Visualizzazione post con etichetta pasolini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pasolini. Mostra tutti i post

11/11/16

La Tolleranza - di Pier Paolo Pasolini (dalle Lettere Luterane).





Vorrei aggiungere ancora qualcosa a ciò che ti ho detto nell’altro paragrafo intitolato “Come devi immaginarmi”.

Sul sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno dei più importanti argomenti del nostro discorso, e non perderò certo occasioni di dirti, in proposito, delle verità, sia pure semplici che tuttavia scandalizzeranno molto, al solito, i lettori italiani, sempre così pronti a togliere il saluto e a voltare le spalle al reprobo.

Ebbene: in tal senso io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante

Sono, cioè, un “tollerato”. 

La tolleranza è solo e sempre nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che si "condanni". 

La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. 

Infatti al “tollerato” – mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua “diversità” o meglio “la sua colpa di essere diverso”- resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerala, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla

Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della “diversità” delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi – certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal “ghetto” fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato.

Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un “ghetto mentale”, e guai se uscirà da lì.

Egli può uscire da li solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè dalla maggioranza.

Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere “tinta” dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria.

Pier Paolo Pasolini - Da Lettere luterane.

20/06/16

La Profezia di Pasolini (1975): "Prevedo la spoliticizzazione completa dell'Italia".




Prevedo la spoliticizzazione completa dell'Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. 
Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. 
La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come. 


Da Luisella Re, Pasolini: Il nudo e la rabbia, Stampa sera, 9 gennaio 1975.

12/03/14

Che cosa sono le nuvole...



Capriccio all'italiana è un film collettivo,  girato nel 1967 e distribuito nel 1968, composto da sei episodi diretti da diversi registi, tra cui Che cosa sono le nuvole?, diretto da Pier Paolo Pasolini, con Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Domenico Modugno. 

Il cortometraggio prende il titolo proprio da questa scena finale.

Questo episodio fra l'altro è l'ultima pellicola cinematografica in cui appare Totò ed è l'ultimo film girato dall'artista: Capriccio all'italiana uscì nel 1968 mentre le riprese dell'episodio pasoliniano erano state effettuate tra il marzo e l'aprile dell'anno precedente. 

Totò, morto il 15 aprile 1967, non ebbe mai modo di vedere la pellicola.

Ed è ben curioso che la maschera grottesca di Totò si sia congedata proprio guardando le nuvole, nella sequenza finale di questo film così strano. 

Sulle note di questa canzone scritta dallo stesso Pasolini e musicata da Modugno. 

Modugno e Pasolini




La canzone era stata già pubblicata l'anno precedente nell'album Modugno.  Scritta da Pier Paolo Pasolini è una poetica e metaforica canzone sull'amore e sulla scoperta della vita attraverso il suono struggente di un mandolino.


ah straziante, meravigliosa bellezza del creato !  dice Totò nell'ultima battuta recitata.

E' il momento della rivelazione: quello in cui le marionette che hanno sempre vissuto nel cupo inganno del loro teatrino, dopo essere state straziate dallo stracciarolo, fatte a pezzi e gettate nella discarica, hanno finalmente l'agio di guardare il cielo.

E di scoprire, oltre alle nuvole, l'esistenza dell'autentico.

Della vita autentica.

E' così anche per noi. E' spesso  proprio il dolore che ci rende autentici, che ci fa scoprire la parte autentica di ciascuno di noi - vigliaccheria, dignità, coraggio, orgoglio, rassegnazione, determinazione, fede, fiducia, disperazione .

Ma queste parti autentiche - anche l'essere impotenti e fragili - esistono DA SEMPRE, sono lì.

Solo che passiamo una gran parte della vita a far finta che non esistano, a dissimularle, a raccontarci frottole, a non ascoltarle perché abbiamo paura di soffrire, o in definitiva soltanto di conoscere il nostro mondo interiore.

Ma invece è soltanto così che si cresce, solo così, solo cercando le nostre parti più autentiche e cercando di dar loro voce, che noi ritorniamo semplicemente umani.

Che cosa sono le nuvole...





Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata   

14/08/12

Elsa Morante - 100 anni dalla nascita.



Tra quattro giorni, il prossimo 18, si celebra il centenario della nascita di uno dei massimi scrittori italiani del novecento, Elsa Morante.  

Il suo ricordo e' legato a grandi romanzi come 'Menzogna e sortilegio','L'isola di Arturo' e 'La Storia'. Ma anche alla sua lunga e complessa vicenda sentimentale con un altro scrittore, Alberto Moravia. 

Elsa Morante, la scrittrice che ha messo in scena tra l'altro i duri tempi del dopoguerra, e' nata il 18 agosto del 1912. Amica di Pierpaolo Pasolini e dei maggiori intellettuali del suo tempo, ha cominciato a scrivere fin da giovanissima. 

Romana di Testaccio, ha pubblicato i suoi racconti giovanili nel 1941 nel volume 'Il gioco segreto', edito da Garzanti. Un anno importante, per la scrittrice, il 1941: in aprile sposa Alberto Moravia che aveva conosciuto nel 1936.

La loro e' una vicenda sentimentale travagliata, durata per 20 anni. Ed e' proprio attraverso l'autore de 'Gli indifferenti', che Morante iniziò a frequentare Sandro Penna ed Enzo Siciliano. Senza dimenticare altri 'giganti' come Umberto Saba, Attilio Bertolucci e Giorgio Bassani. 

Intanto continua a dedicarsi alla scrittura. Il romanzo che l'ha imposta come scrittrice e' 'Menzogna e sortilegio', uscito da Einaudi grazie a Natalia Ginzburg, che vince il Premio Viareggio. 

Viene anche tradotto negli Usa, con il titolo 'House of Liars', nel 1951. Inizia cosi', con un vasto successo, la carriera letteraria di Morante. 

Le sue doti di affabulatrice si affinano e da un premio passa ad un altro: dopo il Viareggio e' la volta dello Strega. 

Nel 1957, infatti, vince il massimo riconoscimento letterario con 'L'isola di Arturo'. 

All'inizio degli anni Sessanta recita una breve parte nel film 'Accatone' di Pasolini. Ma proprio il decennio del boom coincide con una crisi artistica senza precedenti. Una crisi che, pero', non affievolisce la sua vena creativa. 

Ai grandi libri della narratrice romana si aggiunge 'La Storia', considerato da molti critici il suo vero capolavoro. Un successo popolare ambientato nella Capitale. 

Nel 1976 comincia la stesura del suo ultimo romanzo, 'Aracoeli' che vede la luce nel 1982. 

Costretta, dal 1980, a letto dopo la frattura del femore, Morante intraprende la sua discesa verso la fine. Subisce un intervento chirurgico e perde l'uso delle gambe. Nel 1983 tenta il suicidio. Il 25 novembre del 1985 ha luogo l'ultimo atto della sua vita: dopo un nuovo intervento, muore di infarto a 73 anni. 

Postumi, vengono pubblicati 'Opere' e i 'Racconti dimenticati' che raccoglie alcuni brani de 'Il gioco segreto'.  

23/07/12

Spunta una lettera inedita di Pier Paolo Pasolini ai calabresi.



"Se volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non e' con la retorica che si progredisce". 

Sono le parole scritte il 1 ottobre 1959 da Pier Paolo Pasolini in una lettera inviata all'ufficiale sanitario di Paola (Cosenza) Pasquale Nicolini, inedita e pubblicata oggi dal Quotidiano della Calabria. 

Sulla rivista 'Successo' era stato da poco pubblicato 'La lunga strada di sabbia', un reportage su un viaggio compiuto da Pasolini a bordo di una Fiat 1100 lungo la costa calabrese. 

Parlando di Cutro (Crotone), Pasolini scrisse che "e' veramente il paese dei banditi, come si vede in certi film western. Si sente, non so so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello". 

Dopo l'uscita del reportage, Nicolini, "un medico - scrive il Quotidiano - che considerava la sua professione una missione" invio' una lettera a Pasolini per capire il perche' di tale giudizio. 

"I banditi - rispose Pasolini - mi sono molto simpatici. Quindi da parte mia non c'era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realta': e anche se i banditi li avessi odiati non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro e' una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto e' vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose 'dune giallastre' durante la notte. Quanto alla miseria, non vedo perche' ci sia da vergognarsene. Non e' colpa vostra se siete poveri ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso. E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, Taranto e Brindisi". 

"Questi - scrisse, tra l'altro Pasolini - sono dati della vostra realta': se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Mi dispiace dell'equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro 'complesso di inferiorita", della vostra psicologia patologica, della vostra angesi o mania di persecuzione. Tutto cio' e' storicamente e socialmente giustificato. E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l'unico modo per consolarsi e' lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Lei e' persona degna di ogni rispetto e anche affetto e, come tale, cordialmente la saluto".

fonte ANSA

20/03/12

Pasolini, il professore a Ciampino a cui non passavamo la palla. Di Vincenzo Cerami.



Ho avuto Pier Paolo Pasolini come insegnante di Lettere alle scuole medie, dalla prima al secondo trimestre della terza, quando venne a sostituirlo il cugino Nico Naldini, anche lui poeta. Siamo nei primi anni Cinquanta, quando la terra italiana ha ancora la faccia di mille anni prima. 

La scuola, un minuscolo istituto privato, stava a Ciampino, non lontano dalla chiesa ed era intitolata a Francesco Petrarca. La gestiva una giovane coppia di insegnanti, marito e moglie, Anna e Gennaro Gullotta. Dalle finestre della nostra classe potevamo intravedere, tra le piccole case, alcune in vago stile liberty, la grande costruzione del Sacro Cuore di Gesù, un ex collegio distrutto dai bombardamenti e popolato di sfollati, quasi tutti provenienti da Cassino, dalle zone disastrate dalla guerra e dalla miseria. 

Nel taglio dei nostri sfilatini, le mamme mettevano la pastasciutta avanzata la domenica, oppure olio e sale. Malgrado tanti stenti non mancavano l’allegria e la speranza del futuro. 

L’aeroporto di Ciampino era internazionale e dalle recinzioni in ferro spinato potevamo ammirare i progressi dell’aeronautica. Nel giro di pochi anni ho visto apparire e scomparire i Dakota, i Vampire, i Constellation, fino all’irruzione dei turboelica, degli F84, del Comet (primo aereo di linea a reazione). Tutti segnali che dicevano a noi ragazzini con le scarpe bucate e le magliette tinte, che si poteva guardare avanti con fiducia. 

Infatti molti dei miei amici di classe non facevano in tempo ad iscriversi alle superiori che venivano chiamati a lavorare dalle aziende o anche dalle compagnie aeree. Proseguivano gli studi i più sfortunati o i figli dei piccoli borghesi che puntavano a salire la scala sociale in grazia del pezzo di carta. 

In quell’eremo campagnolo, tra macerie e crateri aperti dalle bombe, a 14 chilometri da Roma, paracadutato dal Friuli, il destino ha fatto arrivare un professore di 29 anni, a insegnare italiano, latino, storia e geografia, povero come noi, malgrado l’obbligo di giacca e cravatta, non importa se sgualcite e consumate. 

Solo che aveva una voce dolcissima e un sorriso timido, e, al contrario degli altri insegnanti, sapeva dare calci al pallone come un professionista. Era maestro anche nei tiri in porta, sempre di collo pieno. La prima cosa che abbiamo scoperto è che il Friuli stava in Italia. E poi che a scuola si va per diventare grandi insieme. Conoscersi era per Pasolini il passo necessario alla scoperta del mondo. Quando, in un mio momento difficile, gli chiesi: «Scusi, professore, ma cosa dovrò fare per stare bene nella vita», lui, dopo un attimo, mi rispose: «Basta che non fai quello che fanno tutti!». Fu per me la frase meno ideologica che abbia mai ascoltato. 


10/05/11

Lessico dei Poeti 3 - 'Cuore'.


Cuore.

Scrive James Hillman, in Thought the Heart (pag. 24-33): “L’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. A “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’attività scientifica. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza e meraviglia. “

E questo riconoscimento, ci dice Hillman, lo fa il ‘cuore’: è lì che localizziamo da sempre, da quando l’uomo è nato, quella capacità di andare oltre le semplici sembianze, di ‘riconoscere’ l’intimo volto delle cose, la sua natura più reale, proprio perché extra-sensoriale.

A esemplificazione del suo discorso, Hillman nel testo stesso, riporta i versi di un grande poeta, e non è un caso. Petrarca.

In selve impraticabili,

mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti

o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,

oppure lo si vede emergere da una liquida fonte

o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara

o sembra erompere, vivo, da una dura rupe.


Si tratta della traduzione dal latino delle Epistolae Metricae (IV, 145-50).

“Questi versi,” scrive Hillman, “ non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personalizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano…”

Il cuore, insomma, sembra dirci Hillman, ci dà la descrizione dell’anima delle cose, riconosce quell’anima, la individua nelle forme in cui essa – anima – decide di manifestarsi.
Ed è perfino troppo ovvio che in questa capacità di discernimento del cuore, una via privilegiata la possiedano proprio i poeti. Sono loro a dare voce a quella voce del cuore, sin dalla notte dei tempi della tradizione.

Ma anche i poeti più vicini a noi, ovviamente. Seppure i loro testi non si trovano più – tranne in rari casi – nelle librerie-supermercato, essi continuano a parlare la lingua del cuore, se soltanto vi si concede ascolto.

Un poeta purtroppo legato al nostro doviziato scolastico, che non ne valorizza i toni moderni, così attuali, è Giovanni Pascoli. Nelle Myricae, l’occhio del cuore fa precipitare il poeta in un viaggio quasi allucinato:

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),

vedo nel cuore, vedo un camposanto

con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia

allo scirocco: a ora a ora in pianto

sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,

o casa di mio padre, unica e muta,

dove l’inonda e muove la tempesta;

E l’obiettivo di questo viaggio, non è soltanto dare voce alla memoria, è proprio ri-costruire quei volti, i loro veri volti, i volti del padre e della madre, i volti che il cuore ha conosciuto e quindi ha sentito come veri, reali, in grado di oltre-passare anche i territori della morte.

E’ del resto lo stesso Pascoli a scriverlo quasi esplicitamente, nella prefazione con dedica al padre Ruggiero, del poema: chiudere gli occhi stanchi di contemplare, e riporre e raccogliere nell’anima la visione…

E’ così che nel linguaggio poetico la lingua del cuore potrebbe diventare, potrebbe essere intepretata come lingua universale, una specie di esperanto capace di ri-nominare ogni cosa, di interpretare ogni cosa non più e non soltanto attraverso i veridici nomi d’abitudine, non più e non solo attraverso i segnali di consuetudine che spargiamo nel nostro mondo razionale, ma invece mediante i lampi fulminanti delle intermittenze del nostro cuore. Il quale – come un radar, come una geo-sonda – è capace di dare fisionomia agli oggetti, e perfino alla memoria.

Lo descrive molto bene Camillo Sbarbaro, che negli anni del trasferimento a Genova, negli anni dell’amicizia con Montale (intorno al 1928), scrive nei versi di Liquidazione:

Se la memoria fosse del cuore,

non un nome svegliandoti

ti verrebbe alle labbra.

Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.

Sono le parole di un poeta perfettamente cosciente del fatto che: La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo...” Quel senso ultimo che in nessun caso può provenire dalla contemplazione o dallo studio empirico-razionalistico. C’è sempre qualcosa che sfugge, e quel qualcosa è esattamente l’anima diffusa che ogni persona sparge nel suo tracciato esistenziale. E che si coglie, solo, mettendo in funzione il ‘cuore.’

Il linguaggio del cuore può diventare anche una condanna, per il poeta. Lo scrivono e lo testimoniano i percorsi tragici di molti testimoni dell’Ottocento e del Novecento che della loro smisurata sensibilità profetica hanno fatto un martirio. E’ la condanna di chi parla un linguaggio altro, di chi per esempio si sente obbligato a vivere una vita di corpi (e di sembianze) perché non può, non può più arrivare a quella via del cuore, incarnata dal modello insormontabile della propria genitrice. Così Pierpaolo Pasolini nella celebre Supplica a mia madre:

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.


Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.


L’angoscia che non era altro, come scriveva lo stesso Pasolini che quel troppo grande amore /nel cuore/ per il mondo.

Fabrizio Falconi.

21/11/08

Pasolini, Cesare e Dio.


Molta dell'opera poetica e letteraria-saggistica di Pier Paolo Pasolini, risulta essere, se letta oggi, profetica. Pasolini sembrò prevedere con 30-40 anni di anticipo molti dei fenomeni di massa che hanno travolto l'Italia - insieme all'Occidente - trasfigurandone completamente il volto.

Anche a proposito di trasformazioni nel modo di percepire la religione e sulla Chiesa Cattolica, Pasolini scrisse e disse cose ferocemente contestate allora, sulla quale oggi molti osservatori - di destra e di sinistra - concordano, ammettendo che forse 'aveva ragione. '

Risulta così quanto mai toccante rileggere questa pagina degli Scritti Corsari, che dice molto, e di grandemente attuale, sui rapporti tra Chiesa e Stato, su cui bisognerebbe grandemente meditare. Scrive Pasolini:

Prima di tutto la distinzione radicale tra Chiesa e Stato. Mi ha sempre stupito, anzi profondamente indignato, l'interpretazione clericale della frase di Cristo: "Dà a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio": interpretazione in cui si era concentrata tutta l'ipocrisia e l'aberrazione che hanno caratterizzato la Chiesa controriformistica.

Si è fatta passare cioè - per quanto ciò possa sembrare mostruoso - come moderata, cinica e realistica una frase di Cristo che era evidentemente, radicale, estremistica, perfettamente religiosa. Cristo infatti non poteva in alcun modo voler dire: "accontenta questo e quello, non cercar grane politiche, concilia la praticità della vita sociale e l'assolutezza di quella religiosa, dà un colpo al cerchio e uno alla botte, ecc.."

Al contrario Cristo - in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione - non poteva che voler dire: "Distingui nettamente tra Cesare e Dio; non confonderli; non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio; non "conciliarli": ricorda bene che il mio "e" è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto "inconciliabili".

Pasolini nel suo inconfondibile stile appassionato, radicale, polemico, avvertiva e avverte di un rischio sempre in agguato nel nostro mondo: quello di identificare Dio con Cesare e Cesare con Dio, di unificare gli scopi di Cesare con quelli di Dio, l'utile di Cesare con l'utile di Dio: la peggiore delle iatture umane.

19/06/08

Il Vangelo Secondo Matteo - di Pier Paolo Pasolini.


Come è possibile che il miglior film su Gesù Cristo - il più puro, il più radicalmente vicino al Messaggio autentico dei Vangeli - sia stato realizzato da un uomo controverso e apparentemente lontano dalla fede, un peccatore (il termine è usato come provocazione) convinto e conclamato ?

Le ragioni, forse stanno in questo articolo che vi consiglio caldamente di leggere e che ho tratto da http://www.hideout.it/ e che puo' essere letto nella sua completezza all'indirizzo originale:




Pasolini scopre il Vangelo quasi per caso, durante un soggiorno ad Assisi nel quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII. Ne rimane subito profondamente colpito, per due motivi principali: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora di “divinità” è ai limiti della metaforicità, fino a essere idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo.»

C’è poi il Pasolini marxista che da quindi una lettura più politica del Cristo, ma mai dogmatica, sempre personalissima e aperta ai temi universali dell’uomo: «Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, [l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le “sproporzioni” delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile discorso della montagna)],
la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione. Il Vangelo doveva essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo.»

E’ interessante vedere come le scelte registiche del film prendano una direzione inaspettata per lo stesso Pasolini, come se la materia sacra lo avesse trascinato verso una direzione diversa da quella che si era prefissato di seguire: «Io tendevo a forzare la materia nella direzione dell’attualità, mentre lo facevo credevo che questo avesse un grandissimo peso. Per esempio quando facevo i soldati di Erode vestiti da fascisti, i soldati romani come la Celere, quando facevo Giuseppe e Maria profughi come profughi spagnoli sui Pirenei e così via, credevo che queste cose venissero fuori molto di più, cioè credevo di poter attualizzare il Vangelo senza toccare l’intima fedeltà che avevo stabilito fin da principio […]. Tutti questi richiami all’attualità, queste citazioni di Dreyer, questo insieme di fatti espressivi e espressionistici, che credevo saltassero molto fuori, in realtà si sono poi livellati nell’insieme del film, hanno raggiunto una loro specie di fermezza,
di distacco che io non avevo calcolato e che è venuto fuori a mia insaputa e quindi mi sto ancora chiedendo io stesso il perché».

«Il Vangelo è stato per me una cosa così spaventosa che, mentre lo facevo, mi ci aggrappavo e non pensavo più a niente. […] Dopo i primi tre giorni di lavorazione avevo deciso di sbaraccare tutto. […] Poi una sera ho messo lo zoom sulla macchina, il 300, ho cominciato a fare delle esperienze, e ho continuato così, giorno dopo giorno. […] La liberazione e l’invenzione tecnica si erano prodotte al di fuori di ogni programmazione. […]

Il Vangelo mi poneva il seguente problema: non potevo raccontarlo come una narrazione classica perché non sono credente ma ateo. D’altra parte io volevo filmare Il Vangelo secondo Matteo, dunque raccontare la storia del Cristo figlio di Dio, dunque raccontare una storia alla quale non credevo.

Dunque non potevo essere io a raccontarla. E’ così che, senza precisamente volerlo, sono stato portato a rovesciare tutta la mia tecnica cinematografica e che è nato questo magma stilistico che è proprio al “cinema di poesia”. Perché, per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto tuffarmi nell’anima di qualcuno che crede. Qui è il discorso libero indiretto: da una parte la narrazione è vista attraverso i miei occhi, dall’altra attraverso gli occhi del credente. Ed è l’utilizzazione di questo discorso libero indiretto che è causa della contaminazione stilistica, del magma in questione.»

Pasolini però, con grande pudore e rispetto, si ferma nel punto in cui il suo sguardo di ateo e il mezzo cinematografico stesso non possono arrivare: «Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, nei rapporti tra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzato dal romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso che è il mistero del mondo. Quello non è demistificabile».


Per chi vuole rivedere una delle scene forse più belle e intense del film, digiti qui sotto: