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23/03/21

Il genio e la sregolatezza di Goliarda Sapienza

Goliarda Sapienza ai tempi del suo legame con Citto Maselli

Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. 

Questo è l’incipit del romanzo L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza, nata a Catania nel 1924 da Giuseppe Sapienza e Maria Giudice (la prima donna dirigente della Camera del lavoro di Torino). E forse proprio queste frasi ci possono fare capire il tipo di persona che era Goliarda: vera, sincera e libera. Goliarda cresce in un clima di assoluta libertà. Non ha vincoli sociali. Addirittura non frequenta regolarmente la scuola perché il padre non voleva che la figlia fosse soggetta ad imposizioni fasciste. A sedici anni si iscrive all’accademia nazionale d’arte drammatica di Roma e per un periodo intraprende la carriera teatrale, distinguendosi nei ruoli delle protagoniste pirandelliane. Lavora anche per il cinema, inizialmente spinta da Alessandro Blasetti, poi si limita a piccole apparizioni come in Senso di Luchino Visconti. Sotto la regia di Blasetti nel 1946 recita in Un giorno nella vita e nel 1948 in Fabiola. Nel 1950 recita in Persiane chiuse di Comencini, nel 1951 appare in Altri tempi, nuovamente di Blasetti, mentre nel 1955 ha una parte in Ulisse e in Gli Sbandati di Francesco Maselli. Nel 1970 ha una parte in Lettera aperta ad un giornale della sera sempre di Francesco Maselli e nel 1983 recita sotto la regia di Marguerite Duras in Dialogo di Roma.

Sentimentalmente si lega al regista Citto Maselli, ma qualche anno dopo sposa il copywriter Angelo Maria Pellegrino. Poi lascia il palcoscenico e il cinema per dedicarsi alla carriera di scrittrice. Ma la sua vita è complicata. Verso la fine degli anni Sessanta finisce in carcere per un furto di oggetti in casa di amiche. E sempre dal carcere, ma anche dopo, continua a scrivere pubblicando poche opere, tranne alcune come “Le certezze del dubbio”. Ma il suo capolavoro è “L’arte della gioia”, una sorta di romanzo autobiografico in cui dalla sua penna Goliarda fece un ritratto non solo di se stessa, ma anche della società del tempo e riuscì a trattare argomenti scomodi per il periodo come la libertà sessuale, la politica, la famiglia. Per questo il libro non fu mai pubblicato e va alle stampe postumo nel 2000, riscuotendo prima indifferenza e a distanza di anni enorme successo di critica. Fra le altre sue opere citiamo “Lettera aperta”, “Il filo di mezzogiorno”, “Università di Rebibbia”, “Le certezze del dubbio” e “Destino coatto”.

Ed è proprio a causa del suo romanzo “L’arte della gioia” che Goliarda, nota negli ambienti artistici e culturali romani, attrice, scrittrice, compagna per 17 anni di Francesco Maselli, si riduce in povertà. Nella casa romana di via Denza pende lo sfratto e le viene tagliata anche la luce. E lei ruba a casa della amiche. Un furto per disperazione, lo aveva definito lo scrittore Angelo Pellegrino che ha vissuto con lei per 20 anni e che ha curato la sua opera. Nella prefazione al libro racconta che Goliarda scriveva sempre a mano per sentire l’emozione nel battito del polso, servendosi di una semplice Bic nero-china a punta sottile. “Scriveva – si legge nella prefazione – come leggeva, da lettrice, scriveva per i lettori più puri e lontani, con abbandono lucido e insieme passionale, affettuoso e sensuoso, attenta ai battiti cardiaci di un’opera, più che ai concetti e alle forme”. Goliarda scriveva in solitudine, guardando il mare, di mattina, su fogli extrastrong piegati in due perché il formato ridotto le consentiva una sua idea di misura, dove vergava le parole con una grafia abbastanza minuta, facendo ciascun rigo via via più rientrato sino a ridurlo a una o due parole, allora ricominciava daccapo con un rigo intero e veniva fuori un curioso disegno, una specie di elettrocardiogramma di parole, una scrittura molto cardiaca. E’ così che è definita da Pellegrino nella prefazione de “L’arte della gioia” la scrittura della sua compagna di vita.

Goliarda Sapienza non vedrà mai l’uscita di quel romanzo a cui aveva dedicato tutta se stessa. Pellegrino riesce a farlo pubblicare da Stampa Alternativa, nell’indifferenza totale di tutto il mondo culturale. Per uscire dall’ombra nel suo Paese d’origine, il romanzo deve prima sbarcare in Francia dove è stato tradotto e da dove è partita la popolarità di questa siciliana orgogliosa, tenace, libera e senza pregiudizi. Per mesi il suo romanzo ha dominato le classifiche dei libri più venduti e ha appassionato i critici che lo hanno paragonato a “Il gattopardo” o a “Horcynus Orca”. Nelle edicole c’è anche il romanzetto “L’università di Rebibbia”, nato dalla carcerazione seguita al furto di gioielli nella casa dell’amica romana. “L’ho fatto per rabbia – aveva raccontato all’epoca – per provocazione. Lei era molto ricca, io diventavo sempre più povera. Più diventavo povera più le davo fastidio. Magari mi invitava nei ristoranti più cari, ma mi rifiutava le centomila lire che mi servivano per il mio libro. Le ho rubato i gioielli anche per metterla alla prova, ma ero sicura che mi avrebbe denunciato”. Da questo diario-romanzo emerge la figura di una signora che parla in modo forbito, guardata con sospetto dalle compagne di cella per i suoi vestiti, ma che presto capisce che lì non ha bisogno di fingere, se è borghese, non può nasconderlo. Nella dura e fredda realtà del carcere, Goliarda scopre anche cosa vuol dire solidarietà, calore, amicizia. Tutta la sua esistenza è fuori dall’ordinario, anche per i due tentativi di suicidio, l’elettroshock subito, la cura psicanalitica.

Negli ultimi della sua vita Goliarda Sapienza insegna recitazione presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Goliarda è riuscita a dare voce all’emotività senza quel forzato distacco che caratterizza molti degli autori contemporanei. Muore a Gaeta e qui viene seppellita nel 1996, mentre fiori rossi e terra bruna cadono sul suo feretro. Tutti al suo funerale hanno pensato che presto si sarebbe ricominciato a parlare di lei. E così è stato. “Sai come sono fatta – aveva detto ad una conoscente tre giorni prima di morire – è possibile che scompaia per un po’ per poi tornare all’improvviso”. E all’improvviso è scoppiato il caso editoriale del libro a cui ha dedicato parte della sua vita e che non ha mai visto pubblicato.

Chiudiamo questo omaggio con i suoi versi:

Non sapevo che il buio 
non è nero 
Che il giorno non è bianco
Che la luce 
acceca 
E il fermarsi 
è correre 
Ancora 
di più

13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




15/06/16

L'Altra Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un "cold case".



Si intitola "L'Altra Marilyn.Psichiatria e psicoanalisi di un cold case" (Le lettereeditore), il saggio curato da Liliana Dell'Osso, ordinario di Psichiatria e direttore della Clinica psichiatrica dell'Universita' di Pisa, e Riccardo Dalle Luche, psichiatra, psicoterapeuta ed esperto di cinema, presentato  ieri. 

Di una "creatura magnifica, vittima delle sue fragilita'" ha parlato Giani che del saggio curato dai due psichiatri della scuola pisana ha elogiato il "minuzioso lavoro di raccolta portato avanti con tenacia e volonta'. 

Lo studio psichiatrico sull'attrice morta in circostanze mai del tutto chiarite il 4 agosto 1962 - ha osservato - rappresenta un prototipo ideale per interrogarsi sui concetti fondamentali della psichiatria e della psicoanalisi attuali, rivolgendosi anche ad un pubblico non specializzato".

La storia dell'attrice, ricostruibile in modo dettagliato grazie all'enorme mole di studi biografici esistenti, consente di evidenziare la maggior parte delle problematiche di cui si occupa la psichiatria (panico, fobie, disturbi borderline e bipolari, farmacodipendenze, suicidio), e individua alcuni elementi psicopatologici che sono alla base sia del successo di massa, sia delle difficoltà di coniugarlo con un adattamento sociale adeguato.

In questo senso Marilyn è anche il prototipo di tante celebrità care agli dèi, che sono andate incontro a una morte prematura o a una sparizione sociale dopo aver raggiunto le vette della notorietà, dell'originalità creativa.

Il libro parte da una ricostruzione minuziosa della psicopatologia autodistruttiva di Norma Jeane/Marilyn Monroe espandendosi in diverse direzioni.

Per Mazzeo "questo libro unisce il mistero che alberga nella mente umana a quello legato a una delle personalita' piu' famose ma anche enigmatiche al mondo come Marilyn Monroe.  E' un testo figlio di studi fatti dai due psichiatri pisani che hanno portato il dipartimento dell'Aoup ad essere il punto di riferimento non solo toscano, ma a livello internazionale, per lo studio e la ricerca di molti temi legati al mondo della psichiatria e in particolare a quello relativo allo spettro autistico che proprio da Pisa ha mosso i suoi primi passi una ventina di anni fa". 

08/09/14

Freud e Jung adulteri - due diversi modi di tradire.



Si potrebbe dire, alla Woody Allen: dimmi come tradisci e ti dirò chi sei.

E' abbastanza curioso scoprire le differenze tra i due grandi padri della psicoanalisi, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, che furono entrambi, nelle loro vite, adulteri conclamati, ma in modi molto diversi. 

Come è noto Carl Gustav Jung sposò nel 1903, all'età di ventotto anni  Emma Rauschenbach, la figlia di un ricco industriale di Schaffusa.
Grazie a lei risolse definitivamente i suoi problemi finanziari e da lei ebbe, nel corso di dieci anni, ben cinque figli, Agathe, Anna, Franz, Marianne e Emma.
Nella sua autobiografia Jung parla poco di questa compagna, divenuta a sua volta psicoterapeuta junghiana. Il matrimonio durò tutta la vita (fino alla morte di lei), anche se Emma tollerò l'infedeltà coniugale del marito oltre ogni aspettativa.

Jung infatti già nel 1909 iniziò la celebre relazione con la paziente Sabina Spielrein che, invaghita di lui, pretende un figlio e tenta di rovinargli la reputazione.

Jung, intimamente coinvolto, non riesce ad interrompere la relazione. Fino al 1910, quando conosce Toni Wolff, poco più che ventenne, che rimane in analisi per circa tre anni.  E' ipersensibile, intelligente, amante della poesia, non bella ma estremamente femminile. Jung non le resiste e nel 1911 la relazione diventa totalizzante. Emma ne soffre molto, anche perché Jung pretende di coinvolgerla nella vita familiare e in quella professionale, rifiutando al contempo l'idea del divorzio.
La relazione con Toni dura per oltre quarant'anni,  in un singolarissimo rapporto triangolare (non fu mai messo in discussione il matrimonio con Emma, ma Jung, sempre più dilaniato interiormente, porterà il suo disastro interiore nel materiale magmatico che formerà il Libro Rosso).

Toni, fra l'altro, sarà l'unica autorizzata a trascorrere con lui i fine settimana nella Torre di Bollingen, il rifugio lontano da tutto, senza luce né acqua che Jung si era fatto costruire sul lago di Zurigo.


Del tutto diverso il tradimento di Freud. Il padre della psicoanalisi era sposato dal 1886 con Martha Bernays.

Anche questo matrimonio, però, non fu felice.  O almeno, non completamente.  Era stato lo stesso Jung, maliziosamente, molti anni dopo la celebre rottura tra i due, ad avanzare il sospetto che Freud fosse stato infedele alla moglie, e in un modo davvero piuttosto scabroso.

Negli ultimi anni, la notizia ha trovato conferme sicure proprio da parte di uno dei più grandi studiosi di Sigmund Freud, Franz Maciejewski, il quale è riuscito a dimostrare il rapporto con la cognata, Minna Bernays, sorella nubile della moglie di Freud che viveva sotto lo stesso tetto con la coppia.

Maciejewski infatti è riuscito a trovare in un albergo delle Alpi Svizzere la firma di Freud.  La prova difficilmente oppugnabile dell' adulterio sta scritta a chiare lettere nell' elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere, lo Schweizerhaus di Maloja.

Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora».

Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l' albergo.

Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente Freud non voleva insospettire la consorte.

In queste due diverse modalità di tradimento, c'è molto della diversa anima di Jung e Freud.

Jung portò l'adulterio, anzi i due adulteri, in superficie, alla luce del giorno, e cercò un difficilissimo - e doloroso - compromesso in vivendi.  Freud preferì la clandestinità.   Jung fu attratto da pazienti giovani, turbate e conturbanti. Freud preferì la cognata, che forse rappresentava un doppio della moglie.

E in queste differenti modalità c'è forse anche il segno di una diversissima interpretazione della libido, il meccanismo del desiderio umano, che mentre per Freud si identificava completamente con l'impulso sessuale, per Jung è la forza vitale psichica, di cui l'energia sessuale è soltanto un aspetto.


Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


12/07/14

Il mistero del numero 137, Pauli, Jung e la matematica che è in noi (e fuori di noi).



In questi giorni sto leggendo un bel saggio di Arthur J. Miller, professore emerito di storia e filosofia della scienza presso l'University  College di Londra: L'equazione dell'anima, pubblicato da Rizzoli nel 2009, che descrive e racconta l'ossessione per un numero nella vita di due geni, Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli.

Negli anni '30, ad appena trent'anni, Pauli è uno dei teorici più brillanti della nascente fisica quantistica.  Eppure ogni notte si ritrova a vagare nei quartieri a luci rosse in preda all'alcol e alla depressione.
Wolfgang Pauli

Ed è proprio la sua doppia vita ad indurlo a rivolgersi a Carl Gustav Jung, il discepolo eretico di Freud, divenuto in quegli anni un punto di riferimento della ricerca psichica mondiale.

Carl Gustav Jung

L'incontro tra questi due geni, tra ragione e misticismo, diviene una potente alleanza tra due giovani scienze, la psicoanalisi e la meccanica quantistica, all'insegna di quello che appare come un numero magico: il 137. 

Un numero che da un lato descrive con grande precisione il dna della luce e dall'altro è la somma dei valori numerici dei caratteri ebraici che compongono la parola Kabbalah (Cabala). 

L'ossessione che accompagna Pauli fino al letto di morte, diventa anche un terreno di indagine parallela per Jung e per le sue ricerche sulla essenza e sul Sè.

La suggestione è quella di trovare un numero alla base dell'universo, un numero primordiale, un numero da cui tutto dipende e dà conto di tutto.

E' un vecchio sogno umano, inseguito da astronomi, scienziati, alchimisti, mistici, filosofi, matematici.

Più andiamo avanti con le nostre conoscenze, più ci appare evidente che il mondo e l'universo che ci contengono si fondano su principi matematici.  E la matematica è anche alla base della nostra vita biologica. Tutto sembra ridursi a questo: anche la nostra mente sembra essere predisposta per leggere secondo criteri matematici. Ma da dove deriva tutto questo, e perché esiste ?

Ecco un brano di una intervista rilasciata poco tempo fa da Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) e considerato uno dei migliori matematici italiani. 

Che la matematica sia pura creazione della mente è un fatto largamente condiviso. 
Desta perciò meraviglia l'eccezionale efficacia che questa scienza ha dimostrato nel consentire da un lato l'interpretazione della realtà e dall'altra l'intervento concreto, anche tecnologico, su di essa. 
La matematica è una delle poche cose universali che noi sperimentiamo, e già questo è sorprendente. 
Lo è ancora di più il fatto che l'universo risponde in qualche modo alle nostre sollecitazioni basate sugli strumenti matematici. 
Da questa attività creativa dell'uomo emerge quasi un potere predittivo nei confronti della realtà, che è alquanto sconcertante. 
Nella misura in cui non si è ancora riusciti a giustificare l'indubbia consonanza verificabile tra una creazione della nostra mente, la matematica, e una realtà data a prescindere da noi, diventa legittimo ipotizzare l'esistenza di un Ente superiore intelligente che si pone alla radice tanto della realtà che ci circonda, quanto della nostra stessa mente. 
Il dato fondamentale è che esiste in qualche modo una sintonia tra la mente e la realtà esterna alla mente, sintonia che si spiega bene con l'esistenza di qualcosa che sta sopra e unifica.

Fabrizio Falconi

11/01/14

Perdono e assoluzione non sono la stessa cosa.




C'è una ragione anche quando si sbaglia.  Ma puoi sapere che hai sbagliato solo se riconosci dentro di te l'errore. 

Ogni crescita umana si basa sul perdono.  Quando riconosci l'errore non l'hai ancora riconosciuto veramente come tale: lo riconoscerai soltanto quando qualcuno potrà perdonarti.  Avrai bisogno di quel perdono e potrai averlo se troverai qualcuno generoso, disposto ad accogliere il tuo errore e il tuo sbaglio. 

Dopo che sarai stato perdonato dall'esterno, dovrai perdonarti tu.  E sarà un lavoro molto più lungo, che potrà durare anche per l'intera tua vita. 

Per questo perdonare (e ancora di più perdonar-si) è così difficile. 

Ma il perdono è l'unica cosa che permette di ri-conoscere l'errore o lo sbaglio (è in termini psico-analitici l'attraversamento dell'Ombra, che unicamente, permette il processo di individuazione del Sé). 

Altra cosa è la pratica, diffusissima, della assoluzione. L'assoluzione non costa nulla. L'assoluzione è un colpo di spugna: nulla è mai successo, il fatto non sussiste. 

Per questo è così facile auto-assolversi. Ti dai la benedizione e ti dici che tutto il mondo sbaglia e dunque è perfettamente legittimo che anche tu sbagli.  Anzi, lo sbaglio nemmeno esiste perché tutti sbagliano. E lo sbaglio dunque, dov'è ?

L'assoluzione è la nostra scolorina dell'anima. L'uomo lo fa dai tempi del Neolitico.  Per vivere e sopravvivere deve costruir-si per forza una quantità di inganni, raccontarsi parecchie frottole alle quali far finta di credere, ogni giorno.

E per questo scopo, l'auto-assoluzione è fondamentale.   Si evitano le verità che si incontrano dentro se stessi, si tengono al sicuro, sotto chiave.   

Le verità, poi, prima o poi si impongono. Le verità sono evidenti, eclatanti, vogliono sempre venir fuori.  Ma si può sempre far finta di niente, anche quando la vita sta per finire. Darsi l'assoluzione, cancellare tutto.  

"I'm imperfect guy in imperfect world," ha twettato pochi giorni fa Lance Armstrong dopo aver ucciso per anni e anni la verità, lo sport, la dignità sua e dei colleghi, aver mentito al mondo intero nel più cinico dei modi.

Il mondo è imperfetto e nessuno mi perdonerà. E anche se dovesse perdonarmi, faccio prima io a darmi l'assoluzione. E buonanotte.

Un mondo di non-perdonati e di in-consapevoli, felici di esserlo.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 





18/06/13

La leggenda di Jung antisemita.



Siccome si torna a discutere ancora oggi di un presunto antisemitismo di Carl Gustav Jung (mi è capitato anche di recente di leggere nel libro di memorie Prima di andarsene Saul Bellow una definizione di Jung come "antisemita pazzo" ), pubblico questo articolo definitivo di Paolo Ferliga sul sito di Claudio Risé che ricostruisce punto per punto la vicenda e chiarisce una volta per tutte la questione.  

Capita ancora oggi di leggere che Carl Gustav Jung (psichiatra e psicologo svizzero vissuto tra il 1875 e il 1961, fondatore della Psicologia Analitica), sarebbe stato antisemita e nei primi anni Trenta avrebbe addirittura simpatizzato per il nazismo. 

 Queste accuse, particolarmente pesanti nei confronti di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla cura della psiche, sono del tutto infondate, smentite dagli scritti, dai comportamenti e dai numerosi pazienti e collaboratori ebrei di Jung. 

Per quanto riguarda gli scritti l’accusa si riferisce ad alcuni articoli degli anni 1933/34 in cui Jung parla di psicologia semitica o ebraica e di psicologia ariana o germanica. (1) L’uso di questa terminologia sarebbe una prova del razzismo intrinseco al pensiero di Jung. Per chi conosca il dibattito interno al movimento psicoanalitico l’uso di tali termini però non sorprende. Lo stesso Freud infatti riconosce più volte una differenza tra “anima ebraica” e “anima ariana”. Nel 1908, ad esempio, parla della sua “parentela razziale” con l’ebreo Abraham e di come “i nostri compagni ariani” siano indispensabili per sottrarre la psicoanalisi alla morsa dell’antisemitismo. (2) 

Nel ‘26 inoltre scrive che, pur non essendo credente, si sente attratto in modo irresistibile dall’ebraismo e dagli ebrei, mosso da “molte oscure potenze del sentimento” e dalla “familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica”. (3) Anche Freud riconosce quindi una specificità psichica connessa all’appartenenza “razziale”. Il termine razza, in quegli anni, non ha ancora assunto quell’alone semantico negativo e terribile che gli verrà conferito dal nazismo. Mentre Freud però non affronta questo problema a livello teorico, Jung si propone di indagare le “oscure potenze del sentimento” che spingono il singolo a sentirsi attratto dall’appartenenza al proprio popolo ed alla sua tradizione e di verificare se esista una “medesima costruzione psichica” correlata alle differenze etniche tra gli uomini.

In questa indagine Jung scopre che la psiche di una persona non è condizionata soltanto dalla sua storia individuale e familiare, ma anche dalla storia collettiva, dall’appartenenza ad una comunità e dalla relazione con la terra in cui la comunità vive.

Nell’inconscio collettivo infatti si depositano i miti, i simboli, le tradizioni di un popolo. Per questa ragione Jung parla anche di un carattere etnico della psiche e quindi di una differenza tra psiche ebraica e psiche germanica. Proprio la scoperta dell’inconscio collettivo e degli archetipi, che ne costituiscono la struttura, permette a Jung di intuire già nel 1918 il potenziale distruttivo dell’anima germanica. Nello scritto Sull’inconscio sostiene infatti che con il venir meno dell’autorità del cristianesimo “la bestia bionda …minaccerà di erompere con effetti devastanti”. (4)

Jung pensa però che l’inconscio dei tedeschi contenga non solo un elemento anticristiano e barbarico potenzialmente distruttivo, ma anche il suo opposto, un’energia in grado di promuovere un rinnovamento culturale e spirituale. Questa convinzione continuerà ad operare in Jung fino al 1933/34, quando ancora si illude che la terra di Goethe, di Beethoven e di Hegel, “uno dei paesi civilizzati più evoluti del mondo” (5), non si consegnerà mani e piedi alla barbarie nazista

I dubbi che Jung condivideva con molti intellettuali della sua epoca lo porteranno così a sottovalutare, in quegli anni, gli “effetti devastanti” del nazismo da lui stesso lucidamente previsti nel 1918. Forse per questa sottovalutazione Jung non si rende conto che i concetti di psicologia ebraica e germanica, negli anni in cui il nazismo utilizza il concetto di “razza ebraica” per giustificare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, si prestano a pesanti fraintendimenti e strumentalizzazioni. Di qui le accuse di antisemitismo e addirittura di simpatia per il nazismo di cui abbiamo parlato all’inizio. 

Jung risponderà a queste accuse in modo organico in tre scritti: Dopo la catastrofe, Commenti sulla storia contemporanea (1945) e Contributi ai “Saggi di storia contemporanea” (1946), (6) in cui presenta gli sviluppi del suo pensiero e un’analisi del nazismo come psicosi di massa. Ma già nel 1936 il saggio Wotan (7) suona come critica spietata del nazismo, analisi precisa e forse non ancora sufficientemente compresa delle sue cause profonde. 

Paolo Ferliga 
Docente di Filosofia Psicologo analista 

24/02/11

La "divina bellezza" di C.G.Jung, sulle note di Kjetil Bjornstad.



E' una sorta di testamento spirituale, quello scritto da Carl Gustav Jung nell'ultima pagina di 'Ricordi, sogni, riflessioni', pubblicata nel 1961 E' sempre meraviglioso rileggere queste parole.

Sono stupito, deluso, compiaciuto di me; sono afflitto, depresso, entusiasta. Sono tutte queste cose insieme, e non so tirare le somme. Sono incapace di stabilire un valore o un non-valore definitivo; non ho un giudizio da dare su me stesso e la mia vita. Non vi è nulla di cui mi senta veramente sicuro. Non ho convinzioni definitive, proprio di nulla. So solo che sono venuto al mondo e che esisto, e mi sembra di esservi stato trasportato. Esisto sul fondamento di qualche cosa che non conosco. Ma, nonostante tutte le incertezze, sento una solidità alla base dell'esistenza e una continuità nel mio modo di essere.

Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. Se la mancanza di significato fosse assolutamente prevalente, a uno stadio superiore di sviluppo la vita dovrebbe perdere sempre di più il suo significato; ma non è questo - almeno così mi sembra - il caso. Probabilmente, come in tutti i problemi metafisici, tutte e due le cose sono vere: la vita è - o ha - significato, e assenza di significato. Io nutro l'ardente speranza che il significato possa prevalere e vincere la battaglia.

Quando Lao Tse dice: "Tutti sono chiari, io solo sono offuscato", esprime ciò che io provo ora, nella mia vecchiaia avanzata. Lao Tse è l'esempio di un uomo di una superiore intelligenza, che ha visto e provato il valore e la mancanza di valore, e che alla fine della sua vita desidera tornare nel suo proprio essere, nell'eterno inconoscibile significato. L'archetipo dell'uomo vecchio che ha visto abbastanza è sempre vero. Questo tipo appare a qualsiasi livello di intelligenza, e i suoi tratti sono sempre gli stessi, sia egli un vecchio contadino o un grande filosofo come Lao Tse. Così è la vecchiaia, dunque limitazione. Eppure vi sono tante cose che riempiono la mia vita: le piante, gli animali, le nuvole, il giorno e la notte, e l'eterno nell'uomo. Quanto più mi sono sentito incerto su di me stesso, tanto più si è sviluppato in me un senso di affinità con tutte le cose. Mi sembra, infatti, che quell'alienazione che per tanto tempo mi ha diviso dal mondo si sia trasferita nel mio mondo interiore, e mi abbia rivelato una insospettata estraneità con me stesso.»


07/09/09

Psicanalisi e felicità.


Mi è venuto in mente, guardando le puntate della seconda serie di un bellissimo prodotto per la tv dell'americana HBO, "In Treatment". Si tratta di un serial - che nasce da un'idea della tv israeliana - che vede al centro uno psicoanalista, il quale in ogni puntata - della durata di 30 minuti - riceve nel suo studio un diverso paziente, 'in terapia'.

Il povero analista - che deve fra l'altro fare i conti con i disastri della sua vita personale (ha tre figli e un matrimonio entrato in crisi proprio a causa dell'innamoramento per una giovane paziente) - deve affrontare i casi più disparati: nella prima serie erano una ragazza avvenente e provocante, in crisi; un 'eroe di guerra' dell'Iraq; una coppia in crisi matrimoniale; nella seconda una ragazza malata di cancro, una quarantenne in crisi per assenza di maternità, un anziano manager.

Guardando questa serie mi sono reso conto di come - meglio non si potrebbe - la psicoanalisi stessa sia ormai entrata in crisi, nel nostro mondo occidentale. La speranza - pretesa - di curare le ferite e i dolori dell'anima attraverso lo scioglimento dei nodi psicologici, e di raggiungere una pienezza di senso, e di felicità, in gran voga fino a un trentennio fa - si è oggi alquanto ridimensionata.

Intendiamoci: l'analisi è una cosa seria - specie quando gli analisti sono seri e preparati - e moltissime persone sono state letteralmente 'salvate' da una terapia psico-analitica.

Ma i dolori, le ferite, le mancanze, soprattutto le RISPOSTE alla mancanza di senso che sentiamo spesso nelle nostre vite, non possono quasi mai essere risolte solo da un trattamento psico-analitico.

In "in treatment" non a caso, regna l'infelicità diffusa: quella dei pazienti, che ricavano soltanto frustrazione dalle loro speranze di 'guarigione', e soprattutto quella dell'analista, che sperimenta la sua inadeguatezza, inutilità, perlopiù aggravata dalla sofferenza altrui.

Qualcuno mi disse un giorno che la psico-analisi non è altro che una 'confessione' laica, cioè l'equivalente del sacramento della Confessione, naturalmente de-sacralizzata, e divenuta anzi un rito laico, di assoluzione o auto-assoluzione (o se preferite di riconciliazione o auto-riconciliazione).

Non so se questo sia vero o no. Vero è, indubitabilmente, che le scienze psico-analitiche hanno avuto un incredibile ed esponenziale boom concomitante con l'entrata in crisi verticale - in occidente - del sacramento della confessione, ma più in generale della pratica religiosa.

Fatto sta che mi sembra un buon segno quello che anche la scienza e la pratica psico-analitica comincino ad interrogarsi sulla validità del metodo, e sulla efficacia delle cure, nella riconsiderazione del fatto che "curare" i problemi di una persona, della sua vita, delle sue relazioni, del suo carattere, delle sue vicissitudini, non può mai risolversi semplicemente in una operazione di tipo 'meccanico'.

Esiste qualcosa, dentro di noi, che non si può spiegare (e quindi curare) soltanto sulla base di procedimenti psichici. Siamo fatti (anche) di un 'quid' che sfugge ad ogni analisi, ad ogni studio, esame, approfondimento, giustificazione, evidenza. Anzi, spesso è proprio quel 'quid' che ci fa stare così male.

E' il centro del nostro 'Sè', come lo chiamava Carl Gustav Jung. Quella voce che parla anche quando non vogliamo sentirla. La psicoanalisi va benissimo per cercare di stare meglio. Ma la guarigione, la vera guarigione, siamo soltanto noi - raggiungendo quella parte di Sè così profonda (eterna?), che sa così tanto di noi e della nostra storia - che possiamo darcela.


18/09/08

La Risposta a Giobbe - di Carl Gustav Jung.





Sto leggendo in questi giorni un meraviglioso libro, di quel grande genio dell'umanità che è stato Carl Gustav Jung. Il quale in un famosissimo saggio, intitolato "Risposta a Giobbe", pubblicato nell'ultima fase della sua vita, nel 1952, si pose come obbiettivo quello di rispondere alla domanda cruciale della nostra esistenza: ovvero la presenza del male, nelle nostre vite, che da un punto di vista veterotestamentario, è rappresentato in tutta la sua drammatica pienezza nel Libro di Giobbe.
Chiunque sa che quel Libro della Bibbia sottopone un problema fondamentale: perchè il Giusto viene punito - ingiustamente - da Dio ? Perchè Dio si accanisce contro di lui, cedendo alle lusinghe di Satana che pone dei dubbi a Dio sulla fedeltà di Giobbe (il quale invece non ha nessuna colpa, tutt'altro) ? Perchè l'onniscente Dio - sembrerebbe per un puro divertimento sadico - si diverte a tormentare il povero Giobbe, l'uomo giusto e incolpevole, fedele a Dio: soltanto per constatare se egli riuscirà a rimanergli fedele anche nelle sofferenze più atroci inviategli ingiustamente ? Ma che gioco è questo ? Dio ragiona così ?

A tutte queste drammatiche domande, Jung dà una serie di risposte geniali, fornendo una interpretazione psico-analitica delle dinamiche che si instaurano tra Dio-Yahwèh e l'Uomo, la sua creatura.

Secondo Jung, Giobbe è il 'punto di rottura' nell'equilibrio tra Dio - creatore e Uomo-creato. E' quella crasi che rende 'necessario' il cambiamento in Dio stesso, e che porta all'incarnazione.

" Tutto il mondo è di Dio, e Dio è in tutto il mondo, " scrive Jung, " sin dalle prime origini. Ma perchè allora tutta questa grande impresa dell'incarnazione ? ci si domanda stupiti. Dio è sì, de facto, in tutto, ma nonostante ciò dev'essere mancato qualche cosa perchè sia stato necessario inscenare, con tante precauzioni e con tanta cura, una , per così dire, seconda entrata nella Creazione. .... Ma quando si pensa che il male è stato originalmente insinuato da Satana e che questi continua ancora incessantemente ad instillarlo con le sue male arti in tutto il creato, sembrerebbe molto più semplice che Yahwèh avesse richiamato energicamente all'ordine, e una volta per tutte, questo practical joker, eliminando il suo influsso dannoso ed estirpando così il male alla radice. Non ci sarebbe stato allora alcun bisogno di organizzare una particolare incarnazione.... "
Ma.... il testo di Jung è una affascinante (e assai persuasiva risposta) a queste e a molte altre obiezioni.