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23/09/14

"Spesso i rapporti tra persone sono un malinteso permanente" - Una intervista a Cees Nooteboom.




A colloquio con Cees Nooteboom Tutti i mondi dell'olandese viaggiante di Silvia Guidi

Il paradiso deve pur esistere da qualche parte, pensa il giovane Philippe, non avrebbe senso, altrimenti, la molteplicità dei desideri che affollano il cuore, il confuso germogliare di aspirazioni, progetti e aspettative che rende nitido, denso e vibrante il presente, la tensione verso la vita, l'energia tesa a un compimento che muove tutti gli uomini: ha tanti nomi, ma si tratta certamente della stessa cosa, pensa il protagonista dell'opera d'esordio di Cees Nooteboom, "Il paradiso qui accanto" (il titolo originale del romanzo scritto nel 1955 a soli 22 anni) si trasforma nella meticolosa architettura di gesti e pensieri prevedibili con cui cerca di rimuovere o mettere a tacere questo desiderio, nascondendolo sotto strati di abitudini, riti sociali, traguardi da raggiungere o frammenti di passato da dimenticare, come polvere sotto un tappeto.

Il difetto che più spesso i critici imputano a Nooteboom - cercando di spiegare il mancato arrivo di un Nobel più volte annunciato - è in realtà una qualità rara negli scrittori contemporanei: scrivere libri molto diversi uno dall'altro, usare un vasto arsenale di ombre cinesi per dare vita a una sorta di teatro filosofico, una sequenza di comtes philosophiques tanto ironici quanto profondi. 

Forse per questo è considerato un "moderno" atipico; abbiamo chiesto direttamente all'autore, prima di una visita ufficiale all'ambasciata tedesca di Roma, quanto resta del Philippe degli esordi nelle sue ultime opere. 

"Adesso sono troppo vecchio per fare l'autostop - risponde Nooteboom, classe 1933, pantaloni di un velluto rosso cupo che sarebbe piaciuto a Rembrandt e camicia bianca - Philippe e gli altri risente molto del viaggio in Provenza e in Italia. Soprattutto ricordo lo stupendo scenario della Roma barocca, i palazzi, la luce, ogni cosa era come incastonata dentro uno spettacolo teatrale permanente, per la ricchezza dei colori e dei costumi".

Difficile ambientarsi in Italia?


"Al contrario, molto facile; conoscevo il sacrista del Papa, agostiniano come i monaci da cui avevo studiato in Olanda; da loro ho ricevuto l'educazione classica di cui avevo bisogno. Mi ha ricevuto nella sua cella e mi ha ascoltato. Ricordo ancora la telefonata, il suo "sì eminenza, sì eminenza" ripetuto più volte. Dieci minuti dopo avevo in tasca mille lire (non era poco negli anni Cinquanta); un modo piuttosto concreto di darmi il benvenuto a Roma. Quello stesso giorno ho incontrato un ragazzo che mi ha detto: "Io lavoro al ministero delle finanze, se vuoi mangiare vieni con me". "Ma non so una parola di italiano!". E lui: "Non importa, stai accanto a me, ripeti quello che dico e ti riempiono il vassoio". L'ho rivisto a Milano dopo cinquant'anni, durante un incontro in cui presentavo un mio libro. Era in prima fila e l'ho riconosciuto subito. E lui aveva riconosciuto me".

Quindi partecipare all'incontro del Papa con gli artisti nel novembre scorso è stato un po' come tornare a casa?
"Diciamo che ho avuto una settimana molto strana: prima un invito a Berlino, ospite della Linke, l'estrema sinistra tedesca, chiamato a parlare davanti a seicento persone, poi l'incontro a Roma sotto la Cappella Sistina. Era difficile non essere distratti dalla bellezza dell'affresco sotto cui eravamo seduti; accanto a me c'era un collega di origine iraniana (anche lui pubblica i suoi libri in Italia con Iperborea) a cui ho cercato di spiegare la differenza tra un cardinale e un vescovo. Sarebbe stato bello avere più tempo per discutere insieme di arte e letteratura, ma mi rendo conto che non è facile organizzare un evento simile. E comunque la relazione di un artista con un'istituzione non è mai facile, di qualsiasi tipo di istituzione si tratti".

Il quadro di Paul Gauguin sulla copertina del suo ultimo libro, Le volpi vengono di notte, raffigura una zampa di animale sul cuore di una ragazza addormentata: un'immagine di una brutalità silenziosa, senza grido. La citazione della parabola evangelica dei seminatori di zizzania contenuta nel titolo è voluta o casuale?

"Effettivamente c'è una sorta di cupio dissolvi che descrive una progressiva perdita del gusto del vivere. Ad esempio Heinz, il viceconsole onorario, uno dei protagonisti dei racconti, nasc
onde una ferita segreta, che non rivela neanche a se stesso, ma che lo ucciderà lentamente".

Un omaggio a Montale, visto che Heinz vive lo smarrimento del "Forse un mattino andando in un'aria di vetro, il nulla alle mie spalle, con un terrore da ubriaco"? Tra i poeti che ha tradotto, come Wallace Stevens, Neruda, Pavese, c'è anche l'autore di Ossi di seppia.
"Sì, questi nomi passano da un comunicato stampa all'altro, ma non ho tradotto molto in realtà. Su Montale non consiglierei tanto un mio lavoro quanto la bellissima traduzione di Jonathan Galassi. Quanto al libro, non volevo scrivere l'ennesimo noioso saggio filosofico, quando potevo dire le stesse cose descrivendo persone che vivono quella situazione".

Una sorta di "correlativo oggettivo" alla Eliot?

"Più o meno; spesso i rapporti tra le persone sono il paravento di altro, o rischiano di essere un malinteso permanente, volevo comunicare al lettore questa inquietudine. Uno dei miei personaggi mentre viaggia in Marocco guardando l'immensità del deserto e del cielo senza nubi scopre il terrore di essere "un niente ridicolmente presuntuoso", Paula, la protagonista di un altro racconto, ha il terrore di amare ed essere ferita; Suzy cerca di cancellare ogni traccia del passato lavando e facendo asciugare al vento i vestiti della prima moglie dell'ammiraglio che ha sposato".


12/06/12

Clamorosa scoperta di una filologa italiana: ritrovate 29 omelie inedite di Origene.



E' con ogni probabilita' la scoperta del secolo quella di una filologa italiana nella biblioteca di Monaco di Baviera, annunciata ieri dalla stessa Bayerische Staatsbibliothek. Nel pomeriggio dello scorso 5 aprile, Giovedi' santo, studiando un codice bizantino dell'xi secolo, il Monacense greco 314, Marina Molin Pradel si e' infatti accorta che alcune omelie sui Salmi in esso contenute corrispondevano a quelle di Origene tradotte in latino da Rufino all'inizio del V secolo. E' quanto sottolinea l'Osservatore Romano.

''E subito dopo Pasqua, estendendo i controlli sul manoscritto, la studiosa e' arrivata alla conclusione che tutte le 29 omelie contenute nel codice, finora inedite, sono del grande intellettuale cristiano. Nella prima meta' del III secolo Origene aveva dettato sul Salterio una serie imponente di opere che hanno presto avuto un influsso decisivo sull'esegesi biblica sia greca sia latina. Ma proprio la loro estensione, oltre alla condanna del 553, ne spiega la quasi totale perdita, gia' in epoca antica. E' di ieri -prosegue il quotidiano della Santa Sede- la notizia della scoperta del testo originale di una grande raccolta di omelie di Origene nel manoscritto Monacense greco 314, del secolo XI, conservato nella Bayerische Staatsbibliothek. Le omelie non recano il nome dell'autore, evidentemente a causa della damnatio memoriae in cui incorse il grande alessandrino a causa delle condanna ufficiale impartita ai suoi danni dal concilio ecumenico costantinopolitano del 553''. 

La scoperta ''si deve all'intuito e all'acribia della ricercatrice italiana Marina Molin Pradel la quale, incaricata di lavorare al catalogo dei manoscritti della biblioteca, imbattutasi nel codice, ha identificato il suo contenuto come sicuramente origeniano, sulla base soprattutto del confronto delle omelie sul salmo 36, ivi contenute, con la traduzione latina in nostro possesso, eseguita agl'inizi del V secolo da Rufino di Aquileia''.

24/06/10

Saramago, un grande maestro, e il cattivo trattamento dell'Osservatore Romano.


Davvero sono rimasto piuttosto basito nel leggere il commento che l'Osservatore Romano ha dedicato alla scomparsa di José Saramago, quello che secondo molti - compreso chi vi scrive - era il più grande scrittore contemporaneo.

Con il titolo L'onnipotenza (presunta) del narratore, il quotidiano vaticano ha dedicato un duro pezzo di commiato - completamente privo fra l'altro di qualunque pìetas - al grande scrittore, premio Nobel, nel quale si legge fra l'altro: un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle 'purghe', dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.

Ora io dico: ma come si fa ad essere così ciechi ? Davvero quelli dell'Osservatore sembrano usciti dal romanzo-capolavoro di Saramago: Cecità.

Chi minimamente conosca l'opera (e anche la vita) di Saramago, sa che - pur dichiarandosi e professandosi ateo - egli ha sempre avvicinato e attraversato il mistero metafisico, in ogni opera. Anche Cecità è un grande affresco metafisico, dove tutto ciò che accade può essere letto come una grande parabola sulla verità e sulla presunzione umana di credere soltanto a ciò che si vede.

Ma poi come non ricordare tutte le grandi opere nelle quali Saramago ha affrontato a suo modo la figura di Cristo, o di Maria. Tutta la sua opera letteraria non esisterebbe se non fosse esistito il cristianesimo: tutta la sua opera è un dialogo - a tratti sfrontato, assoluto, provocatorio, ma anche rispettoso, mai volgare, mai pretestuoso - con il cristianesimo.

L'Osservatore, invece di scagliare il suo anatema contro i grandi dissolutori di princìpi che scorrazzano liberamente nel confuso mondo di oggi, spesso mascherandosi proprio dietro le sembianze di attributi pii, sbaglia ancora una volta obiettivo, e spara a zero, nel giorno della sua morte, contro un grande spirito libero che forse - più di ogni altro - aveva davvero nostalgia di Dio.


08/12/09

Ancora sulla Croce e sul Crocefisso - di Enzo Bianchi.


Vorrei invitarvi a leggere con attenzione questo splendido pezzo scritto da Enzo Bianchi su La Stampa del 7 dicembre, in particolar modo gli ultimi due paragrafi.

Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e omunitariamente il diritto alla libertà di culto.

Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.

Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?

La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante.

Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.

In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo... Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione.

Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.

Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri.

Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.


Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

Enzo Bianchi

18/04/09

Clonazione - L'allarme di Padre Giertych .

Sono personalmente atterrito di fronte a certi scenari che può intraprendere la ricerca scientifca nel campo della clonazione umana. Trovo perciò quanto mai interessante pubblicare questo allarme lanciato da padre Giertych, attento ossevatore di questo campo.

"La clonazione umana incontra l'opposizione disgustata di tutti coloro, cristiani e non, che percepiscono spontaneamente l'inalienabile dignita' dell'essere umano". Ma ugualmente, lamenta sull'Osservatore Romano padre Wojciech Giertych, teologo della Casa Pontificia, in molti laboratori si continua a lavorare a questo progetto, tanto che siamo davanti a quella che appare come una "incombente prospettiva che genera giustamente la risposta estremamente allarmata dell'umanita'".

E se nel campo dell'educazione "un programma di formazione che neghi l'individualita' e lo sviluppo delle virtu' personali e che richieda solo un'esatta imitazione di un'identita' imposta" sarebbe qualificato come "essenzialmente inumano", ben maggiori riserve suscita l'idea della fabbricazione in laboratorio di cloni uguali in tutto al genitore clonato o anche semplicemente "prodotti" per esigenze terapeutiche, cioe' "con un patrimonio genetico prefissato, da cui si potrebbero raccogliere cellule staminali embrionali per la produzione di farmaci" da utilizzarsi a favore di altre persone "per superare il problema dell'incompatibilita' immunologica nei trapianti".

La storia - afferma il religioso domenicano - e' piena di tragici esempi di ideologie che sono nate da menti chiuse nell'orgoglio intellettuale, non disponibili ad accettare, con un atteggiamento umile, la verita' della realta'". Citando il recente documento della Congregazione della Dottrina della Fede intitolato "Dignitas personae", padre Giertych ricorda che "gli interventi tecnici che distorcono la natura e la finalita' della procreazione rappresentano un tragico attacco alla dignita' umana", in quanto l'uomo "non puo' essere trattata allo stesso livello della zootecnia: l'adattamento dei processi riproduttivi in piante e animali intrapreso per esigenze umane e reso possibile dagli sviluppi della biotecnologia diviene inammissibile se applicato alla procreazione umana".








13/03/09

La lettera del Papa ai vescovi sulla vicenda Lefebvriani: una amarezza senza precedenti.


Non so se da parte dei fedeli cattolici si sia percepita realmente la portata davvero umanamente sconvolgente della lettera che il Papa ha scritto ai vescovi sulla vicenda della revoca della scomunica ai Lefebvriani. Una lettera che non è esagerato definire 'drammatica', perchè Papa Benedetto XVI esce allo scoperto, e con toni davvero inediti, rende conto della sua personale, profonda amarezza, per come tutto l'affare della revoca della scomunica è stato vissuto 'mediaticamente', diventando giorno dopo giorno, una vera e propria colata di fango che ha finito per investire ogni buon proposito iniziale, la Curia Vaticana, l'autorità vaticana nel mondo, e la figura del Papa stesso.



Per chi non ha letto la lettera integralmente, consiglio di recuperarne la lettura, cliccando qui:




Ma insomma, anche dai resoconti di agenzia, credo si percepisca l'entità di questa situazione. Non capita spesso - anzi non è capitato quasi mai, credo, nella storia recente, che un Papa arrivi a dire che nella Chiesa (nella Chiesa cattolica) "ci si mangia e ci si divora. "

Una immagine fortissima, quasi 'dantesca'.


Insomma, dopo questa lettera, nessuno potrà più sostenere, che Oltretevere, tutto va bene, tutto fila via liscio. Se perfino il cauto Osservatore Romano parla di un Papa "coraggioso per una bufera senza precedenti. "

La situazione è piuttosto seria. Forse non sarà tutto come viene descritto da Marco Politi in questo pezzo su Repubblica on line, però davvero forse sarebbe il caso di realizzare cosa sta succedendo dentro le gerarchie della Curia Romana, se oggi anche il Segretario di Stato Card. Bertone ha sentito il bisogno di convocare le agenzie per ribadire che "Il Papa non è solo".


Un Papa solo ?


Davvero la Chiesa Cattolica, la Chiesa di Roma - almeno nei suoi vertici gerarchici - sarebbe ridotta a questo ?