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20/09/22

La lunga lotta di Vittorio Gassman contro la depressione

 


Uno dei più bei libri italiani che siano stati scritti sul tema della depressione - che non minor valore di "Un'oscurità trasparente" del grande William Styron - è a mio avviso Vedere l'erba dalla parte delle radici, scritto da Davide Lajolo nel 1977, vincitore in quell'anno del Premio Viareggio, il romanzo autobiografico nel quale Lajolo raccontava scene della sua vita come metodo terapeutico per combattere la depressione psichica che lo aveva fortemente invalidato dopo un attacco di cuore.  

E già dal titolo, il romanzo raccontava l'effetto dirompente della depressione, sulla propria visione della vita: che è come si guardasse, appunto, da sottoterra. 

Anche il grande Vittorio Gassman, come si sa, è stato per lungo tempo affetto da depressione bipolare, una malattia di cui il celebre attore si decise a parlare anche in pubblico. Gassman raccontò di un periodo durato circa due anni - il più duro della sua malattia - in cui non riusciva più a provare interesse o piacere per alcuna cosa, compresa la sua vita. Anche risvegliarsi era un dramma e neppure la suo famiglia riscuoteva in lui un interesse, motivo per il quale quel periodo coincise con un allontanamento dai suoi figli.  

Le parole di Gassman furono forti e profonde,  in una Italia che non era ancora abituata a sentir parlare di depressione. La sua, in particolare era chiamata, ed è chiamata, in psichiatria, anedonia. Che comportava per lui anche l'effetto di non riuscire a dimostrare amore e affetto verso le persone che aveva accanto, compresa la sua famiglia. Anche se i suoi familiari, raccontò, avevano continuato sempre a sostenerlo nella lotta contro la malattia, che fu combattuta anche con l’assunzione di psicofarmaci. “La depressione è una brutta bestia. – disse Gassman in una intervista televisiva  –Quando tocca l’apice coincide con uno sgomento totale, con l’angoscia e dunque si vorrebbe ad un momento non esserci più. Io credo di non essere portato al suicidio, però molte mattine di quel periodo io mi svegliavo – e me ne sono accorto dopo un po’ – con i muscoli delle gambe e delle braccia che mi dolevano. Poi ho capito che il mio corpo inconsciamente faceva uno sforzo fisico anche per non risvegliarsi, che era un modo dolce, senza intervento cruento, di non esserci più, di cessare questo tipo di sofferenza.

Un lungo incubo, dal quale Gassman non si liberò mai completamente, ma con il quale imparò a convivere, superando la crisi più nera e aprendosi alla guarigione:"Quando stavo per guarire," raccontò,  "ho sognato la mia guarigione. Allora mi sono alzato, sono corso in bagno e ho visto che gli occhi erano tornati normali dopo che per due anni li ho avuto che si leggeva il vuoto, che stavo male, e curiosamente proprio mio figlio, che per quel tempo mi aveva evitato, è arrivato in bagno e ha ripreso il suo rapporto con me.”


Fabrizio Falconi - 2022 

27/06/22

La paura della Morte? Come vincerla secondo Elisabeth Kübler Ross


Elisabeth Kübler-Ross
, nata a Zurigo, 8 luglio 1926 e morta a Scottsdale, il 24 agosto 2004 è una psichiatra svizzera, considerata la fondatrice della psicotanatologia e uno dei più noti esponenti dei death studies, cioè degli studi sui meccanismi psicologici che caratterizzano il lutto. 

Dopo gli studi in Svizzera, nel 1958 si è trasferì negli Stati Uniti dove lavorò per molti anni presso l'Ospedale Billings di Chicago. 

Dalle sue esperienze con i malati terminali trasse il libro La morte e il morire pubblicato nel 1969, che fece di lei una vera autorità sull'argomento. 

Celebre la sua definizione delle cinque fasi di reazione alla prognosi mortale: diniego (denial and isolation), rabbia (anger), negoziazione (bargaining), depressione (depression), accettazione (acceptance). 

Chiave del suo lavoro fu la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica. Usava anche praticare la tecnica dell'uscita fuori da corpo (OBE), che aveva appreso da Robert A. Monroe. 

Negli anni settanta ha tenuto numerosi seminari e conferenze. 

Le cinque fasi dell'elaborazione del lutto, il suo "modello a cinque fasi", elaborato nel 1970, permette di capire le dinamiche mentali più comuni della persona cui si è diagnosticata una malattia terminale. 

Gli psicoterapeuti lo hanno trovato valido anche quando si debba elaborare un lutto affettivo o ideologico.

La grande scienziata il 9 settembre del 1999 fu protagonista di una delle "grandi interviste di Liberal", e così rispose a una delle ultime domande:

 - Lei nega che la paura di morire sia un fattore naturale?

- Sì, tale paura è artificiosa, un fattore causato dal progresso tecnologico ed aggravato dalla medicina scientifica, che ha sempre più allontanato i morenti dalle loro famiglie. A coloro che sono tormentati da questa paura, consiglio di vivere giorno per giorno. Se io in questo momento vivo veramente, perché mai dovrei avere paura della morte ? Se gli esseri umani si liberassero dalla paura, potremmo giungere tutti alla consapevolezza piena e totale che la tanto temuta morte è in realtà una esperienza bellissima, attraverso della quale ci liberiamo dal nostro corpo come una farfalla dal bozzolo. Paura della morte e paura della vita sono in fondo due facce della stessa medaglia. Abbiamo troppa poca fiducia nella vita, nella creazione, siamo troppo aridi spiritualmente, ecco il vero problema.

Parole che dovrebbero farci molto riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022


21/10/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 42. Qualcuno volò sul nido del cuculo (One flew over the cockoo's nest) di Milos Forman, USA (1975)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 42. Qualcuno volò sul nido del cuculo (One flew over the cockoo's nest) di Milos Forman, USA (1975)


Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo's Nest) è un film diretto da Miloš Forman tratto dal romanzo omonimo da Ken Kesey (una delle firme oggi ritenute tra le più importanti più originali e importanti della letteratura americana degli anni '50-'60) pubblicato nel 1962.

La storia è com'è noto, incentrata su RP McMurphy (Jack Nicholson), internato in un ospedale psichiatrico per fuggire dalla prigione dopo essere stato accusato di stupro su un minore, il quale sarà gradualmente toccato dall'angoscia e dalla solitudine dei pazienti.

Con la sua forte personalità, si oppone rapidamente ai metodi repressivi dell'infermiera Ratched.

Nel titolo originale in inglese, il termine "cuculo", che ha come primo significato l'uccello del cuculo, indica anche in gergo una persona mentalmente disturbata, come i pazienti dell'ospedale psichiatrico in cui si svolge la trama.

Randall P. McMurphy sviluppa un comportamento ambiguo per sfuggire alla prigione, fin quando non viene valutato per la sua salute mentale, dopo essersi occupato delle "terapie" del capo infermiere, la autoritaria e cinica Miss Ratched, che cerca rapidamente di sfidare.

Il temperamento allo stesso tempo irruento e gioviale di McMurphy fa presto in modo che altri internati diventino consapevoli della libertà che gli viene negata. Allo stesso tempo McMurphy presto capisce che entrando volontariamente nell'ospedale potrebbe aver perso quella libertà per sempre.

Comincia a fare amicizia con alcuni degli internati, in particolare con il "Capo", un colosso amerindio nativo che tutti credono sordo e muto, che appare morbido e pacifico nonostante il suo aspetto colossale.

McMurphy conduce pian piano gli altri pensionanti alla ribellione e li conduce alla disobbedienza, organizzando addirittura un giro in autobus intorno all'area per andare a pescare su una barca. e corrompendo la guardia per riuscire a far entrare due amici nel reparto. Fino a una festa durante la quale l'alcool scorre liberamente.

Al mattino, Miss Ratched trova uno degli internati, il giovane Billy, in un letto con una delle giovani donne. Miss Ratched riesce a far sentire Billy così in colpa che si suicida proprio quando McMurphy sta per scappare.

Di fronte alla tragedia, quest'ultimo cambia idea e decide di vendicare Billy, cercando di strangolare Ratched, che ritiene responsabile per la morte del giovane.

La reazione dell'ospedale è durissima e viene deciso di lobotomizzare McMurphy.

Il "Capo" , dopo il trattamento, lo trova diventato del tutto insensibile; Non vedendo alcuna soluzione, la soffoca per evitare di farlo vivere in questo stato per il resto della sua vita. Quindi, in una finale e metaforica scena di "liberazione", strappa un'enorme fontana d'acqua e la lancia su una vetrata recintata, eseguendo il piano che McMurphy aveva proposto per evadere, all'inizio del film, senza avere abbastanza forza per realizzarlo.

"Capo", quindi fugge sulle montagne circostanti.

Il film era nato da una idea di Kirk Douglas che aveva acquistato i diritti del libro di Ken Kesey, pensando di adattarlo al cinema, ma l'argomento del film e il contenuto drammatico gli aveva impedito di trovare finanziamenti.

Nel 1966 durante un tour di beneficenza, Kirk Douglas aveva incontrato Miloš Forman a Praga dove aveva scoperto i film del giovane talentuoso regista ceco. Pensò quindi di affidargli l'adattamento cinematografico e prometté di inviargli il romanzo. Ma Miloš Forman non ricevette mai il libro che viene intercettato al confine e Kirk Douglas pensò che il regista non fosse interessato.

Ma dopo la primavera di Praga nel 1968, Miloš Forman andò in esilio negli Stati Uniti e diresse il suo primo film americano, Il decollo. Nel frattempo, Michael Douglas aveva ripreso il progetto di adattamento cinematografico che suo padre Kirk aveva avuto un decennio prima: Kirk Douglas si fa avanti per interpretare McMurphy.

Quando finalmente Miloš Forman riceve il romanzo, è entusiasta: "Per te, questo libro è letteratura, ma per me è vita! Ho vissuto questo libro. Il Partito Comunista era la mia infermiera Ratched 2 ! "

Il film resta uno dei più forti e dirompenti della cinematografia americana e internazionale.  Vinse 5 premi Oscar e 6 Golden Globe più innumerevoli altri riconoscimenti in tutto il mondo.

E con il passare degli anni non ha perso la sua forza rivoluzionaria, e niente della sua perfezione stilistica, dovuta alla maestria e al talento puro di Milos Forman e a un cast fenomenale, azzeccato in ogni personaggio, in ogni singolo caratterista.

Qualcuno volò sul nido del cuculo
(One flew over the cockoo's nest)
di Milos Forman
con
Jack Nicholson, Louise Fletcher, William Redfield, Billy Bibbit, Will Sampson, "Chef" Bromden, Danny DeVito, Christopher Lloyd, Taber Sydney Lassick 
Durata 134 minuti
USA, 1974 





15/06/16

L'Altra Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un "cold case".



Si intitola "L'Altra Marilyn.Psichiatria e psicoanalisi di un cold case" (Le lettereeditore), il saggio curato da Liliana Dell'Osso, ordinario di Psichiatria e direttore della Clinica psichiatrica dell'Universita' di Pisa, e Riccardo Dalle Luche, psichiatra, psicoterapeuta ed esperto di cinema, presentato  ieri. 

Di una "creatura magnifica, vittima delle sue fragilita'" ha parlato Giani che del saggio curato dai due psichiatri della scuola pisana ha elogiato il "minuzioso lavoro di raccolta portato avanti con tenacia e volonta'. 

Lo studio psichiatrico sull'attrice morta in circostanze mai del tutto chiarite il 4 agosto 1962 - ha osservato - rappresenta un prototipo ideale per interrogarsi sui concetti fondamentali della psichiatria e della psicoanalisi attuali, rivolgendosi anche ad un pubblico non specializzato".

La storia dell'attrice, ricostruibile in modo dettagliato grazie all'enorme mole di studi biografici esistenti, consente di evidenziare la maggior parte delle problematiche di cui si occupa la psichiatria (panico, fobie, disturbi borderline e bipolari, farmacodipendenze, suicidio), e individua alcuni elementi psicopatologici che sono alla base sia del successo di massa, sia delle difficoltà di coniugarlo con un adattamento sociale adeguato.

In questo senso Marilyn è anche il prototipo di tante celebrità care agli dèi, che sono andate incontro a una morte prematura o a una sparizione sociale dopo aver raggiunto le vette della notorietà, dell'originalità creativa.

Il libro parte da una ricostruzione minuziosa della psicopatologia autodistruttiva di Norma Jeane/Marilyn Monroe espandendosi in diverse direzioni.

Per Mazzeo "questo libro unisce il mistero che alberga nella mente umana a quello legato a una delle personalita' piu' famose ma anche enigmatiche al mondo come Marilyn Monroe.  E' un testo figlio di studi fatti dai due psichiatri pisani che hanno portato il dipartimento dell'Aoup ad essere il punto di riferimento non solo toscano, ma a livello internazionale, per lo studio e la ricerca di molti temi legati al mondo della psichiatria e in particolare a quello relativo allo spettro autistico che proprio da Pisa ha mosso i suoi primi passi una ventina di anni fa". 

24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





03/04/16

Intervista a Eugenio Borgna - "La fragilità degli adolescenti è una ricchezza."


E' il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant'anni le ferite dell'anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all'uso dell'elettroshock o dei farmaci "un tanto al chilo"
Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l'opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L'indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico... 
Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici... rappresentano circa l'1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d'angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l'ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all'educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti. «E così si rischia di far danni. L'ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».

Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L'insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».

Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo». 

Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell'utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».

Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l'ansia, la depressione e l'angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».

Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un'illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci». 

Di nuovo il tempo, la fretta...
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».

In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c'è bisogno di assistenza, si fa in fretta... Io la considero una pratica intollerabile. Non l'ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto». 



25/07/15

Fellini raccontato dal lettino - Ritratto di Ernst Bernhard di Filippo La Porta.



Ernst Bernhard


Sapete cosa univa Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Adriano Olivetti, Natalia Ginzburg, Amelia Rosselli, Aldo Rosselli, Vittorio De Seta, Luciano Emmer, Cristina Campo, e perché hanno tutti frequentato, per periodi più o meno lunghi, via Gregoriana 12 a Roma ?  
Sono stati pazienti di Ernst Bernhard, lo psichiatra ebreo berlinese che in fuga dai nazisti visse in Italia dal 1936 fino alla morte, nel 1965 (e con un breve internamento in un campo di prigionia fascista).  Il suo studio era al sesto piano di Via Gregoriana 12, con le finestre spalancate sui tetti di Roma. 

Comincia così un bellissimo articolo di Filippo La Porta, sul Messaggero del 15 luglio scorso che potete leggere interamente QUI.

La Porta traccia così il ritratto del celebre psichiatra Ernst Bernhard, amico di Jung (da cui però lo divideva un'ansia religiosa legata alla sua formazione hassidica, la fiducia in una provvidenza divina, la ricerca di un Dio nascosto), attraverso i suoi illustri pazienti, in particolare con Fellini che frequentò lo studio dello psichiatra dal 1960 al 1965, anni fondamentali della sua produzione artistica. 


Bernhard era non solo psicanalista rigoroso, ma anche aperto all'esoterismo, alla lettura della mano, all'oroscopo e a ogni altro strumento diagnostico, fedele alla convinzione che tra il cielo e la terra ci sono molte più cose di quante ne possa immaginare la scienza. 

Bernhard era anche uno studioso de I Ching,  il libro sapienziale della tradizione cinese, e nella recensione La Porta ricorda il prezioso libro I Ching di Ernst Bernhard, a cura di Luciana Marinangeli, pubblicato dalle Edizioni La Lepre, che contiene un commento di Bernhard, insieme a lettere, testimonianze, conversazioni con l'allieva prediletta, Silvia Rosselli. 

Una lettura da non mancare. 





18/05/15

Diventare geni dopo una caduta da cavallo. Un caso unico al mondo.



Era una ranchera che si occupava di mandrie e bestiame in Colorado e l'unico suo amore erano auto da corsa e sport, ma dopo una rovinosa caduta si e' risvegliata genio dell'arte, della geometria e della poesia: Leigh Erceg, ha 47 anni, non ricorda nulla del suo passato e secondo i suoi medici curanti il suo è un caso unico al mondo. 

I danni cerebrali subiti hanno causato alla donna la cosiddetta 'sindrome di savant', la 'sindrome del sapiente': la malattia resa famosa nella magistrale interpretazione di Dustin Hoffman in 'Rain Man', che rende le sue vittime - solitamente dalla nascita - prodigiosamente capaci in una specifica area cognitiva.

Per Leigh è l'arte e la matematica: ora - ha dichiarato in una intervista alla Abc - lei 'vede' i suoni e 'ascolta' colori quando sente musica. E' divenuta poetessa, pittrice e le pareti del suo ranch sono ora tappezzate non solo dei suoi quadri, ma di formule matematiche e disegni geometrici. Rappresentazione di come la donna vede il mondo. 

Unici disturbi: Leigh è estremamente sensibile alla luce e deve indossare quasi sempre occhiali da sole, e non riconosce nulla e nessuno della sua vita precedente, neppure la madre. 

"Leigh - ha spiegato Berit Broogard, il neuroscienziato che la segue alla universita' di Miami - è l'unica donna al mondo che ha acquisito da adulta la sindrome di savant e sinestesia in seguito ad un danno cerebrale". 

La sinestesia e' una sorta di 'confusione' dei sensi per cui appunto si 'vedono' i suoni. La sindrome e' talmente rara che per diagnosticarla ci sono voluti test ed analisi a ripetizione. 

27/05/14

Una bellissima intervista ad Eugenio Borgna, di Antonio Gnoli per Repubblica.





Vi propongo questa bellissima intervista ad Eugenio Borgna realizzata da Antonio Gnoli. 


Eugenio Borgna: "L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra" Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina - di  Antonio Gnoli - Da Repubblica.it 


LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. 

Nelle movenze dinoccolate di quest'uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l'altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell'ascolto. 

Ci fermiamo, vista l'ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: "Qui veniva Scalfaro", ricorda Borgna. E ho l'impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.


Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
"Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita".

Che ha avuto inizio dove?
"A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l'adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l'ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo".

Quanto durò?
"Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l'Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose ".

Perché quel tipo di scelta?
"Sulle orme paterne avrei potuto fare l'avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza".

Essere autentici è un dovere?
"Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".

Mi faccia capire.
"Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".

Perché?
"Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".

Non le bastava la verità clinica?
"No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".

E invece?
"Decisi  -  tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici  -  di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".

Una scena irreale?
"Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".

Come reagì?
"Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".

Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
"Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".

Non è facile trovare un varco per la comprensione.
"Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".

Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
"La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".

di Antonio Gnoli - da Repubblica.it

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17/04/13

Restaurati i graffiti di NOF4, il paziente del manicomio di Volterra che decorò 150 metri di parete con una fibbia.




Preservare e far conoscere al mondo l"arte del matto', impressa, in tanti anni di degenza, sui muri del manicomio di Volterra. Con questo obiettivo e' stata distaccata e restaurata una parte del grande graffito, considerato uno degli esempi piu' significativi di 'Art Brut', realizzato su due muri esterni dei padiglioni dell'ex ospedale psichiatrico Poggio alle Croci di Volterra da Fernando 'Oreste'Nannetti (Roma 1927-Volterra 1994), in arte Nof4, che in totale dipinse 150 metri di pareti.


Il progetto di conservazione e' stato illustrato dall'assessore toscano alla cultura Cristina Scaletti insieme al Comune di Volterra e all'associazione Onlus 'Inclusione Graffio e parola'. Utilizzando la fibbia della sua divisa come una sorta di 'matita di ferro', Nannetti - che entro' nel manicomio di Volterra nel 1958 - volle cosi' lasciare un suo segno di vita, raccontando se' stesso, le sue visione del mondo, la sue fantasie astrali e deliranti osservazioni ma anche la voglia di rivedere la sua citta' natale e una famiglia che praticamente non conobbe ne' visse mai.


Dell'opera e del suo autore parla anche Antonio Tabucchi definendo, in un articolo, il graffito come un "libro di pietra". Quella distaccata e restaurata e' solo una piccola parte, circa 8 metri, del grande graffito che versa pero' in un cattivo stato di conservazione a causa dell'abbandono della struttura, chiusa dal 1978. 

Il complesso oggi e' oggetto di un progetto di recupero per ospitare unita' residenziali e ricettive e anche un museo della memoria che in futuro ospitera' le parti restaurate dell'opera di Nof4. 

Il prossimo weekend le parti restaurate saranno invece visibili al pubblico presso la Pinacoteca di Volterra. Il primo ad accorgersi dell'opera di Nannetti, e' stato stato Mino Trafeli, professore dell'istituto d'arte di Volterra che nel 1980 vide e comprese il valore del graffito. All'opera, nel 1981, dedico' un libro anche l'ultimo direttore dell'istituto psichiatrico. 

Negli anni piu' recenti alla riscoperta dell'opera si e' adoperata l'associazione 'Inclusione Graffio e parola', con l'aiuto anche del cantante Simone Cristicchi. Nel 2011 il museo de l'Art Brut di Losanna (Svizzera) ha invece presentato una grande retrospettiva su Nannetti, grazie a 23 fotografie di grande formato sul suo "libro graffito".