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20/06/13

Simone Weil: "Accettare che l'avvenire si compia, non aggrapparsi al passato."




Simone Weil, A proposito del «Pater» (estratto).

E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori 

Al momento di proferire queste parole occorre che i nostri debiti siano stati tutti rimessi. Non si tratta soltanto della riparazione alle offese che pensiamo di aver subìto. 

Si tratta anche della riconoscenza per il bene che crediamo di aver compiuto, e in generale di tutto ciò che ci aspettiamo da parte degli esseri e delle cose, di tutto ciò che giudichiamo ci sia dovuto e la cui mancanza susciterebbe in noi il sentimento di essere stati frustrati. 

Sono tutti i diritti che a nostro avviso il passato ci dà sull'avvenire. In primo luogo, il diritto a una certa permanenza. 

Quando abbiamo goduto di qualcosa a lungo, crediamo che sia di nostra proprietà, e che la sorte sia tenuta a lasciarcene godere ancora. 

In secondo luogo, il diritto a una compensazione per ogni sforzo, quale che ne sia la natura – lavoro, sofferenza o desiderio

Ogni volta che esce da noi uno sforzo e non rientra in noi l’equivalente di questo sforzo sotto forma di un frutto visibile, avvertiamo un sentimento di squilibrio, di vuoto, al punto di sentirci come derubati.

Lo sforzo di subire un’offesa ci induce ad aspettarci il castigo o le scuse di colui che ci ha offesi; lo sforzo di compiere il bene ci induce ad aspettarci la riconoscenza di colui che è in obbligo.

Ma questi sono semplici casi particolari di una legge universale della nostra anima. Ogni volta che esce da noi qualcosa, abbiamo un bisogno assoluto che rientri in noi almeno l’equivalente, e siccome ne abbiamo bisogno, crediamo di averne il diritto.

Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose l’universo intero. Pensiamo di aver crediti su ogni cosa. 

Ma tutti i crediti che crediamo di avere sono riconducibili a un credito immaginario del passato verso l’avvenire. 

È a questo credito immaginario che bisogna rinunciare. 

Aver rimesso ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato. 

Significa accettare che l’avvenire sia ancora vergine e integro, rigorosamente congiunto al passato con legami a noi ignoti, ma del tutto libero da quei legami che la nostra immaginazione presume di imporgli. 

Significa accettare altresì la possibilità che l’avvenire si compia, e in particolare che ci accada qualsiasi cosa, e che il domani renda sterile e vana la nostra vita passata. 

Rinunciando d’un sol colpo a tutti i frutti del passato, nessuno escluso, possiamo chiedere a Dio che i peccati da noi commessi non portino nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errori. 

Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire che in noi avvenga questa orribile fruttificazione. 

E attaccandoci al passato, è inevitabile che ci attacchiamo ai nostri crimini, giacché quanto di più essenzialmente cattivo risiede in noi ci è sconosciuto. 

Il credito principale che pensiamo di possedere sull’universo è la permanenza della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri.

L’istinto di conservazione ci fa sentire questa permanenza come una necessità, e noi riteniamo che una necessità sia un diritto. 

Al pari di quel mendicante che disse a Talleyrand: «Signore, bisogna pure che io viva» e al quale Talleyrand rispose: «Non ne vedo la necessità». 

La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla. 

Ma preferiremmo morire piuttosto che riconoscerlo. Per noi l’equilibrio del mondo è un concorso di circostanze tali da lasciare intatta la nostra personalità, come se ci appartenesse

Tutte le circostanze che in passato l’hanno ferita ci sembrano rotture di equilibrio che un giorno o l’altro dovranno essere infallibilmente compensate da fenomeni di segno contrario. 

E viviamo nell’attesa di queste compensazioni.

L’imminenza della morte suscita in noi orrore soprattutto perché ci costringe a renderci conto che tali compensazioni non avranno mai luogo.

La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità

È rinunciare a tutto ciò che chiamiamo «io». Senza eccezioni. Sapere che nel cosiddetto «io» non c’è niente, nessun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far sparire. Accettare tutto ciò. Essere felici che così sia. 

Le parole «sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano già tale accettazione. Per questo subito dopo è possibile proferire: «noi abbiamo rimesso ai nostri debitori». 

La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. 

Se accettiamo pienamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi. 

Perché chiedergli di rimettere i nostri debiti equivale a chiedergli di cancellare il male che è in noi. 

Il perdono è la purificazione. Dio stesso non ha il potere di perdonare il male che è in noi e che in noi persiste. 

Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha posti nello stato di perfezione. Fino allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi rimettiamo ai nostri debitori.

14/03/12

Dove è andato quel che ho vissuto (e che non ricordo)?



Qualche settimana fa mi è capitata una strana cosa.

Un mio parente ha ritrovato un vecchio super-8 di famiglia girato nel 1970.  Lo ha trasformato in supporto digitale e messo a disposizione di noi, che all'epoca eravamo poco più che bambini, i cui volti sono rimasti impressi in quella vecchia pellicola.

E' una giornata normale, deve esserci stata qualche cerimonia, la famiglia si è riunita al mare.  Non è inverno e non è estate. Deve essere una giornata come quelle che stiamo vivendo, di primavera prematura e già calda.

La 'pizza' del film dura 3 minuti, ma è un documento molto chiaro. 

E però la particolarità è questa, e mi fa riflettere: riemerge dall'oblio una giornata della mia vita, che io non ricordo assolutamente di aver vissuto. 


Fino al momento prima di vedere quel film, infatti, io non ho minimamente memoria di quella giornata, che pure ho vissuto, come dimostra incontrovertibilmente il filmato girato.

Sono io quel bambino che cammina, si gira, si tocca i capelli. Sono io quello che siede e ascolta i discorsi dei grandi. Sono io, certamente.

Eppure, se questo filmato non fosse riemerso dalle tenebre, io non avrei saputo nemmeno di aver vissuto quella giornata.   Perché la mia memoria ha cancellato quella giornata, come ha cancellato la stragrande maggioranza delle singole giornate che io ho vissuto nella mia vita.

Eppure, come dimostra questo filmato, quelle giornate esistono. O meglio, sono esistite.  Sono esistite ed esistono, a quanto pare, anche se io non le ricordo, e anche se nessuno le ricorda.

Esistono davvero  ?  Non appare in contraddizione questa esistenza, con la constatazione che spesso facciamo secondo cui qualcosa esiste solo finché c'è qualcuno o qualcosa che ne è testimone e che lo ricorda ? 


Oppure i ricordi e le cose che abbiamo vissuto esistono indipendentemente dal fatto che io le ricordi e che qualcun altro le ricordi ? 


Le moderne teorie quantistiche descrivono il tempo come una quarta dimensione della realtà che viene descritta come un foglio ripiegato in infinite (e inaccessibili) sottili piegature (stringhe) che sarebbero allineate una accanto all'altra (o dentro o attraverso l'altra).

Questo darebbe la possibilità - teorica - di srotolare quelle pieghe e di 'disporre' dei singoli momenti del tempo come singole entità TUTTE esistenti.

Dunque, quella giornata che io non ricordavo, esiste ancora, in qualche piega dell'universo ?

In quella piega ci sono ancora io bambino che ascolto i discorsi dei grandi seduti al tavolino ?

Il breve filmato dal ritmo sincopato che è tornato dal buio del passato, vuol forse dirmi questo ? Vuol dirmi che niente, in fondo, fino in fondo, è definitivamente perduto (anche se io non ne ho memoria, anche se io l'ho... dimenticato) ?


05/03/12

Il tempo è una freccia.



Fa sempre una certa impressione rivedere le immagini del passato. Specialmente quelle - queste - girate con il super-8 che possedeva un fascino unico.
E tornano in mente i versi di Percy B. Shelley: 



Come il fantasma d'un amico amato
è il tempo passato.
Un tono che ora è per sempre volato
via, una speranza che ora è per sempre andata
un amore così dolce da non poter durare
fu il tempo passato.

Ci furon dolci sogni nella notte
del tempo passato.
Di gioia o di tristezza, ogni
giorno un'ombra avanti proiettava
e ci faceva desiderare
che potesse durare
quel tempo passato.