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16/02/20

Libro del Giorno: "La ladra di frutta" di Peter Handke



Personalmente, come tanti elettori, ho accolto con gioia il riconoscimento del Premio Nobel per la Letteratura 2019 al grande Peter Handke, che ha segnato la letteratura degli ultimi 40 anni. 

Peter Handke, nato a Griffen (Austria), nel 1942, è romanziere, drammaturgo e poeta e le sue opere sono state formative per una intera generazione di lettori, non solo europei: Storie del dormiveglia, Falso movimento, Il peso del mondo, La storia della matita, Pomeriggio di uno scrittore, Epopea del baleno, Saggio sul luogo tranquillo, Saggio sul cercatore di funghi, Prima del calcio di rigore, I giorni e le opere, I calabroni oltre alla produzione poetica culminata nel celebre Canto alla durata.  

Ha vinto innumerevoli premi tra cui il premio Franz Kafka nel 2009 e ­l’International Ibsen Award nel 2014.
Famose e celebrate le sue collaborazioni con Wim Wenders, fino a Il cielo sopra Berlino.

Nelle motivazioni dell'Accademia Svedese per il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura si legge: “la sua opera influente che ha esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana”.

E' quello che succede  anche nell'ultimo fluviale romanzo, scritto da Handke, e uscito nel 2019.

Ad aprire il nuovo libro di Peter Handke, definito dall’autore stesso «Ultimo Epos», è una puntura d’ape, la prima dell’anno, che in una giornata di mezza estate rappresenta per lui un segnale. È il momento di lasciare la «baia di nessuno», la casa nei pressi di Parigi, per mettersi in cammino verso la regione quasi disabitata della Piccardia, ripercorrendo l’itinerario compiuto, in un passato non meglio definito, dalla ladra di frutta.

La ragazza – un personaggio sfuggente, dai tratti leggendari – «afflitta dalla smania di vagare» e incline a scartare dalla strada maestra per «sgraffignare» e assaporare i frutti di orti e frutteti, è partita invece con un intento preciso: ritrovare la madre, scomparsa da circa un anno dopo aver lasciato senza preavviso il suo posto di dirigente in una banca.

Il viaggio della ladra di frutta e quello del narratore finiscono per sovrapporsi, per confondersi, per specchiarsi l’uno nell’altro: una serie di peripezie, incontri, folgorazioni ispirate dal contatto con la natura, che culminano in una grande festa.

E questa sarà un approdo e un ricongiungimento, ma anche l’occasione per celebrare il vagare, l’erranza fine a se stessa, tutte quelle deviazioni dal tracciato che regalano visuali e doni inaspettati, come i frutti presi di soppiatto dai frutteti altrui, tema da sempre centrale nella narrativa di Handke. 

Il «semplice viaggio nell’entroterra» è ricco di rivelazioni e scoperte, e diventa, o forse è sempre stato, anche un percorso interiore.

13/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Nella sua piena maturità artistica, e dopo aver già collezionato almeno 5 film fondamentali per la storia del cinema europeo, e non soltanto europeo,  Wim Wenders realizzò Der Himmel über Berlin avvalendosi nuovamente della stretta collaborazione di Peter Handke, il quale scrisse monologhi e dialoghi del film in progress, mentre il film veniva girato (esistono numerosi aneddoti in proposito).

Quel che ne risultò fu una poetica favola metropolitana, dai valori universali.

La storia del film è quella dell'amore di Damiel per un'acrobata circense.  Dalla fine della seconda guerra mondiale, si immagina, Damiel e Cassiel sono gli angeli vigilanti della città di Berlino, sorvegliando e accudendo i pensieri più intimi della gente.

Nelle pause di lavoro, gli angeli s’incontrano alla biblioteca di Stato, dove Omero, il più anziano di tutti, racconta il passato della città e delle sventure che l’hanno afflitta durante la seconda guerra mondiale. 

Gli angeli, con sottile riferimento teologico, possono essere visti soltanto dai bambini, mentre gli adulti non hanno di loro la benché minima percezione. Viceversa, gli angeli vedono il mondo ma senza poterne cogliere gli aspetti più mondani (la loro vista infatti è in bianco e nero). 

Damiel segue, idealmente innamorato, soprattutto Marion, anche lei sorta di angelo, perché lavora come trapezista di un circo che sta per chiudere per mancanza di spettatori. 

Le domande di Marion intercettano le ansie e i dubbi della contemporaneità: il passaggio inesorabile del tempo, l'annullamento dello spazio perpetrato dalla civiltà moderna ha invertito questo rapporto, ed è così che la dimensione del viaggio è stata annullata. Il problema dell'anima e della identità, e quello del male, che grava sempre sull'uomo. 

A Berlino inoltre si girano le riprese di un film giallo ambientato durante la seconda guerra mondiale che ha come protagonista Peter Falk, il “tenente Colombo” di una serie televisiva di sceneggiati polizieschi di grande successo. 

Anche lui, si scoprirà, un angelo decaduto dalla propria condizione che è diventato un essere mortale.  Il quale, nelle sue vesti "umane"  convincerà Damiel a incarnarsi, per amore di Marion. 

Precipitato nella condizione umana, Damiel si ritrova accanto al muro che divide in due la città e vede improvvisamente i colori del mondo, provando tutte le sensazioni degli esseri mortali: quelle piacevoli e quelle spiacevoli. 

E' proprio in questa commistione tra umano e angelico, tra uomo e oltre-uomo che il film gioca le sue suggestioni filosofico-poetiche, da Dante ad Heidegger. 

Un film insomma, che si respira come una profonda riflessione sulla condizione umana, ma che vola alto sulle ali della poesia, nel meraviglioso bianco e nero di Henri Alekan.

L'opera di Wenders, tra i mille premi in tutto il mondo, conquistò la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1987.

IL CIELO SOPRA BERLINO 
(Der Himmel über Berlin) 
Germania, Francia, 1987, 
Regia Wim Wenders 
durata: 128 minuti
con Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk, Otto Sander, Curt Bois 

13/06/18

Il Libro del Giorno: "Il Peso del Mondo" di Peter Handke.


Nella splendida traduzione di Raoul Precht del 1981, uno dei libri più famosi della copiosa produzione di Peter Handke, nato a Graffen in Austria e oggi considerato unanimemente uno dei massimi scrittori viventi. 

Scritto nel 1977, nel giro di anni in cui Handke produsse alcuni capolavori come Pomeriggio di uno scrittore, Falso Movimento (sceneggiatura dell'omonimo film di Wim Wenders), La donna mancina, Prima del Calcio di Rigore, Il peso del mondo è una sorta di diario intimo o di appunti scritto tra il 1975 e il 1977 quando Handke si era già trasferito a vivere a Parigi. Anche se lo stesso scrittore, nella premessa al testo, usa il termine reportage.

Il reportage di una coscienza e di una coscienza sensibile, che registra cose minime: le variazioni impercettibili del cielo o delle nuvole, o delle foglie su un ramo, con la stessa minuzia e precisione da entomologo con cui segna i movimenti impercettibili del cuore e dei pensieri ad esso collegati. 

Le letture preferite, gli scarti amorosi con una donna, gli atteggiamenti della piccola figlia che cresce, le insofferenze e le idiosincrasie nei confronti delle piccole e grandi meschinità del mondo, gli incessanti andirivieni nella città, l'osservazione acuta dei passanti, degli avventori, degli estranei incontrati nel corso di una giornata, l'autoanalisi dei propri moti di reazione, l'indagine precisa sulla gioia e sulla pena del vivere. 

Il Peso del Mondo è come l'affaccio sul cuore di un vivente, confuso dalla realtà che vive, diventata sempre meno intellegibile, sempre più confusa, sempre più disorientante, eppure se possibile ancora più vibrante e viva. 

Attraverso la calma inseguita delle ore - Il massimo: non raggiungere la coscienza di se stessi attraverso la collera e l'aggressività, e nemmeno umiliandosi ecc., ma con calma, lo scopo: coscienza di se stesso nella calma - e della contemplazione che è indotta dalla stanchezza (Il Saggio sulla stanchezza è uno dei più bei testi scritti da Handke negli anni seguenti) e dal peso del mondo, che non può essere ignorato, e va attraversato e sopportato vivendo, di tanto in tanto, senza freni.

Un testo da riscoprire e da riapprezzare maggiormente in questi tempi confusi e poveri. 



12/03/17

Poesia della Domenica: "Canto alla durata" di Peter Handke.



"Si era rivolta a me [...] e come dall'alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. [...]
Ecco, la durata è la sensazione di vivere. [...]
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita.


E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell'affetto
per i vivi
- per uno di loro -
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
E questo non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovraumana,
non è guerra, non è un allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
Sì, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa più importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un'espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitareun anno dopo l'altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo. [...]

Ma anche continuare per anni a essere ben disposto nei tuoi confronti
può darti durata.
Sapermi guardare amichevolmente negli occhi
talvolta mi assolve. [...]
Essere indulgente con i miei difetti [...]
rabbonirmi, se mi viene fatto un torto,
come mio unico parente,
battermi il petto
in trionfo per una parola felice
al posto giusto
e urlare un «sì» nella foresta della mia stanza
può ringiovanirmi
come una bottiglia di prelibatissimo vino
(con effetto però diverso).


Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto. [...]


Anche a casa mi si fa accanto molte volte
quando cammino su e giù per il giardino
nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale,
[...] oppure quando mi siedo nella mia stanza
al cosiddetto tavolo da lavoro -
non per attendere alla mia occupazione, al testo,
ma per fare tutti quei soliti gesti secondari:
spostare indietro la sedia,
dare uno sguardo nel cassetto [...]
sbirciare dalla finestra in giardino
dove i gatti lasciano le loro tracce
nella neve profonda e tra l'erba alta,
mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento
il fischio e il trabalzare
dei treni che percorrono la pianura.


O durata, mia quiete!
O durata, mia sosta! [...]


La durata è il mio riscatto,
mi lascia andare ed essere. [...]
Chi non ha mai provato la durata
non ha vissuto.


La durata non stravolge,
mi rimette al posto giusto".


Da Canto alla durata, Peter Handke, Einaudi, 1995, traduz. H. Kitzmuller. 

03/07/15

Il dialogo tra due angeli - Il cielo sopra Berlino.





Cassiel: Alla fermata Zoo del metrò, un impiegato, invece di dire il nome della stazione, improvvisamente ha gridato: "Terra del Fuoco".

Damiel: Bello.

Cassiel: Sulle colline, un vecchio leggeva l'Odissea a un bambino, e il piccolo uditore smise di socchiudere gli occhi. E tu cos'hai da raccontare?

Damiel: Una passante, che sotto la pioggia chiuse di colpo l'ombrello, lasciandosi bagnare tutta. Ah, ecco: uno scolaro, che descriveva al suo maestro come una felce nasce dalla terra. Ha fatto stupire il maestro. Una cieca, che quando si accorse di me si mise a tastare l'orologio. Sì, è magnifico vivere di solo spirito e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l'eternità, soltato ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa, e allora non vorrei più fluttuare così in eterno, vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi quest'infinitezza, legandomi in qualche modo alla terra. A ogni passo, a ogni colpo di vento, vorrei poter dire: "ora", "ora" e "ora". E non più: "da sempre", "in eterno". Per esempio, non so: sedersi al tavolo da gioco ed essere salutato, anche solo con un cenno. Ogni volta che noi abbiamo fatto qualcosa, era solo per finta.


Il dialogo tra i due angeli Damiel e Cassiel tratto da Wings of Desire, Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders, dialoghi di Peter Handke.

05/06/15

"Vivo nel bosco: ascolto gli alberi che sussurrano " - Intervista a Peter Handke di Alessandra Iadicicco.




Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.

Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.

Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».

Perché?

«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».

Quando? E la salvò da che cosa?

«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».

Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…

«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».

Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.

«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».


Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...

«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».

E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.

«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».

E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità». 

«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».

I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali… 

«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».

Come trascorre le sue giornate da solo qui

«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».

intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 


La casa di Peter Handke a Chaville

17/10/14

Handke: "Modiano è un grande scrittore, ma aboliamo il Nobel."



Lo scrittore austriaco residente a Parigi, Peter Handke, ha dispensato grandi lodi al collega francese Patrick Modiano, insignito quest'anno del Nobel per la letteratura, criticando pero' il prestigioso premio letterario e proponendo anzi di abolirlo.

"Modiano e' davvero un autore notevole con un'opera unica", ma il riconoscimento, con la sua "falsa canonizzazione" della letteratura, non porta nulla di buono: "il Premio Nobel andrebbe finalmente abolito", ha detto Handke in dichiarazioni all'agenzia austriaca Apa. 

Secondo il 71/enne scrittore austriaco, autore di capolavori come i romanzi', Breve lettera del lungo addio, Infelicita' senza desideri, il Nobel porta "un momento di attenzione, sei pagine nel giornale", ma per la lettura non porta nulla. 

Handke ha ammesso che l'essere stato lui stesso quest'anno nella rosa dei candidati al Nobel, non lo ha lasciato indifferente: "certo che ti prende, ti infastidisce, e allora ti infastidisci con te stesso perché ci pensi: è una cosa così indegna e al contempo si diventa per un po' se stessi indegni". 

Handke aveva scoperto e presentato al pubblico tedesco Modiano negli anni '80 e tradotto fra l'altro in tedesco anche il suo romanzo 'Una gioventù". Modiano scrive quello che ha in mente e il risultato continua poi a librarsi, ha spiegato: "in molti autori dopo non si libra nulla". 

A differenza dell'ultimo Nobel francese, Jean-Marie Gustave Le Clezio, Modiano e' davvero un bravo scrittore: "questa e' una cosa molto rara".

14/06/14

Libri: Guanda rilancia Handke, nuove opere e riedizioni.



Guanda rilancia le opere di PeterHandke e ha acquisito i diritti dei suoi ultimi libri. 

Arriva nelle librerie italiane il 19 giugno Saggio sul luogo tranquillo, una riflessione dello scrittore austriaco sul luogo più appartato della casa, dove si può stare lontani dai clamori del mondo.



Contemporaneamente Guanda propone, in nuova edizione, due dei titoli più significativi dello scrittore austriaco: Il peso del mondo e Storie del dormiveglia.

Inoltre Guanda ha acquisito, per una pubblicazione nella primavera 2015, il libro più recente dell'autore, Versuch uber den Pilznarren (Saggio sul raccoglitore di funghi).

Di Peter Handke, oggi uno dei maggiori scrittori di lingua tedesca, verrà anche riproposto entro il 2015 uno dei titoli più importanti della backlist, Prima del calcio di rigore. 


26/04/14

Lessico dei poeti 7 - 'Stanchezza'.


Peter Handke

Sembra quasi un controsenso, che una parola come questa possa far parte del lessicodei poeti, anime per definizione inquiete, sempre tese verso l’indicibile. 

Eppure ci sono tanti modi di intendere la stanchezza, un sentimento con il quale si ha molto a che fare nella vita di tutti i giorni. Uno dei modi possibili è quello descritto da Peter Handke, nel bellissimo Saggio sulla stanchezza ( Garzanti, 1991 ). 

Qui lo scrittore austriaco racconta di cosa gli accadde dopo un interminabile e scomodo viaggio dall’Alaska a New York. 

Giunto in albergo, dopo una notte insonne, e pieno solo di stanchezza, rinunciò a coricarsi. Scese in strada,  soltanto per assistere alla solita confusione di passanti e traffico che si svolgeva di fronte ai suoi occhi di fronte ai cancelli del Central Park. 

E qui, ecco il miracolo, ecco la sorpresa: l’angoscia si trasforma in pura stanchezza, la stanchezza in bellezza. Fino a sera inoltrata – scrive Handke – non feci più altro se non stare seduto e guardare; era come se intanto non avessi neanche bisogno di respirare. Dalla stanchezza venne tolto come per miracolo l’Io solipsistico, eterna causa di irrequietezza: niente altro più che occhi liberati.

Una stanchezza come risanamento, dunque, come riconciliazione con se stessi. Come accettazione di un destino umano, in fondo. Contro la stanchezza, infatti, solitamente non facciamo altro che combattere, rifiutandola, cercando disperatamente qualcosa che ci occupi, che ci distragga. 

Questa stessa stanchezza, contemplativa e sublime, si ritrova spesso nei versi dei poeti. Luciano Erba, milanese, ha scritto nella raccolta L’ippopotamo (Einaudi, 1989 ) diverse poesie nelle quali riecheggia questo mood. Lo stesso animale, l’ippopotamo, è quanto di più perfettamente rispondente all’immagine della stanchezza, eternamente immerso nei suoi bagni di fango.

E’ un giorno di bianchi pennacchi
di fumo stampato sul cielo
da un vento che porta la neve
e arrossa le mani dei preti
è un prato un po’ fuori città
tra cose in uso e in disuso
tra case senza balconi
e un margine di ferrovia
vi asciugano molte lenzuola
con panni di vari colori 
dal viola a lievissimi rosa 
vi corre accanto il mio treno 
annoto: bucato sui fili
più altri segnali femminili.

E’ la poesia intitolata Viaggiatori, e tutto il dolce mistero è in quella parola al penultimo verso: annoto
La stanchezza del vivere non permette di fare altro: annotare. Ma è già molto. 
Significa sottrarre le cose, gli eventi, anche quelli apparentemente insignificanti, all’oblio. E questo rende consapevoli, rende felici.

Qui le altre voci del Lessico dei Poeti: 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

08/02/14

La lentezza, secondo Peter Handke.





Più di dieci anni fa presi un volo notturno da Anchorage, in Alaska, per New York.

Fu un volo molto lungo, con decollo, un pezzo dopo mezzanotte, dalla città sul Cook Inlet - nel quale, quando si alza la marea, i blocchi di ghiaccio, drizzandosi tutti, penetrano al galoppo, per rifluirne poi, quando la marea si abbassa, nel vasto oceano, ormai grigiastri e neri - , uno scalo intermedio ad Edmonton/Canada, mentre spuntava l'alba e c'era nevischio, un altro scalo, girando nel circuito di attesa, e poi in coda giù sulla pista, nell'abbagliante sole mattutino di Chicago, e atterraggio nel soffocante pomeriggio molto fuori New York.

Finalmente in albergo, volevo mettermi subito a dormire, come malato - tagliato fuori dal mondo - dopo la notte senza sonno, aria e movimento.

Ma poi vidi in basso le strade lungo il Central Park dilatate dal sole del primo autunno, nelle quali - così mi pareva - la gente passeggiava come i giorni di festa, e all'idea che ora lì nella stanza mi sarei perso qualcosa, mi sentii attratto fuori verso di esse.

Mi sedetti al sole sulla terrazza di un caffé, vicino al fracasso e ai fumi di benzina, ancora stordito, anzi dentro di me indotto a un temibile tentennamento dalla nottata insonne.

Ma poi, non so più come, a poco a poco ?, o di nuovo passo per passo ? la trasformazione.

Una volta ho letto che i depressi potevano superare le loro crisi, se per notti e notti venivano impediti di dormire; in tal modo il "ponte sospeso dell'Io", pericolosamente vacillante, si sarebbe ristabilizzato.

Quella immagine l'avevo presente, mentre ora in me l'angoscia lasciava il posto alla stanchezza. Questa stanchezza aveva qualcosa di un risanamento.  Non si diceva "lottare contro la stanchezza"? - Questo duello era finito.

Adesso la stanchezza mi era amica.

Ero di nuovo qui, nel mondo, e addirittura - non perché fosse Manhattan - al centro di esso. Ma a questo si aggiungevano altre cose, molte, e ciascuna una delizia più grande dell'altra. 

Fino a sera inoltrata non feci più altro, se non stare seduto a guardare; era come se intanto non avessi più bisogno nemmeno di respirare.

Niente vistosi e esibiti esercizi di respirazione o tecniche yoga: siedi e respiri alla luce della stanchezza ora, quasi per caso, bene. 

Passavano in continuazione molte donne, all'improvviso indicibilmente belle - una bellezza che lì per lì mi inumidiva gli occhi -, e tutte nel passare prendevano nota di me: mettevo conto.(Strano che soprattutto le donne belle notassero questo sguardo di stanchezza, come anche molti uomini anziani e i bambini).  

Ma non ci pensavo proprio che noi, una di loro e io, al di là di questo cominciassimo qualcosa insieme; da loro non volevo niente, mi bastava poterle finalmente guardare in quel modo.  

... E in quelle ore c'era pace anche al Central Park. E la cosa sorprendente è che la mia stanchezza là pareva collaborare al momento di pace - acquietando ? attenuando ? - disarmando ogni volta già sul nascere con lo sguardo i gesti di violenza, di rissa o anche soltanto di scortesia, in virtù di una compassione del tutto diversa da quella a volte sprezzante della stanchezza da lavoro creativo: in virtù della commiserazione come comprensione. 

.. Grazie alla mia stanchezza il mondo si sbarazzava dei suoi nomi e diventava grande.


Peter Handke, tratto da Saggio sulla stanchezza, Traduzione di Emilio Picco, Postfazione di Rolando Zorzi, Garzanti (Coriandoli), 1991.




04/06/13

Canto alla durata - di Peter Handke.




quel senso di durata cos’era?
era un periodo di tempo?
qualcosa di misurabile?
una certezza?
No, la durata era una sensazione,
la più fugace di tutte le sensazioni,
spesso più veloce di un attimo,
non prevedibile non controllabile,
inafferrabile non misurabile.
Eppure con il suo aiuto
avrei potuto affrontare sorridendo ogni avversario
e disarmarlo
e se mi considerava un uomo malvagio
l’avrei convinto a pensare
“egli è buono!”
e se esistesse un dio,
sarei stato la sua creatura
finché provavo quella sensazione della durata.
….
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi
in cui ci si sente avvolgere
da cosa? da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono insieme.
“ci vogliono giorni, passano anni”
Goethe mio eroe
e maestro del dire essenziale,
anche questa volta hai colto nel segno:
la durata ha a che fare con gli anni
con i decenni, con il tempo della nostra vita.
ecco la durata è la sensazione di vivere.
….
Ancora una volta ho capito che l’estasi è sempre un che di troppo,
è la durata invece la cosa giusta.

Da Canto alla durata, Peter Handke, Einaudi, 1995, traduz. H. Kitzmuller.