personaggio più violento di quello che lei interpretò in Novecento. 

Aaaaaahhh !!! Sì sì, (in italiano). Allora, un giorno io vado da Bernardo e gli dico "Ho qui una pubblicazione underground che un amico che lavora in una casa editrice di San Francisco mi ha dato.  E' un articolo sulla psicologia di massa del fascismo. Questo voglio fare nel film: un fascista che sia un burocrate."    E Bertolucci: "No, no, deve essere un mostro".   Così per due settimane noi abbiamo girato due versioni di ogni scena, la sua e la mia. 

Mi lasci indovinare...
Bernardo ha tenuto la sua. Bernardo ha... (fa un gesto con le mani come di un uccello che si libra nell'aria, ndr). Quando poi mi ha invitato a vedere il film finito, gli ho detto: "Mi hai spezzato il cuore". 

Lei ha un corposo capitolo italiano nella sua carriera. Mi racconta come lavorò con Fellini in Casanova ?
Mi spiace, non posso. Non ne ho idea. Posso solo dirle che le prime 5 settimane sono state le peggiori della mia vita e che nei 12 mesi successivi mi sono posto tutte le domande che un attore e un uomo dovrebbe farsi. 
La mia relazione con Federico era molto problematica e lo è stata a lungo, poi improvvisamente intorno alla quinta settimana di riprese come per magia tutto ha cominciato a funzionare.  Lui sedeva sulle mie ginocchia, mi chiedeva cose impossibili e io le facevo, come stregato. 
Mia moglie mi odia quando lo dico, ma la nostra era quasi una relazione sessuale per il genere di intensità che sprigionava.
Ricordo che era venuto a trovarmi a Parma, sul set di Bernardo, ed eravamo andati via con la Mercedes che la produzione mi aveva dato. Sul sedile posteriore avevo accumulato libri su Casanova.  "Che cos'è questa roba ?" Apre il finestrino e li getta. "Che cosa fai, Federico ?" urlo io. E lui: "Questo non è un film su Casanova. E' un film su di me!"

tratto da: Sono morto tante di quelle volte... intervista di Paola Piacenza a Donald Sutherland, Io Donna, Corriere della Sera, 2 dicembre 2017, p.104. 


21/03/17

"La caduta delle utopie è la caduta stessa del futuro", Claudio Magris sull'Europa, a Berlino.




"In Europa bisogna eliminare il principio dell'unanimità perché così non si va avanti. L'unanimita' non e' un principio delle democrazie ma delle dittature". 

Lo ha detto lo scrittore Claudio Magris intervenendo all'Ambasciata d'Italia a Berlino in occasione della manifestazione Dedika 2017, organizzata dall'Istituto di cultura italiano, in concomitanza con le celebrazioni del 60mo anniversario della firma dei Trattati di Roma

"Dell'Europa colpisce un po' il tentennare, il voler conciliare tutto e il suo contrario", ha proseguito Magris sottolineando il sogno di un'Europa federale. 

"Vorrei votare il mio presidente dell'Unione e vorrei che gli Stati nazionali fossero quello che i Laender tedeschi sono per la Germania", ha aggiunto, "la tutela degli interessi nazionali non deve diventare partigiana".

"La caduta delle utopie e' la caduta stessa del futuro", ha aggiunto Magris.  Le utopie del Novecento sono state il tentativo grandioso e tragicamente fallito della politica di controllare l'economia, "oggi uno dei disastri e' il discredito dell'utopia".

Per Magris si e' "perso il senso che il mondo cosi' come e' non basta e che non va solo amministrato". 

Prevale una mancanza di visione del futuro, ha proseguito, c'e' "una terribile caduta dell'idea stessa che possa pensarsi un futuro diverso"

Per lo scrittore triestino, il disincanto necessario, il sapere come vanno le cose, va associato alla "capacita' di incantarsi", di immaginare che "le cose possano essere diverse, almeno un po'"

"I realisti sono quelli che comprendono poco la realta'", ha concluso Magris.

Nel confronto con altri popoli e altre culture, "siamo in un momento in cui dobbiamo decidere cosa accettare e cosa respingere".  Per lo scrittore triestino "bisogna unire il massimo possibile di relativismo, cioe' di apertura alle culture degli altri, con il minimo necessario di universalismo": principi irrinunciabili, come "l'uguaglianza dei diritti delle persone". 

Per Magris l'apertura alle altre culture e' necessaria, "ma un mondo in cui tutto e' permesso e' un mondo orribile".

10/01/15

Charlie Hebdo - una riflessione.


Il mondo è come sei, recita un vecchio motto sapienziale. 

Se c'è verità in questo, alla luce di quanto successo nelle ultime 72 ore a Parigi, non stiamo messi bene.  Non servivano certo le nefaste imprese dei fratelli Kouachi e dell'altro terrorista, Amedy Coulibaly, asserragliato con ostaggi nel negozio Kosher, per capire come siamo ridotti. 

E' certamente vero che il sonno della ragione genera mostri,  come scrisse Francisco de Goya e rappresentò in una sua celebre grafica (qui sopra). 

Quando la ragione dorme - laddove per ragione si intende ragionamento, tradizione, principi fondamentali, cultura, dialogo - si levano in volo gli uccelli più oscuri.  I mostri sono liberi di agire, nessuno più li ferma. 

E' per questo che la tragedia di Charlie Hebdo riguarda tutti. L'enfasi non aiuta a comprendere, il dividere tutto - come sempre - in torti e ragioni, giustificazioni e accuse, libertà e oppressioni, complotti, cause economiche, conflitti sociali, traffici d'armi, guerre sante.

Tutto vero, tutto giusto.  Ma come nell'epoca più buia del Novecento (i primi anni '30), si ha l'impressione che per il mondo si aggiri uno spaventoso morbo, che sulla pretesa della sopraffazione (di tutto e di tutti, quindi soprattutto di chi pensa ed è diverso) costruisce il suo trionfo epidemico. 

Come allora, le coscienze pensanti erano poche, le voci flebili.  Ciascuno si sentiva rintanato nel suo piccolo mondo, illusoriamente al sicuro. Ciascuno combatteva contro i propri fantasmi, sicuro che si trattasse di roba propria, e che alla fine il mondo se la sarebbe risolta da sola, la questione. 

Ma niente si risolve da solo.  Tutti siamo dentro, proprio tutti. Anche quelli che continuano a coprirsi la testa e a sonnecchiare mentre nella penombra svolazzano le creature di Goya. 

Fabrizio Falconi

27/11/14

E' l'amore che obbliga (Ricoeur).



Nel 1996 intervistai per la radio italiana Paul Ricoeur, uno dei più grandi filosofi del Novecento, nella sua casa a Parigi.

Il pensiero di Ricoeur mi aveva molto colpito per la sua limpidezza. Non è facile trovare infatti un pensiero filosofico che non sia almeno in parte oscuro, poco chiaro. 

Ricoeur confermò questa semplicità del pensiero, con i gesti della sua persona.

Parlammo per quasi un'ora, soprattutto dell'amore, dell'amore nella filosofia del cristianesimo e nella complessità delle dinamiche studiate da Freud.

A un certo punto gli chiesi ragione di quella sua celebre frase, che Ricoeur aveva ripetuto spesso nei libri e nelle conferenze.  C'est l'amour qui oblige.  E' l'amore che obbliga.

Gli chiesi di spiegarlo, se poteva, nuovamente.

Mi rispose sorridendo che quel che aveva scritto era una cosa semplice, semplicemente sperimentabile, anche se piena di conseguenze.

Viviamo, disse, sempre più in un mondo che rifugge dalle responsabilità, dal coraggio vero, da un senso e una direzione. Ed è solo il legame con l'altro che genera un senso. Il quale non può mai arrivare dall'alto.

L'amore, mi spiegò, è l'unica condizione umana in cui si sperimenta l'obbligo spontaneo, non coercitivo, non imposto dall'altro.

Chi ama è legato per sempre.

E questo legame è precisamente ciò che obbliga. Senza condizioni e senza condizionamenti.  L'unica via che in fondo porta veramente dentro se stessi. Perché solo chi si conosce, sa amare.  E solo chi riesce ad amare, attraverso l'obbligo verso l'altro, ritrova se stesso.

Fabrizio Falconi





07/07/14

Esce la prima biografia di Tiziano Terzani.




Il mestiere che ho fatto non era proprio quello del giornalista, me lo sono inventato 

Un uomo libero: questo è stato, essenzialmente, Tiziano Terzani. 

Un reporter, un viaggiatore che si è inventato una vita irripetibile, segnata da guerre, rivoluzioni, strepitosi traguardi professionali e faticose battaglie civili. 

Uno scrittore che ancora oggi dialoga con un pubblico molto vasto il quale, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, continua ad amarlo e a ispirarsi al suo modo di concepire il mondo e anche alla intensa spiritualità che caratterizza il suo intimo rapporto con la vita, la malattia e la morte.



Àlen Loreti ci consegna, con questa che è la prima vera biografia di Terzani, in libreria da domani, un racconto scrupoloso e completo testimoniato da documenti inediti e immagini private che scandiscono, anno dopo anno, un percorso esistenziale estremamente accidentato e avventuroso. 

Un viaggio nell’opera e nel pensiero di chi ha raccontato un Novecento vissuto sulla propria pelle, senza mai rinunciare a smascherare illusioni, ad ammettere sbagli, e a interrogarsi sulla bellezza e durezza del vivere. 

Una ricostruzione rigorosa nella quale rivivono la voce, gli incontri e la straordinaria, intrepida umanità di un grande interprete del nostro tempo. 


Àlen Loreti (1978) è curatore dell’edizione delle opere di Tiziano Terzani nei due volumi de “i Meridiani”, Tutte le opere 1966-1992 e Tutte le opere 1993-2004 (Mondadori 2011). 

Nel 2012, in seguito alla donazione della biblioteca del viaggiatore fiorentino, ha pianificato e diretto il primo convegno internazionale di studi, Tiziano Terzani: ritratto di un connaisseur, promosso dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. 

È inoltre curatore della selezione dei suoi diari dal titolo Un’idea di destino (Longanesi 2014). www.librimondadori.it

31/05/14

D.H.Lawrence si ispirò ad un'italiana per l'Amante di Lady Chatterley?


D.H.Lawrence

Una delle eroine piu' famose e turbolente della letteratura inglese era in realtà una donna italiana molto emancipata vissuta negli anni Venti. 

Lo scrittore britannico D.H. Lawrence, per concepire il personaggio di Connie, protagonista nel suo celebre romanzo 'L'amante di Lady Chatterley', si sarebbe ispirato a Rina Secker, moglie del suo editore, Martin Secker. 

Rina Secker


Lo afferma un nuovo libro dell'autore Richard Owen, dal titolo 'Lady Chatterley's Villa'. Secondo il Daily Mail, sono stati scoperti molti parallelismi fra Connie e Rina, a partire dall'insoddisfazione coniugale che accomunava le due. 

La moglie di Secker, inoltre, trascorse lunghi soggiorni lontano dal marito e si dice che abbia avuto molte avventure extraconiugali, ricordando in questo Lady Chatterley. 

Fu la stessa moglie di Lawrence, Frieda, a dire in pubblico: "Rina, mia cara, Lady Chatterley sei tu". 

Il romanzo, scritto in Toscana, venne pubblicato nel 1928 per la prima volta a Firenze, ma da subito bandito per il suo contenuto esplicito e uscì in Gran Bretagna solo nel 1960. 

la prima edizione di Lady Chatterley

28/01/14

Esce domani in libreria '1910' di Thomas Harrison. Un anno cruciale per l'Occidente.






Esce domani in tutte le librerie 1910, L'emancipazione della dissonanza, per Editori Riuniti. Finalmente tradotto in Italia un libro originalissimo che affronta i dilemmi della contemporaneità da una prospettiva completamente nuova, muovendo i passi dalle vicende di un secolo fa. 

Il 1910 non è un anno come gli altri per il mondo occidentale. 

Manca meno di un quinquennio allo scoppio della prima guerra mondiale e l’apparizione nei cieli d’Europa della cometa di Halley sembra preannunciare la tragedia che decreterà la crisi di un’intera cultura. 

In quegli anni arte, filosofia, musica e letteratura rivelano con nuova crudezza le ossessioni e le paure dell’uomo contemporaneo, di cui Thomas Harrison mostra la traumatica gestazione attraverso le vicende esemplari di intellettuali e artisti come Kandinsky, Schiele, Kokoschka, Lukács, Rilke e Schönberg. 

Spostandosi tra Germania, Italia e impero asburgico, l’autore si sofferma sulla complessa figura di Carlo Michelstaedter, poeta, pittore e filosofo di Gorizia che si toglie la vita proprio nel 1910, a soli ventitré anni. 

La tesi di laurea La persuasione e la rettorica, lascito filosofico cui il saggio rivolge particolare attenzione, fu terminata il giorno stesso del suicidio e costituisce un’emblematica dichiarazione di morte della vecchia Europa. 

La percezione di una metafisica conflittuale e l’ossessione universale per la malattia e la morte, la ricerca di un’espressione autentica dell’anima e il perseguimento di un’etica del sacrificio sono temi che accomunano tutti i pensatori e gli artisti del 1910: una ricerca intellettuale brutalmente messa a tacere dalla guerra ma con cui, cento anni dopo, ci troviamo ancora a dover fare i conti.  




Thomas Harrison è professore ordinario alla University of California di Los Angeles, dove dirige il dipartimento di italianistica. 
Insegna e scrive di argomenti di cultura e filosofia moderna, musica, comparatistica e storia intellettuale. 
Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato The Favorite Malice: Ontology and Reference in Contemporary Italian Poetry (Out of London Press, 1984), Nietzsche in Italy (Anma Libri, 1988) ed Essayism: Conrad, Musil and Pirandello (The Johns Hopkins University Press, 1991).

02/09/13

Carlo Cassola, un autore dimenticato.


In tempi in cui è così difficile fare critica letteraria in Italia - pochi che leggono, pochissimi che posseggono gli strumenti della critica, ancora di meno che ricordano, può essere indicativa la vicenda di Carlo Cassola, nato a Roma il 17 marzo 1917, un narratore oggi sparito - o quasi - dalle librerie e che pure conobbe un grande successo commerciale, il che gli attirò le furie della critica di allora, che invece pretendeva di decidere tutto - oggi non decide più niente - e di stabilire una volta per tutte i valori assoluti in un campo scivoloso come quello della produzione letteraria.

                                       
(Carlo Cassola con Pasolini)

Cassola, riletto oggi sembra molto meno ingenuo di come appariva allora (implacabilmente impallinato da Calvino e soci) e soprattutto messo a paragone con molta della narrativa che si fa e si stampa oggi in Italia, appare perfino un gigante.

Questo è il ritratto che traggo dal sito Italialibri, forse una occasione per tornare su un autore oggi quasi del tutto dimenticato.

Carlo Cassola nasce a Roma nel 1917. La madre è originaria di Volterra mentre il padre è lombardo, ma vissuto a lungo anch’egli nella cittadina toscana. E infatti, proprio la Toscana, in particolare la Maremma, diventerà la patria poetica e spirituale dello scrittore, che vi si trasferirà nel ’40, partecipandovi anche alla Resistenza.

L’attività letteraria era già cominciata negli anni ’30: tra il ’37 e il ’40 Cassola aveva composto una serie di brevi racconti, in parte pubblicati sulle riviste «Meridiano di Roma» e «Letteratura» e poi raccolti in un volume dal titolo La visita. 

Dopo l’interruzione della guerra, durante la quale il lavoro di scrittura era stato quasi completamente interrotto, Cassola si dedica con continuità alla narrativa, affiancata all’insegnamento di filosofia in un liceo di Grosseto. Pubblicò i racconti lunghi Baba (1946), I vecchi compagni (1953), Fausto e Anna (1952), tutti di argomento partigiano e ambientati in quel particolare paesaggio letterario che per Cassola fu la zona compresa nel triangolo Volterra - Marina di Cecina - Grosseto: una terra arida, avara, crudele, che nelle pagine dei suoi romanzi diventa un simbolo della condizione umana, quasi un “correlativo oggettivo” della fatica di vivere.

 (Carlo Cassola)

Lo ha detto in modo efficace il poeta Mario Luzi quando, riferendosi allo sfondo geografico dell’opera di Cassola, afferma: «Per affetto e per organica intelligenza di poesia, Cassola ne ha fatto non una provincia, e sia pure la sua provincia, ma un luogo, anzi il luogo dell’anima».

Con il racconto lungo Il taglio del bosco, scritto tra il ’48 e il ’49, ma pubblicato nel 1954, la prosa cassoliana si allontana dalle tematiche storiche per assumere un tono più dimesso e intimistico, che rimarrà tipico dell’autore anche nella sua produzione successiva.

Cassola mette a punto la sua poetica del “realismo subliminare”, ossia uno sguardo letterario attento a cogliere le vibrazioni più sottili e umbratili della realtà, spesso nascoste dalle apparenze banali del quotidiano, relegate «sotto la soglia della coscienza pratica» ma che racchiudono il significato vero e profondo della vita umana.

In questa sua ricerca, Cassola tende ad isolarsi dal panorama letterario italiano, riconoscendo il suo unico maestro in Joyce, particolarmente nel Joyce di Gente di Dublino. «In Joyce — dice — scoprii il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della vita che per me erano sempre stati i più importanti e di cui gli altri sembravano non accorgersi nemmeno» .

Questo netto distacco dal naturalismo tradizionale segnerà d’ora in poi tutte le opere dello scrittore, determinando anche una nuova visione della storia, considerata sempre meno come il teatro di grandi eventi e di ideali alti, ma piuttosto sempre proiettata nella dimensione interiore e privata dei soggetti che in essa si trovano a vivere, spesso loro malgrado.

Così, se Il soldato (con cui Cassola vince il Premio Salento nel 1958) tratta il tema della solitudine e dell’elegia amorosa, nella raccolta di racconti La casa di Via Valadier (1956) il motivo politico si colora di forti implicazioni esistenziali, in un quadro che all’elemento storico contingente, si tratti della condizione operaia (come nel racconto Esiliati) o della caduta degli ideali della Resistenza (come nel racconto eponimo dell’intera raccolta), sempre viene anteposto lo stato d’animo che ne scaturisce, spesso segnato da un senso di inerzia ed abbandono dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. In questa scia si viene a collocarsi anche il romanzo La ragazza di Bube, pubblicato nel 1960 ed insignito del Premio Strega.

Le scelte poetiche di Cassola non mancarono di suscitare numerose ed accese polemiche, e si attirarono a più riprese l’accusa di sfuggire all’impegno letterario e civile rifugiandosi in un vuoto lirismo e in un realismo facile, idilliaco, privo di conflitti. Rimangono emblematiche le parole a cui ricorse un Calvino particolarmente caustico per rispondere ad alcuni interventi di poetica pubblicati da Cassola sul «Corriere della Sera»: «La poetica dell’ineffabilità dell’esistenza è e resterà legata a esperienze individuali rare, a particolari congiunture storiche. Cassola dice che ha trionfato: non si rende conto che questo trionfo è una sconfitta? Cosa può voler dire questo trionfo, oggi? Romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto dei sentimenti ricucinati».

Nonostante l’animosità a volte carica di acrimonia evocata dalla sua opera, il lavoro di Cassola si mantenne fedele alla propria poetica chiusa, minimale e volutamente astorica, anche nella produzione degli ultimi anni che, tra romanzi e racconti, si mantenne regolare e costante:

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01/02/13

Abbandonati in braccio al buio - Antonia Pozzi.






Abbandonati in braccio al buio
monti
m’insegnate l’attesa:
all’alba – chiese
diverranno i miei boschi.
arderò – cero sui fiori d’autunno
tramortita nel sole.

E’ una delle ultime poesie di Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938), senza indicazioni di data precisa, nelle quali si individua il sogno di un’altra vita, quello che sembra pervadere lo spirito di uno dei più grandi poeti italiani.

L'attesa di quei monti, di quei boschi che diventano chiese. Allo stesso modo di queste cose sorelle, anche Antonia diventa un cero sui fiori d’autunno. La sua vita, brevemente consumata, si rende eterna in un sacrificio di luce.

Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite, scrive Antonia nel suo biglietto di addio.

E’ probabile che l’essere vissuta in un periodo così estremo, nel pieno di rivolgimenti drammatici, abbia giocato un ruolo nella sua decisione finale. 

 Ma, nel mistero di una fine violenta e prematura – che la accomuna a molte poetesse e poeti del novecento, Ingeborg Bachmann, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, e poi Paul Celan, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter – c’è, in Antonia, nella sua intera opera poetica e ancora di più nella sua sofferta esistenza, un soffio di consapevolezza sacra.


Fabrizio Falconi

25/10/12

Tutto quello che un genitore può sbagliare - La 'Lettera al Padre' di Franz Kafka.




E' ancora oggi arduo giungere fino alla fine della lettura della 'Lettera al Padre', scritta da Franz Kafka - e mai consegnata al suo destinatario - nel 1919. 

Sono soltanto una cinquantina di pagine nelle quali lo scrittore praghese - all'epoca 36 enne - esprime lucidamente e ferocemente (ma con estrema pacatezza e perfino con molta compassione)  i suoi sentimenti al padre, quell'Hermann Kafka, morto pochi anni dopo, nel 1931 (sette anni dopo il figlio), ricco commerciante ebreo, padre dello scrittore. 

Sono pagine terribili perché - con lo strumento della sua grandezza di scrittore e con la sua perspicacia analitica - Franz traccia il profilo di una educazione devastante, di una figura di riferimento, autoritaria, tracotante e onnisciente che produrrà effetti nefasti sul bambino prima e sull'adolescente poi impedendogli di giungere ad una maturazione adulta, al compimento della propria personalità. 

E' una lettura, dicevo, impressionante, che pure ognuno, ognuno che si appresta a diventare padre o che è già, dovrebbe leggere con attenzione e meditare a lungo. 

Questo uomo, Hermann, così risoluto nelle sue certezze e così insensibile ai danni che procura alla formazione del carattere del figlio - per sempre minato nelle sue convinzioni, nella fiducia in sé, nello spirito con cui affronterà la vita e il mondo - viene così descritto nelle ultimissime pagine della lettera:  tutto ciò che io ho individuato in te, e tutto insieme, buono e cattivo, come è fisiologicamente riunito in te, quindi forza e disprezzo del prossimo, buona salute e una certa smodatezza, talento oratorio e inadeguatezza, fiducia in sè e insoddisfazione verso gli altri, senso del dominio e tirannia, conoscenza degli uomini e diffidenza verso la maggior parte di essi...  

Hermann demolisce ogni certezza o attitudine del figlio, individuandone i macroscopici e imperdonabili difetti nella sua inadeguatezza fisica, nel suo scarso impegno, nella sua incapacità materiale nel fare le cose, nella astrusa propensione per lo scrivere, nella incapacità totale di scegliersi una donna e di formare una famiglia. 

In fondo Hermann, senza saperlo, mette in scena un intero catalogo di tutto quello che si può sbagliare nella educazione di un figlio. 

Questo, paradossalmente, incoraggerà il talento del giovane Franz che diverrà - quasi senza volerlo, lasciando perfino scritto di "bruciare" tutti gli scritti dopo la morte (disposizione per fortuna non eseguita dall'amico Max Brod)  - uno dei più grandi scrittori del Novecento. 

E questa è una grande lezione. Anche dalla terra arida, dal deserto individuale nel quale si è costretti a vivere e a svilupparsi, anche senza nessuna cura spirituale o solidale (prima ancora che parentale), possono sorgere fiori duraturi e meravigliosi. 

Fabrizio Falconi