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19/02/21

Roma omaggia John Keats a 200 anni dalla sua morte



Sedotto dalla bellezza architettonica e paesaggistica di Roma ma soprattutto attratto dal suo clima mite, il poeta inglese John Keats scelse di vivere nella Capitale per cercare sollievo dalla tubercolosi, malattia che lo stava consumando e che aveva gia' ucciso sua madre e suo fratello. 

Trovò un appartamento al secondo piano della centralissima piazza di Spagna al civico 26, sul lato destro della scalinata di Trinita' dei Monti

Abitò quell'appartamento assieme al fedele amico e pittore Joseph Severn e ad altri artisti inglesi, tutti di passaggio durante il loro Gran Tour nel nostro Paese. 

Ma nel cuore di Roma, in quella che oggi è una casa ricca di preziose testimonianze e di tributi letterari, il giovane autore di Ode to a Nightingale scomparve prematuramente il 23 febbraio del 1821

Aveva appena 25 anni ma le sue odi e il suo talento artistico lo avevano gia' inserito tra le voci piu' autorevoli e significative del Romanticismo inglese. 

Oggi la casa-museo del poeta, dove passarono anche lord Byron e Percy Bysshe Shelley, si sta preparando a celebrare i due secoli dalla sua morte con visite guidate virtuali nell'appartamento dove Keats mori' di tubercolosi e tra le stanze che ospitano ritratti e manoscritti, mobili e cimeli di Keats e di altri grandi poeti inglesi, tutti innamorati di Roma

Oltre alle due sale espositive, della Keats-Shelley Memorial House si visitano anche la terrazza, una sala da te', un negozio di libri, una piccola stanza per la proiezione di video sui poeti romantici e soprattutto una delle piu' belle e ricche biblioteche di letteratura romantica del mondo, con oltre 8 mila volumi

Alle celebrazioni per il bicentenario si aggiunge anche una serie di video-racconti girati nella casa-museo, tra cui il filmato immersivo "The Death of Keats", con la voce narrante della rock star e attore irlandese Bob Geldof, ambasciatore dell'iniziativa Keats-Shelley200. 

La video-storia, innovativa e coinvolgente, racconta attraverso la lettura delle lettere di Keats il suo viaggio in Italia, la permanenza nell'appartamento di piazza di Spagna e la sua scomparsa. 

Inaugurato nel 1909, il museo dedicato a Keats e a Shelley è un viaggio nel Romanticismo inglese, un santuario dedicato a tutti quegli artisti d'Oltremanica che trovarono ispirazione nei bucolici paesaggi italiani. In realtà, i mobili e gli oggetti lasciati da Keats nella sua stanza non sono quelli originali perché tutti i suoi beni vennero bruciati subito dopo la sua morte per impedire, secondo le credenze del tempo, la diffusione della malattia. 

Eppure entrando nella camera che si affaccia sulla celebre piazza si ha la sensazione di vedere il poeta intento a leggere e a scrivere sul suo scrittoio. 

Gli unici due oggetti originali sono il camino e la maschera mortuaria di Keats posizionata accanto al letto. 

Le visite guidate virtuali nella casa-museo partono il 23 febbraio, giorno della commemorazione, e si prenotano sul sito: ksh.roma.it 

Ma gli omaggi di Roma non finiscono qui: John Keats venne sepolto nel cimitero acattolico di Testaccio, vicino alla Piramide Cestia, un luogo di pace e di grande suggestione. 

Accanto alla tomba di Keats, sulla cui lapide si legge "Qui giace un uomo il cui nome fu scritto sull'acqua", riposa l'amico di sempre, il pittore Joseph Severn che morì 58 anni dopo la scomparsa del poeta. 

Poco lontano una lapide ricorda che qui, nel Cimitero degli Inglesi, come viene chiamato, furono sparse le ceneri di Shelley, altro grande poeta britannico e grande amico di Keats

Quando, nel 1877, Oscar Wilde si reco' in visita alla tomba di colui che considerava il piu' grande poeta del secolo, defini' il cimitero acattolico come il posto piu' sacro di Roma

Anni dopo, nel 1881, dedico' al giovane poeta romantico il sonetto The Grave of Keats, esposto oggi nel salone nella casa-museo. 

06/01/21

La statua di Lord Byron a Villa Borghese e una decapitazione a Piazza del Popolo

 

La statua di Lord Byron a Villa Borghese

7. La statua di Lord Byron a Villa Borghese e i fantasmi

 

Figlio di un padre che non conobbe mai e di una madre che lo asfissiò, ossessionandolo sia fisicamente che psicologicamente, George Gordon Noel Byron, più conosciuto come Lord Byron, nato a Londra nel 1788, divenne come è noto il più celebre poeta dei suoi tempi. Non solo: la sua vita faticò molto a dividersi dalla sua arte: Byron anzi fu in un certo senso il vero, perfetto dandy.  Chiacchieratissimo da vivo per i suoi scandali e per le continue eccentricità (come quando si fece rinchiudere nella Cella del Tasso, a Ferrara o come quando attraversò a nuoto lo stretto dei Dardanelli), Byron morì nel 1825 in Grecia, a Missolungi, in seguito a una febbre reumatica contratta a Cefalonia, che degenerò in meningite delirante. E proprio come accade per le rockstars di oggi, la sua morte divenne un evento, lasciando inconsolabili fans a lamentarne la dipartita.

Poco tempo dopo la morte, alcuni amici si misero insieme raccogliendo la somma di mille sterline per commissionare una statua dello scrittore. Tra i vari scultori pretendenti fu scelto il danese Bertel Thorvaldsen, il quale si trovava in quel periodo in Italia.

La scelta non fu casuale: lo scultore aveva già ritratto Byron vivo nel brevissimo e intenso soggiorno romano del poeta a Roma, nel suo studio di piazza Barberini, per incarico di John Cam Hobhouse, che del poeta era compagno di viaggio e studio. Con tanto di lodi sull’artista da parte dello stesso Byron, il quale l’aveva definito nei suoi diari «Il migliore dopo Canova, al quale anzi alcuni lo preferiscono».

Il busto, dopo varie peregrinazioni, era finito a Londra nella sede della casa editrice di John Murray, e fu dunque utilizzato come modello per la nuova e più grande opera.

La statua fu iniziata dallo scultore nel 1829 ma Thorvaldsen impiegò molto tempo per completarla poiché, proprio a causa della fama scandalosa che avvolgeva ancora la figura di Byron, fu rifiutata da tutte le istituzioni che avrebbero dovuto ospitarla: il British Museum, la Cattedrale di Saint Paul, l’Abbazia di Westminster e la National Gallery, trovando finalmente la sua collocazione nel 1834 nella biblioteca del Trinity College di Cambridge. Thorvaldsen contraddisse, non si sa quanto consciamente, la volontà di Byron, che in vita, proprio avendo a cuore la promozione della sua immagine, aveva chiesto agli artisti che lo effigiavano (erano numerosissimi: il merchandising intorno a Byron aveva prodotto ritratti, bassorilievi su medaglioni di marmo e perfino anelli con la sua immagine) di ritrarlo non come un poeta, e cioè con il libro e la penna in mano, ma come un “uomo d’azione”. Thorvaldsen, invece, raffigurò Byron proprio nella posa classica dei poeti, seduto su di uno scranno di marmo, con un libro aperto nella mano sinistra, la penna nella destra, poggiata sul mento.

La statua comunque, dopo le difficoltà iniziali, ebbe grande successo e vi fu una produzione numerosa di copie, nel corso degli anni, una in ogni città dove Byron aveva soggiornato: una fu realizzata anche a Roma, inaugurata nel 1959, e si può ammirare nel cuore di Villa Borghese, in via della Pineta.

Sul piedistallo della copia romana, sono incisi brani tratti dal poema di Byron, Childe  Harold Pilgrimage, dedicati all’Italia:

 

 

of the world, the home

                       Of all Art yields, and Nature can decree,

         Even in thy Fair Italy!

                       Thou art the garden desert, what is like to thee?

                       Thy very weeds are beautiful, thy waste

                       More rich than other climes’ fertility;

                       Thy wreck a glory, and thy ruin graced

                       With an immaculate charm which cannot be defac’d

 

Sullo scranno di marmo poi, dalla parte sinistra sono raffigurati alcuni simboli esoterici: un teschio, un gufo e due lettere greche, l’alfa e l’omega.

Il perché di questa simbologia si spiega con l’enorme fascinazione di Byron per il mistero, che a Roma, in quei ventidue giorni trascorsi nella capitale, aveva trovato terreno assai fertile.

A Roma Byron arrivò nella primavera del 1817, interrompendo un gaio soggiorno veneziano, proprio per realizzare il sogno di vedere da vicino quella città che lo aveva sempre – da lontano – ammaliato. Un medico infatti prescrisse al poeta di allontanarsi dall’umidità veneziana, per guarire da un “mal di petto”. Byron  non se lo fece ripetere e colse l’occasione per realizzare il suo sogno, attraversando l’Italia con il suo corteo al seguito, una carrozza con i sedili reclinabili e una quantità enorme di bagagli.

Giunto nella capitale, andò abitare nella centralissima piazza di Spagna, al numero 66. E non aspettò nemmeno un minuto per cominciare a esplorare la città in sella al suo cavallo. L’impressione che ne ricavò fu immediata e stordente: «Sono incantato da Roma come lo sarei da una cappelliera di pizzi», scrisse al suo editore John Murray, «e di Roma non vi dirò nulla: è indescrivibile. La guida qui vale più di ogni altro libro. Ho passato tutta la giornata a cavallo» (3).

Le sue peregrinazioni lo portarono al Colosseo, al Pantheon, a San Pietro, sul Palatino e perfino fuori Roma, a Frascati, Albano e Ariccia.

Byron sentì le rovine e i monumenti come muti testimoni di una tragedia immane, popolati di presenze ancora vive. Nel Pellegrinaggio di Aroldo rievoca – come in una visione – l’episodio del gladiatore agonizzante nell’arena:

 

Stavo tra le mura del Colosseo,

In mezzo ai grandi resti della potente Roma.

Gli alberi che crescevano lungo gli archi spezzati

Oscillavano oscuramente nell’azzurro cupo della notte,

E le stelle splendevano tra gli squarci delle rovine;

Un cane da guardia latrava oltre il Tevere;

E più vicino, dal palazzo dei Cesari, veniva

Il lungo lamento del gufo e, a tratti,

Il canto inquieto di lontane sentinelle

Sorgeva e si smorzava sul vento leggero[U2] .

 

Un brano talmente straziante che Stendhal, anche lui in quei giorni di passaggio a Roma, riprende nelle sue Passeggiate Romane, animandolo in una notte di suggestiva luce lunare. (4)

E nell’arco di quei ventidue intensissimi giorni, il dandy pallido e fascinoso ebbe modo anche di scoprire il lato tragico contemporaneo di Roma. In un’altra lettera del 30 maggio di quell’anno, sempre indirizzata a Murray, Byron descrive minuziosamente l’esecuzione capitale cui gli accadde di assistere: riguardava tre ladri (erano, come risulta dal puntiglioso diario di Mastro Titta, il boia: Giovan Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni) decapitati nella piazza del Popolo con l’accusa di “omicidi e grassazioni”.  Byron racconta il macabro spettacolo: i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere della lama, lo schizzare del sangue e l’apparizione spettrale delle teste esposte. Tutto questo, scrive Byron, «è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cani inflitta alle vittime delle sentenze». (5)

Forse fu proprio l’aver assistito a questo spettacolo cruento uno dei motivi che spinsero Byron ad interrompere presto il suo soggiorno a Roma: dopo ventidue giorni e notti di ruderi e cavalcate, di frequentazioni dell’alta società romana e di soste al Caffè Greco, il poeta decise di far ritorno al Nord, portandosi dietro i fantasmi di Roma che ritornarono a farsi vivi nei suoi poemi.

 Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015

1. Il primo a parlare di una corrispondenza tra il profilo della Villa Strohl Fern e l’Isola dei morti di Boecklin fu Gianni Rodari in Quel pasticciaccio di Villa Strohl-Fern. La bistrattata isola di verde sopra Piazzale Flaminio, «Paese Sera», 23 settembre 1975.

2. A. Trombadori, Villa Strohl Fern, «Strenna dei Romanisti», 21 aprile 1982.

3. Vedi  G. Scaraffia, Quella Roma di Lord Byron, «Il Messaggero», 27 luglio 2015.

4. Vedi  C. Rendina, Le notti di luna di Byron sospeso sui misteri di Roma, «la Repubblica», 24 luglio 2007.

5. Vedi  C. Rendina, ibidem.

 

 

21/09/16

Riapre la Scalinata di Trinità dei Monti dopo il Restauro. Strinati: "Non sia più luogo di bivacchi e vandalismi".





La sosta sulla Scalinata di Trinita' dei Monti, recentemente restaurata e che il 22 settembre sara' restituita alla citta', "deve essere consentita ma deve essere regolamentata, perche' la Scalinata e' stata concepita come via di transito".

A sostenerlo e' Carlo Strinati, storico ed ex sovrintendente a Roma, in un lungo documento diffuso dal presidente dell'Associazione Via Condotti Gianni Battistoni e sottoscritto da alcune personalita' del mondo della cultura, dell'arte e delle attivita' produttive: Roberto Wirth, Umberto Galimberti, Massimiliano Fuksas, Masolino D'Amico, Dante Ferretti,Paolo Giorgi, Bedy Moratti, Jas Gawronski, Michele Dall'Ongaro, Adriana Asti,Gianni Rivera, Anna Fendi,Giorgio Ferrara e Lucio Villari.

La scalina, dice Strinati, "deve essere vissuta, ma non puo' essere utilizzata come fosse l'uscita di uno pseudo pub irlandese all' italiana, dove si beve, ci si ubriaca, si schiamazza, si molestano le persone tra loro, si fanno i propri bisogni corporali e si rompono spesso e volentieri gli arredi urbani che abbiano la disgrazia di trovarsi nei dintorni".

 "Certo non si propone qui - aggiunge lo storico - di riprodurre i divieti della Spagna franchista ( visto che siamo a piazza di Spagna) per cui non ci si poteva riunire in più di poche persone pena l' arresto. Ma prima di tutto deve essere escluso a priori l' utilizzo della parte centrale della Scalinata per sedersi e sostare. Puo' e deve essere invece consentito nelle parti laterali e nelle due piazze lungo la salita ma senza riempire integralmente i gradini impedendo cosi' a chi cammina di passare. Il vincolo forse gia' esiste. Ove cio' fosse deve essere applicato. Ove non esista e vi siano le condizioni giuridiche, si applichi. Ove la proprieta' pubblica inibisca l' apposizione del vincolo venga allora la Scalinata regolamentata con norme di disciplina urbana apposite e venga vigilata da vigili urbani. Certo, si dira', e' una utopia, ma a ben vedere non e' utopistico che la nuova amministrazione capitolina ripristini la tipologia dei servizi di vigilanza su Ville, palazzi e transiti pubblici di rilevante interesse e qualita' storica, un servizio che esisteva al tempo della nostra infanzia e funzionava pure. Non e' impossibile, e l' amministrazione romana appena insediata - conclude - potrebbe individuare in questa riattivazione di funzioni un nobile e sacrosanto obbiettivo".

Fonte: ANSA

24/02/15

Piazza di Spagna, la Barcaccia, il malocchio e il fischio di Mosè.




Piazza di Spagna, il malocchio e il fischio del Mosè. 

Per molto tempo, la Piazza di Spagna fu definita cristianissima piazza, quasi si trattasse della Piazza più santa di Roma, ancor più di Piazza San Pietro. 

Ciò si doveva in parte alla pianta della Piazza, che sembra ricalcata quasi sul monogramma di Cristo, cioè il Labarum, il Chi-Ro, con le due lettere greche simbolizzate dalle quattro strade laterali che vi convergono e che sembrano una ics (la Chi greca) e l’asse centrale che l’interseca (da Via Condotti alla Scalinata) che rappresenterebbe la erre (la Ro greca); in secondo luogo per l’affollamento di edifici o monumenti di ispirazione cristiana che vi si affacciano, la Chiesa di Trinità dei Monti, il collegio di Propaganda Fide, la Barcaccia del Bernini che sembra richiamare la navicella di San Pietro e infine la colonna dell’Immacolata. 

Questa, ha una storia davvero particolare. Alta quasi dodici metri e con un diametro di un metro e mezzo fu rinvenuta integra durante scavi eseguiti nel 1778, e proveniva probabilmente dal complesso degli edifici augustei che sorgevano in quella zona nel I secolo d.C. 

Proprio per le sue notevoli dimensioni, però, la colonna rischiò incredibilmente di essere di nuovo sotterrata. 

Al contrario degli altri frammenti ritrovati in quegli scavi che si prestavano ad un rapido reimpiego, era difficile trovare una giusta collocazione ad una colonna così imponente. Restò dunque malinconicamente abbandonata per molti anni nei pressi del Quirinale, in attesa di una occasione per un suo riutilizzo, occasione che arrivò quando papa Pio IX decise di celebrare il dogma dell’Immacolata Concezione da lui proclamata. 

L’inaugurazione della Colonna (grazie ai diecimila scudi versati al Papa da Ferdinando II di Borbone), nella nuova collocazione avvenne l’8 dicembre – festa dell’Immacolata – del 1854, e a sorpresa, il Papa non fu presente. 

Uno dei cronisti dell’epoca, il britannico Norton, che era protestante, colse allora subito l’occasione per ironizzare sul Pontefice, vaticinando che l’opera avrebbe avuto sicuramente una ottima riuscita, visto che – come scrisse nei suoi diari – ho sentito dire che la sua presenza era temuta per la fama che egli ha di portare il malocchio. 


Davvero irriverente, nei confronti di un Papa... La Colonna, poi fu oggetto anche di un’altra celebre pasquinata: quando furono svelate le quattro statue alla base del monumento, rappresentanti i quattro profeti, Isaia, Ezechiele, David e Mosè, il popolo non tardò ad accorgersi che l’ultima di queste statue – proprio quella di Mosè – aveva una bocca che appariva sproporzionatamente piccola.

Pasquino allora scrisse uno sferzante epigramma, facendo finta di rivolgersi al Mosè, come aveva fatto Michelangelo, dicendogli: Parla ! E il Mosè dalla bocca piccola, gli rispondeva: Non posso ! E di rimando Pasquino: Allora fischia! E il Mosé: Sì, fischio lo scrittore ! Che era il povero e inconsapevole Ignazio Jacometti.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma  2013, 412 p., ill., rilegatoEditore Newton Compton.

29/05/12

Gli obelischi di Roma - 10. Obelisco Sallustiano.



Il nostro cammino tra i 13 Obelischi autentici egiziani presenti a Roma (qui le precedenti puntate), raggiunge oggi uno dei più scenografici, quello che si trova al culmine della Scalinata di Trinità de' Monti. 


10. Obelisco Sallustiano

anno di rierezione: 1789 

altezza: m. 13,9 (m.30,3 incluso basamento) 

Geroglifici 

Origine egizia ignota.

I geroglifici sono stati scolpiti in età romana, copiando quelli incisi nell’obelisco eretto da Augusto al circo massimo (ob. Flaminio). 

Eretto molto probabilmente dall’imperatore Aureliano per ornare l’ippodromo Sallustiano, che faceva parte degli horti, amenissimi giardini che Caio Sallustio Crispo, amico di Giulio Cesare fece allestire sull’attuale colle del Pincio.

Rimasto sempre semisepolto tra i resti degli horti, dopo la distruzione probabilmente operata dai goti di Alarico ( 410 d.c.). 

Ricordato da Ammiano Marcellino e Michele Mercati che lo descrive giacente in due pezzi nella vigna ora diventata degli Orsini.


Pio VI nel 1786 decide il recupero e la rierezione ad opera dell’architetto Giovanni Antinori, di fronte alla Chiesa della Trinità dei Monti, che viene completata il 20 aprile 1789 (base dell’obelisco adottato in seguito come monumento fascista e tuttora giacente in Campidoglio, presso le mura repubblicane, con l’iscrizione rivolta ad un muro ).