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14/08/22

Alla disperata ricerca di una identità: Chi sono?

 


"Sono alla disperata ricerca di una identità". Potrebbe essere questa la frase simbolo dei nostri anni. 

Il problema è che l'Occidente ha del tutto tradito le sue origini del Conosci te stesso di Delfi, sul quale ha costruito la sua intera storia da Odisseo a Dante fino a Baudelaire. 

Conosci te stesso significava che nessuna identità è possibile, se non si viaggia dentro se stessi, alla scoperta di sé stessi (cioè della propria anima). 

Questo viaggio per vari e diversi motivi primo fra tutti il fatto che comporta sofferenza e attraversamento di territori oscuri - nessuno vuole più farlo

Oggi l'occidentale galleggia su bolle d'aria e preferisce tentare di darsi una identità interpretando a caso dei ruoli, intercambiabili. 

Ma, come insegna tutta la letteratura del Novecento, non è indossando maschere che si assumono vere identità. 

Nella baraonda del carnevale ci si diverte pure ma quando arriva il mercoledì mattina si è ancora più soli e ancora più ignoti a se stessi. 

Crescere costa fatica, vivacchiare no. 

Crescere vuol dire cambiare, vivacchiare vuol dire rintanarsi nella comfort zone dello status quo.

Fabrizio Falconi - 2022 



21/04/22

"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot


 

Aprile è il più crudele dei mesi: uno dei più celebri incipit della poesia mondiale è anche - non del tutto stranamente, viste le capacità profetiche di T. S. Eliot - incredibilmente attuale. 

Lo sono i versi che introducono La Terra Desolata (The Waste Land) e tutto il poemetto pubblicato nel 1922, una delle pietre miliari della poesia del Novecento. 

Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era con la moglie in Svizzera, a Losanna, dove fu ricoverato per problemi di instabilità psichica, in seguito ad un forte esaurimento nervoso

Il poeta veniva da un periodo durissimo: alla crisi personale - e relazionale con la moglie - si legava la sofferenza psichica conseguente agli eventi catastrofici del primo conflitto mondiale. 

La "terra desolata" è contemporaneamente la terre gaste (terra guasta) dei poemi epici medievali, cioè un territorio privo di vita, sterile e mortale che devono attraversare i cavalieri per arrivare al Graal (uno dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, contrassegnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà occidentale, giunta forse al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale, terminata neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto, era stata vissuta da Eliot come un'inutile e folle strage che aveva dilapidato milioni di vite e portato quasi alla bancarotta le grandi nazioni europee. 

La "terra desolata" è infine anche Londra, città dove Eliot risiedeva, e nella quale ha ambientato alcune scene del poemetto 

Tra le molte voci narranti che intervengono nel poeta, quella di Tiresia, che funge da alter ego del poeta, ma è al tempo stesso il personaggio ripreso dall'Odissea di Omero: Tiresia, che tutto ha visto e tutto sa, funge in più punti da disincarnato e distaccato narratore. 

L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non stimava affatto Conrad e che intervenne drasticamente a "tagliare" The Waste Land su richiesta dell'amico, dissuase il poeta: fu così che il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon, in ogni caso assai adatto.

La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per gli oracoli enigmatici. La sua aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire: il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita - secondo Petronio - divenne un'agonia di noia, poiché essa, rinsecchita e chiusa in un'ampolla, veniva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. 

La citazione dal Satyricon recita, in un misto di latino e greco:

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”». 

E cioè: «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

Se il mondo è una Terra Desolata - per causa principale dell'uomo, che è un distruttore (distruttore peraltro anche della natura, nonostante la natura possa vivere benissimo senza uomo, ma non viceversa) - la scelta estrema è quella di non giocare al gioco degli uomini, quindi morire. 

Eliot, già l'anno dopo, prenderà le distanze da una interpretazione così cupa del suo poemetto, ma quel che è certo che in The Waste Land sono configurate con esattezza insuperabile - perché poetica - i frutti velenosi piantati dalle guerre passate e presenti e di quelle future, nel cuore della Terra degli uomini.


in testa: una illustrazione di Noah Reagan 

19/06/20

Incredibile scoperta: Il "Volto Santo" di Lucca è la più antica scultura lignea di tutto l'Occidente .



Le indagini diagnostiche con il carbonio 14 fatte per la prima volta sul celebre Volto Santo di Lucca hanno dato un risultato eclatante: l'opera e' databile tra l'VIII e il IX secolo.

E' la conferma, si spiega, che si tratta del primo e unico Volto Santo, che un antico testo creduto leggendario affermava essere arrivato a Lucca nel 782 d.C. e non di un'opera del XII secolo, replica di un originale piu' antico andato perduto, come gli studi di storia dell'arte ritenevano finora. 

Alla luce dei nuovi dati, il Volto Santo di Lucca e' la piu' antica scultura lignea dell'Occidente. 

L'indagine diagnostica e' stata avviata per le celebrazioni per i 950 anni dalla rifondazione della Cattedrale lucchese. 

L'opera e' una delle icone piu' venerate della cristianita': il suo culto nel Medioevo si estese a tutta Europa. 


25/12/17

"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale". L'intervista di Massimo Cacciari a Huffington Post.


Huffington Post Italia online ci fa un bel regalo di Natale, offrendoci una intervista a Massimo Cacciari sui temi del Natale cristiano e su ciò che di esso è rimasto nel nostro tempo. 
La parola del Vangelo l'ha ascoltata fuori dal tempio: "Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l'opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: 'Chi credete che io sia?'". Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: "Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione".
Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d'elefante, Marcuse, l'eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: "Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – "Quaderni Rossi", "Contropiano" – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche". Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: "Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto". Nel suo libro, "Generare Dio" (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell'incarnazione di Dio c'è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l'Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento.
Invece?
Quando l'Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall'angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull'ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina.
Nessuno se n'era accorto prima?
Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Balthasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio.
Cosa riesce a mostrare?
Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l'incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all'ascolto è in realtà un'iper libertà.
Perché iper?
Quando – nel giardino dell'Eden – Adamo mangia il frutto dell'albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s'interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell'altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall'amor proprio?
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l'oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?
Possiamo riuscirci?
Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s'incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l'anti cristiano Nietzsche: nell'impossibile.
Ma se è impossibile, perché provarci?
Perché l'impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L'impossibile è l'estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità.
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: "È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché dovremmo farlo?
Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo.
Come lo definirebbe?
Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d'Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell'ombra?
È tutto davvero così esposto?
Al contrario. Quella della trasparenza è solo un'ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell'apparenza, la nostra è l'epoca dell'occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d'ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l'oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell'anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato.
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c'è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere.
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo.
Anche il Papa?
Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l'etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l'assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti.
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
Perché anche loro – benché protagoniste dell'ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell'incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c'è oltre.

03/12/16

Complessità del Buddhismo e semplificazioni occidentali.



Negli ultimi decenni si è assistito ad una diffusione del buddhismo in Occidente in una versione che l'Occidente - non so quanto consapevolmente o meno - ha notevolmente semplificato, rischiando di trasformare la teoria e la pratica millenaria del buddhismo in qualcosa di molto simile ad una disciplina new age

Addirittura ho sentito ripetere spesso che il buddhismo, rispetto al Cristianesimo, è molto più semplice (!) e immediato. Credo che ciò dipenda, come sempre, da una mancanza di approfondimento e di consapevolezza delle cose. 

Credo che questo breve passaggio del libro di Hervé Clerc, Le cose come sono (Adelphi edizioni, 2015), aiuti a rimettere un po' d'ordine. 

Se il nirvana è un'esperienza universale, il buddhismo è una creazione indiana. A immagine dell'India, delle sue città, la sua vegetazione, le etnie, le lingue, gli dèi, il suo miliardo di abitanti e altrettante contraddizioni, il buddhismo prolifera in modo anarchico in una giungla di sutra che nessuna tasca potrà mai interamente contenere. 

Il cristianesimo, religione del Verbo, si propaga grazie ai testi, il buddhismo malgrado i testi. 

In totale il Buddha avrebbe comunicato ai suoi discepoli 84.000 insegnamenti, afferma suo cugino Ananda, uomo dotato di una memoria fenomenale, che nessuno poteva guardare senza provare un immediato sentimento di gioia (Mahaparinirvana sutra). 

Questi insegnamenti sono contenuti o piuttosto arginati nei tre canoni. 

Il solo canone pali, nella dotta edizione della Pali Text Society, comprende 57 volumi, indici inclusi. 

Il canone tibetano Kangyur ne contiene un centinaio. 

Secondo Arthur F. Wright il canone cinese presenta da solo 74 volte la lunghezza della Bibbia. 

Nessuno quindi, conclude Clerc, può pretendere di possedere una conoscenza esaustiva di questo continente.

16/06/15

Immigrati, un esodo biblico. La nostra Nemesi.



La tragedia che si svolge sotto i nostri occhi ogni giorno ora, ha un nome preciso: Nέμεσις, Nèmesis. 

Queste migliaia che vengono da noi ora con i loro stracci, reietti, additati come portatori di scabbia e altri castighi biblici, sono i figli dei figli di coloro che l'uomo bianco ha affamato e reso schiavi per secoli, da quando i galeoni della Nuova America portarono in catene quei figli d'Africa, a milioni, da quando le grandi potenze europee si spartirono un bottino che sembrava infinito, senza alcuna pietà, riducendo un meraviglioso continente ad una tabula rasa, spargendo guerre e inimicizie, affondando le avide mani, sradicando popoli interi dai loro riti e dalle loro culture millenarie. 

Per Nemesi, ora, queste masse di diseredati che non hanno più nulla alle loro spalle vengono e verranno ad esigere il nostro domani. 

Ciò non è detto per pacificare coscienze. Tutt'altro. Il fatto che noi non si sia direttamente responsabili di ciò che succede dall'altra parte del Mediterraneo (ma è poi vero ?) non assolve e non concede alibi. 

Getta semmai, valutando le desolate immagini di questo esodo oramai biblico, qualche ombra lunga sulla smisurata presunzione di una Civiltà progressista, in progresso, quasi come se la Storia non avesse insegnato nulla.

E' forse bene allora rileggere queste considerazioni di C.G. Jung in Tipi psicologici, p.152.

Proviamo a dar via libera agli istinti dell'uomo civilizzato ! Per gli esaltatori entusiasti della civiltà, non ne sgorgherà altro che bellezza. Questo errore non è che il frutto di una profonda ignoranza psicologica. Le forze istintuali compresse nell'uomo civilizzato hanno un'enorme potenza distruttrice e sono assai più pericolose degli istinti dell'uomo primitivo, il quale vive costantemente in misura modesta i propri istinti negativi. Per questo motivo nessuna guerra del passato supera in orrore le guerre tra nazioni civili. 

Fabrizio Falconi

in testa: La Nemesi alata, armata di spada e clessidra, in un quadro di Alfred Rethel del 1834

30/04/15

Londra, 17 anni dopo.




Mancavo da Londra dal 1997

Erano altri tempi, si viaggiava liberi, si viaggiava soli. Ma, diciassette anni dopo ho trovato una città molto cambiata. 

Londra è ormai il Regno dell'Opulenza. 

La ricchezza è esibita senza discrezione. Londra è ormai accessibile - per vivere, ma fra poco anche per viaggiare - solo per i redditi alti o altissimi. 

Il centro della città è stato colonizzato da arabi e russi.  Mai vista una tale concentrazione di auto di lusso. 

Londra, intendiamoci è sempre meravigliosa.  Ma è come se stesse subendo un processo simile a quello di Venezia: una città-museo, un tributo perpetuo alla immutabile tradizione britannica (che si vende così bene nel mondo), però piuttosto svuotato di anima, cioè di vita vera, quotidiana (anche a Venezia la vita vera, quotidiana, esiste ancora, ma è ormai una sparuta minoranza di esseri umani che per necessità e convenienza, oppure per semplice resistenza, vive ancora lì). 

Visitando Londra si capisce anche meglio il fenomeno dei figli di seconda o terza generazione, musulmani, che negli ultimi tempi, hanno lasciato l'Inghilterra - parlando la lingua perfettamente, vestendosi come i ragazzi di Londra, ascoltando la loro musica - per arruolarsi nelle file dell'Isis e andarsi a fare ammazzare o ammazzare in Medio Oriente. 

La frustrazione di appartenere ad una città-nazione (Londra) dove i beni sono accessibili a pochissimi, dove tutto è esibito, ma non disponibile (per questione di redditi, potere economico), dove con poche fermate di Tube si può, provenendo dai più lontani e umili sobborghi, girovagare per Harrod's, una specie di regno di Bengodi, dove però si può vedere e non toccare, dove si è sostanzialmente esclusi, questa frustrazione funziona evidentemente da detonatore (lungi dall'essere un alibi) di rabbie personali, che trovano rifugio al cospetto di ideali di rivendicazione religiosa ed etico-religiosa. 

Insomma, una visita a Londra spiega molto dell'oggi. 

E negli occhi, il colore del magnifico cielo di Londra, azzurro smagliante o grigio-piombo getta diversi semi di inquietudine. 


Fabrizio Falconi  

24/03/14

Dürer, Schiele, Mapplethorpe, l'arte di mettersi a nudo.


Non è un caso che è a cavallo tra '800 e '900 che si giunge, nei diversi campi dell'arte umana alla dissoluzione di quella immagine apollinea della realtà - e dunque anche dell'uomo - che in Occidente, dalla lezione dei grandi padri greci, fino all'esplosione dell'Umanesimo e del Rinascimento, e oltre ancora, avevano ribadito la fede dell'uomo nella conoscenza.  Nella sua capacità di com-prendere il mondo e dunque anche se stesso. Categorizzando, analizzando, dividendo, studiando, classificando.
Il pensiero filosofico, in quel periodo di passaggio cruciale, tra '800 e '900, prima della esplosione terminale del primo conflitto mondiale, rovescia in Occidente questo convincimento.
Nietzsche a ventotto anni, nella Nascita della Tragedia, 1872, teorizza il ritorno allo spirito originario del pre-socratismo, nel quale Dioniso e Apollo, la notte e il giorno, la realtà metafisica e la realtà dell'apparenza, il dolore del conflitto e la pace dello spazio-tempo, il molteplice del principium individuationis e il molteplice della lotta, tornano a convivere, non più separati.

Cambia anche lo sguardo dell'uomo, su se stesso. 
Nell'arte, l'uomo e l'artista, sono finalmente nudi. Senza idealizzazioni, senza fingimenti, senza proporzioni, senza costruzioni. Pura evidenza. 
Una operazione già tentata, genialmente, da Albrecht Dürer, quasi quattro secoli prima, in un celebre autoritratto-verità, di modernità sconvolgente. 


Albrecht Dürer, Autoritratto nudo, c.1503, Penna e pennello, inchiostro nero con biacca su verde preparate carta, 290 x 150 millimetri, Schlossmuseum, Weimar.


L'esempio antesignano di Dürer, viene ripetuto, in quegli anni cruciali, con ulteriore crudezza e senso dell'essenziale da artisti attratti dalla dissonanza, risucchiati dalla possibilità/necessità di spezzare la forma - anche quella del proprio involucro umano - per esporre quello che c'è dentro: la solitudine, la nudità, la pura essenza, l'ombra del dionisiaco e il sogno dell'apolinneo, ciò che convive nello spirito di ciascun essere umano. Così si ritrae dunque Egon Schiele, in uno dei suoi forsennati autoritratti-verità.

Egon Schiele, Autoritratto nudo, 1917, Albertina, Vienna.

Un cammino di ricerca e di scandaglio personale che prosegue per tutto il Novecento fino ai giorni nostri, in forme sempre più esplicite ed estreme.
In fotografia, Robert Mapplethorpe, compie su di sé delle vere e proprie autopsie-viventi. X-portfolio è la sua opera-shock in cui ritrae anche se stesso in ogni tipo di posizione e atteggiamento della estesa casistica sado-maso. Di qualche mese prima è questa foto del 1975. 
Mapplethorpe si mostra nascondendo quello che non serve.  Mostra il suo braccio teso, in un atteggiamento che ricorda da vicino una moderna crocefissione. La purezza dell'immagine è caravaggesca.  Robert sorride, è forse l'unica foto nella quale lo si vede sorridere. Eppure è un sorriso pieno di ombre.  La purezza e bellezza apollinea della forma già si confonde con il cuore dionisiaco che non vuol saperne di restare nell'ombra, e troverà le sue strade. 
Il braccio proteso sembra quello dipinto da Caravaggio, ne La vocazione di San Matteo.  Una chiamata rivolta all'ombra.  Dalla luce provvisoria, già calante.  Come il genio di Merisi, Mapplethorpe condivideva dentro di sè il discorso di Apollo e l'ebrezza di Dioniso. Entrambi vivevano in loro. Entrambi in loro si mostravano


Robert Mapplethorpe (1946-1989), Autoritratto nudo, 1975. Polaroid print (40.6 x 50.8 cm).


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata 

13/01/13

La perdita delle radici, l'abbandono della tradizione e il manicomio contemporaneo. - C.G.Jung.





Il mondo ci appare impazzito. 

Nessuno sembra aver più in mente punti di riferimento e l'impressione generale è quello di una deriva complessiva - almeno in Occidente - dentro la quale nessuno sembra in grado di orientarsi. 

Ma a cosa si deve tutto ciò. 

Una delle risposte forse più convincenti la fornisce, in poche righe, Carl Gustav Jung, in uno dei suoi grandiosi saggi, Aion. 

Leggiamo.

L'attuale tendenza a distruggere, a rendere inconscia ogni tradizione, può tuttavia interrompere per centinaia di anni il normale processo di evoluzione e sostituirlo con un intervallo barbarico. 

Là dove ha predominato l'utopia marxista, questo è già avvenuto, scrive Jung, ma, aggiunge, anche una formazione prevalentemente tecnico-scientifica, tipica per esempio degli Stati Uniti, può provocare una regressione spirituale e quindi un notevole incremento della dissociazione psichica. 

Igiene e prosperità non bastano perché l'uomo sia sano; altrimenti gli uomini più ricchi e più illuminati starebbero meglio degli altri.  Invece, per quanto riguarda le nevrosi, le cose non stanno affatto così, ma al contrario. 

La perdita delle radici e l'abbandono della tradizione nevrotizzano le masse e le predispongono all'isteria collettiva.  E questa richiede una terapia collettiva consistente nella privazione della libertà personale e del terrore.   

Là dove predomina il materialismo razionalistico (invece), gli Stati tendono a diventare non più prigioni, ma manicomi. 

Ed è quello, ahimè, che stiamo sperimentando, credo. 

Tratto da Carl Gustav Jung, Aion, traduz e cura di Lisa Baruffi, Bollati Boringhieri, 1982, pag.170. 




19/09/11

Dieci luoghi dell'anima - Introduzione.



Chiunque di noi ha sperimentato, almeno una volta, giungendo in un luogo sconosciuto, di avvertire dentro il cuore, senza apparente motivo, una inspiegabile sensazione di familiarità, conoscenza, pace. Non ho usato questi termini casualmente: familiarità, conoscenza, pace.

Sono i paradigmi che ciascuno non si stanca di ricercare nel cammino della propria vita. E sperimentabili tutti e tre insieme soltanto per brevi illuminazioni, istanti di pienezza che si cerca di afferrare e tenere stretti, prima che, sfumando, si allontanino. Quando analizziamo i motivi dell’incantesimo che un luogo ci ha suscitato accogliendoci, tiriamo in ballo i ricordi dell’infanzia, le similitudini, le aspettative, le caratteristiche tipiche, le proporzioni, le forme, i colori.

Ma non è soltanto questo, io credo, che ci ha portato a sentire quella conoscenza, quella familiarità, quella pace. Andrej Tarkovskij, il grande regista russo, avvertiva, nei suoi diari: L’unica funzione della nostra coscienza è quella di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. La coscienza, sottende Tarkovskij, ci costringe sempre al distinguo, alla differenziazione, al ragionamento, all’opportunità, al calcolo.

Tutti aspetti che difficilmente si coniugano con la familiarità, con la pace e con quella conoscenza vera, intima che - sembra dirci uno dei registi del Novecento considerato più vicini allo spirituale, al sacro - si manifesta, accade, soltanto quando si spengono o si attenuano i gangli della nostra onnipresente coscienza, e lasciamo parlare il nostro cuore, la nostra anima. Per Tarkovskij, i due termini sembrano sinonimi: ma sappiamo che sulla distinzione tra ‘cuore’ e ‘anima’ si è discettato da sempre, in filosofia, in teologia, in mistica. E così (pensiamo a Santa Caterina da Siena), il cuore è stato identificato come la parte più autentica della personalità umana, quella parte che corrisponde al ‘sentimento’, quella “da cui sorgono le lacrime”, ed ogni esperienza emotiva.

Nella definizione di ‘anima’ per come è stata approfondita in psicologia, dagli studi a partire da Jung, c’è qualcosa di più: James Hillman, ricostruendo la storia di questo concetto, che parte dal genius dei latini, per attraversare il daimon dei greci e l’angelo custode dei cristiani, approda ad una definizione ‘larga’ di anima che contiene quel che di ineffabile è contenuto in ogni individuo umano. Quel che non si spiega con il materiale biologico ereditato, geni e cromosoma. 

Quella parte di noi, che noi – non sapendo definire meglio – chiamiamo con i più diversi nomi: ‘carattere’, ‘destino’, ‘predisposizione’, ‘vocazione’, e tanti altri. Quel ‘quid’ che fa di noi un essere unico e irripetibile. Io e voi,- scrive Hillman ne Il Codice dell’Anima - e chiunque altro siamo venuti al mondo con una immagine che ci definisce. Una immagine che ci definisce. E che dunque, è già definita. E se la nostra immagine, cioè la nostra anima, ha un ‘codice’ già pre-costituito, questo ‘codice’ non fa che interpretare – durante tutta la vita fisica su questa terra - i segnali dell’esistenza: incontri, persone, emozioni, esperienze personali, tutto viene filtrato dal linguaggio della nostra anima, sempre alla ricerca di qualcosa che possa essere ‘riconosciuto’ e ‘ricollegato’ ad una essenza che sembra precedere ogni altra acquisizione cognitiva. Questa parte del nostro essere - l’anima - rappresenta anche in termini cristiani, quel ‘ponte’ con lo spirito, quella parte che attraverso un ‘riconoscimento’ che non è dei sensi, ci mette in contatto con lo spirito universale della creazione.

 Il Dio della Pace – scrive San Paolo - vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo. (Tes, 5,23). Anima, quindi, come ‘ponte’ tra corpo – cioè vita fisica – e spirito – cioè vita eterna. Questi concetti apparentemente astratti ciascuno di noi li sperimenta quando, senza rendercene neanche conto, incontriamo qualcuno che – non sappiamo spiegare perché – colpisce la nostra vita in modo indelebile. 

 “L’ho vista, e appena l’ho vista ho capito che era la donna della mia vita.” “Appena l’ho conosciuto ho capito che era una persona speciale, e che mi potevo fidare del suo carisma.” Non sono i sensi a dirci queste cose. E’ la nostra anima, che ha ‘riconosciuto’ qualcosa. Le anime si riconoscono anche se non si parlano. E allo stesso modo, io credo, vi sono luoghi che possiedono capacità di parlare alle anime, proprio alla nostra anima e in quel momento, oltre l’evidente bellezza di un armonico paesaggio, o di una efficace gradazione di forme e colori. La capacità di questi luoghi di parlare alla nostra anima non dipende solo da caratteristiche esteriori; c’è anzi il forte sospetto che i ‘luoghi dell’anima’ traggano la loro forza dal fatto di essere contenitori di voci e di storie, che continuano a vivere.

 In termini di fede, i primi cristiani sapevano a tal punto quanto fosse importante questa venerazione dei luoghi, da tenerli segreti – quelli riservati al culto o alla memoria di persone dalla storia e dall’anima straordinari – e riunirvisi in silenzio, in circostanze ‘misteriose’, fuori dalle convenzioni della vita mondana. Un luogo era importante e ‘sacro’ proprio perché – grazie alla presenza di queste voci ancora vive – riusciva a liberare le potenzialità delle anime dei vivi, a far lievitare quella possibilità di essere ponte tra corpo e spirito, tra fisicità e trascendenza. 

Anche oggi esistono molti luoghi con queste caratteristiche, nel mondo. Ed è un catalogo non compilabile, perché il codice dell’anima non vale per tutti allo stesso modo. Perché nessuna regola generale può valere per l’impalpabilità dell’anima e dei suoi molti linguaggi. Il tracciato che qui di seguito ho segnato è quindi soltanto personale. Luoghi scoperti casualmente, in occasione di viaggi, vacanze, o per motivi di interesse culturale, o a causa del mio lavoro di giornalista.

Qui ho dapprima ‘sentito’ e poi ‘conosciuto’ storie che ho provato a raccontare, in una geografia divenuta sempre più precisa, corrispondente ad un cammino interiore, rivolto al cuore del senso di una storia di uomo cresciuto dentro una tradizione occidentale e cristiana, lunga due millenni. E’ la stessa storia di molti che vivono in questa parte del mondo ormai spuria che chiamiamo Occidente. La storia dei nostri genitori, dei nostri nonni e delle intere generazioni che ci hanno preceduto. La loro voce, se la ascoltiamo, parla ancora chiaro, parlerebbe forse degli stessi luoghi e delle stesse cose che abbiamo sotto gli occhi adesso. Se soltanto fossimo capaci di fermarci, ed ascoltare.

La condivisione di queste scoperte e di queste storie nel corso degli anni, mi ha lentamente convinto che anche un tracciato così personale può diventare fecondo e condiviso. La silenziosa conversazione di anime avviene sempre, anche quando non facciamo nulla per volerlo coscientemente. E vale molto: realizza la nostra essenza su questa terra, senza la quale siamo semplicemente ‘anime sperse’, o ‘perse’, come si dice con efficace sintesi nel linguaggio comune. In ultima analisi, scrive Carl Gustav Jung, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.

Fabrizio Falconi

Questa introduzione è tratta dal volume "Dieci Luoghi dell'anima,"  Cantagalli editore, 2009, Siena.


07/04/08

Il Sacro Fuoco di Olimpia e le contestazioni.


Fa una gran tristezza assistere in questi giorni a quel che avviene al passaggio della sacra fiaccola olimpica, in viaggio verso Pechino: contestazioni ovunque, a Londra tentativi di spegnimento con l'estintore, da ultimo a Parigi le autorità costrette a caricare la fiaccola a bordo di un pullmino, per oltrepassare i gruppi di protesta.

Protesta sacrosanta, sia bene inteso.

Come sarebbe possibile non indignarsi per quello che sta accadendo in Tibet in questi giorni ?

Ma la tristezza assale ugualmente, pensando a quel che dovrebbero essere i Giochi Olimpici, a quel che rappresentano simbolicamente, all'ideale perduto di uguaglianza, fraternità tra i popoli, amicizia, pace.

Che è rimasto di questi ideali, nel mondo ?

Stiamo vivendo, mi sembra, tempi sempre più difficili, contrassegnati da una evidente schizofrenia degli uomini, specie in Occidente:

un Occidente che pensa da pessimista e vive da ottimista. Crede che la vita sia brutta e che tutto finisca con la morte, che nulla abbia senso, che siamo solo un insieme di molecole in movimento e materia in disgregazione; ma pretende di vivere allegramente circondandosi di benessere economico, salutismo, diavolerie tecnologiche, divertimenti, distrazioni.

Come è possibile non diventare schizofrenici, vivendo e pensando in questo modo ?

E' chiaro che anche il simbolo Olimpico sia vissuto - allo stesso modo, oggi.

Da una parte si pensa tutto il peggio possibile di questa fiamma Olimpica che potrebbe rappresentare e rappresenta, la legittimazione del potere di Pechino. Dall'altra vorremmo tutti goderci lo spettacolo sano dei Giochi, vissuti come momento di competizione, di svago e anche - in Italia soprattutto - di vanto nazionale.

Come se ne esce ? Non se ne esce.