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22/12/19

Poesia della Domenica: "Annunciazione - Le parole dell'Angelo" di Rainer Maria Rilke




Annunciazione - Le parole dell'Angelo

Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani
tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.

Sono stanco ora, la strada è lunga,
perdonami, ho scordato
quello che il Grande alto sul sole
e sul trono gemmato,
manda a te, meditante
(mi ha vinto la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta.

Ho steso ora le ali, sono
nella casa modesta
immenso; quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.

Gli angeli tutti sono presi
da un nuovo turbamento:
certo non fu mai cosí intenso
e vago il desiderio.
Forse qualcosa ora s’annunzia
che in sogno tu comprendi.
Salute a te, l’anima vede:
ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno a aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.

Sono venuto a compiere
la visione santa.
Dio mi guarda, mi abbacina...

Ma tu, tu sei la pianta.


Rainer Maria Rilke
Traduzione di Giame Pintor

21/05/17

La poesia della Domenica - "In un parco straniero" di Rainer Maria Rilke.








Due sentieri. A nulla ti conducono.
Pure, l'uno t'induce a volte, sopra
pensiero a proseguire. Come se ti smarrissi;
ma d'improvviso giunto alla rotonda,
rimasto solo innanzi a quella lapide
leggi ancora una volta: Baronessa
Brite Sophie - e con il dito torni
a tastare la data ormai disfatta.
Perché questa scoperta non ti stanca ?

Perché come la prima volta indugi
con tanta attesa in questo posto d'olmi,
umido e buio e senza orme di passi ?

Quale contrasto ti eccita a cercare
chi sa cosa tra le assolate aiuole,
come se fosse il nome di un rosaio ?

Perché spesso ti fermi ? Che cosa ode il tuo orecchio ?
E perché infine, come perso, guardi
bagliori di farfalle intorno all'alto Phlox ?


Rainer Maria Rilke, da Nuove Poesie, traduzione di Giacomo Cacciapaglia, Einaudi, Torino, 1992.

14/08/16

Poesia della domenica - "Ricordare qui non basta", di Rainer Maria Rilke.




III.


Ricordare, qui, non basta, il puro
esistere di quei momenti sia 
sul mio fondo, un precipitato
della soluzione smisuratamente satura.
Perché io non rammento, quello che sono
mi tocca per causa tua.  Non ti invento
in punti tristemente raggelati
da cui fuggisti; la realtà stessa della tua assenza
è calda di te e più vera di una mancanza.
La nostalgia si perde troppo spesso nell'indistinto.
Perché dovrei espellermi, mentre forse il tuo influsso
mi è lieve, come il chiaro di luna a quel posto alla finestra. 


Rainer Maria Rilke, composta probabilmente a Duino, nell'ottobre del 1911 e conservata nel lascito di Lou Andreas Salomé in una trascrizione fatta da Rilke nel suo periodo a Monaco (1919).



24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





26/05/15

L'epistolario tra Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé - Il tormento e l'estasi.



Nel 1984 e successivamente ristampato nel 1992, La Tartaruga ha meritoriamente pubblicato il meraviglioso epistolario tra Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé nel corso di quasi trent'anni, dal 1897 al 1926. 

Si tratta della traduzione del volume curato da Ernst Pfeiffer il quale, riuscito ad ottenere i diritti dagli eredi, mise insieme tutto ciò che restava delle lettere scambiate da Rilke e Salomé in tre decenni cruciali, per la loro storia e per la storia dell'Europa e dell'Occidente. 

L'epistolario in questione è formato da 134 comunicazioni scritte di Rilke (escludendo poesie e dediche) e di 65 di Lou A. S. 

La disuguaglianza numerica degli scritti dipende in parte dall'indole di Rilke - dopo ogni intervallo è quasi sempre lui che riprende a scrivere per primo, perché aveva in continuazione il bisogno di raccontarsi - e in parte dal fatto che sono andate perdute diverse lettere di Lou.

Mancano in particolare quelle della prima, appassionata, fase del loro rapporto di cui si sono conservate soltanto le lettere di Rilke e solo quelle relative ai primi giorni del loro incontro. 

L'ultimo appello di Lou, del febbraio 1901, conclude i quasi quattro anni di vita in comune e si pone già fuori del legame che li aveva uniti fino a quel momento.

Nel maggio del 1897 a Monaco Lou aveva incontrato il giovane Rilke (lei 36 anni, lui 22), che sollecitato da lei cambierà ben presto il proprio nome René in Rainer, con il quale diverrà presto famoso in gran parte d'Europa.

Lou, nata il 12 febbraio del 1861 a Pietroburgo, era sposata, dal 1887 a Friedrich Carl Andreas, studioso di storia delle lingue, di quindici anni più vecchio di lei,che dopo momenti molto burrascosi e un tentativo di suicidio, la convince a sposarlo.  Ma Lou gli impone un "matrimonio in bianco" ed esige per sé la più ampia libertà di movimento, nonché l'impegno che lui non interferisca nella sua vita sentimentale. 

Quando conosce Rilke, Lou - nonostante la fama che si porta dietro dai tempi del triangolo scandaloso con Nietzsche e il filosofo Paul Réem (in realtà del tutto casto) - è ancora vergine.  Tra i due ha inizio un rapporto intensissimo, che coinvolge corpo ed anime. 

Dopo quattro anni, Lou decide di interromperlo. E del periodo della vera e propria amicizia - dal 1903 e fino alla morte di Rilke (1926) è la seconda parte molto più cospicua dell'epistolario. 

Distrutto dalla separazione, Rilke trova il modo di sopravvivere. Sposa la scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin, ha con lei una figlia, ma non smette di girovagare per l'intera Europa - in fiamme - di quegli anni, in un incredibile tourbillon di incontri (con tutte le più grandi personalità dell'epoca) e di luoghi, che si può leggere qui. 

Lou resta per Rilke il riferimento di una vita intera.  Il soggetto amoroso si trasforma in presenza/assenza, vicinissima distanza, comunione totale di spirito. Le lettere sono struggenti:  Sai, se non si morisse di vecchiaia, si morirebbe di nostalgia, scrive Lou.  (lettera del 22 settembre 1921)

Tutto ciò che vive, risponde Rilke, che pretende la nostra attenzione, incontra in me una infinita partecipazione, dalle cui conseguenze devo poi ritrarmi con dolore quando mi accorgo che mi consumano totalmente. (lettera del 29 dicembre 1921). 

Tu sei l'uomo più simbolico che io conosca, scrive ancora Lou, e tu vivi le cose ultime, le conferme, per le quali la materia esistenziale si concentra solo di quando in quando per poterle rivelare; per questo tanto spesso tu non puoi vivere. (lettera del 5 gennaio 1921). 

Rilke continua a spostarsi, di ritiro in ritiro, di esilio in esilio, a Duino, dove compone gran parte delle Elegie, e infine a Muzot, dove la sua malattia si aggrava fino alla morte. 

Lo spirito inquieto, errante di Rilke, la saggezza altrettanto inquieta di Lou: una stessa devastante sensibilità, un attraversamento della vita come esperienza iniziatica, fino alla morte.  Queste lettere esprimono cose che non si possono esprimere che vivendo, o nella rarefazione artistica di un genio puro come Rilke: il tormento delle costrizioni terrene, la mancanza o la nostalgia di quel che non può essere afferrato mai definitivamente; l'estasi della creazione artistica, delle anime che non si incontrano e non si sciolgono più, mai più, nonostante e oltre le incombenze del vivere. 


Fabrizio Falconi (C)(riproduzione riservata) 

Rilke e Lou Andreas Salomé

23/04/15

"Esseri che attraversano tutte le tempeste." Rilke a Salomé



Che due esseri umani si riconoscano l'un l'altro non è soltanto splendido; ma è della più grande importanza che si incontrino nel momento giusto e che insieme celebrino feste profonde e silenziose in cui crescere nel desiderio per essere uniti contro le tempeste. 

... quando trovano alcuni minuti di respiro nei lunghi, pallidi giorni, si siedono assieme e si raccontano con guance infuocate della notte splendente e odorosa di abete... 
Esseri come questi passano attraverso tutte le tempeste. 

Spegnimi gli occhi: posso vederti
sigillami gli orecchi: posso udirti
e senza piedi ancora posso venire da te
e senza bocca ancora posso implorarti

Spezzami le braccia: col mio cuore
ti stringerò come una mano,
strappami il cuore e il mio cervello pulserà
e pur se getterai nel fuoco il mio cervello
ti porterò nel sangue. 


Rainer Maria Rilke a Lou Andreas Salomé,  Wolfratshausen 5 settembre 1897, domenica


18/04/15

"Non aveva residenza fissa". - Rainer Maria Rilke.



Non aveva residenza fissa.  Così, parlando di se in terza persona, scrive Rainer Maria Rilke. Per il poeta praghese questa frase suona come una affermazione - manifesto, riassumendo una costante nella sua vita e nella sua poetica.

In cui la casa - come scrive Elisabetta Potthof nella prefazione alla edizione italiana del Testamento, - è continuamente ricercata come luogo protetto entro cui placare la propria interiorità.  D'altronde fissarsi definitivamente in una dimora è possibile solo quando si raggiunga un equilibrio interiore. 

Rilke non lo trovò mai, e forse ne aveva anche paura. 

Una vita dunque nomade, errabonda, alla continua ricerca di una specularità interno-esterno, di un esterno nel quale l'interno possa specchiarsi. 

Ecco un elenco (parziale) degli spostamenti e dei luoghi in cui ha vissuto Rilke nei suoi 50 anni quasi precisi di vita.

Praga (fino a 15 anni)
Linz
Schonfeld
Vienna
Monaco di Baviera
Venezia
Wolfratshausen
Firenze
Berlino
San Pietroburgo
Kiev
Poltava
Saratov
Samara
Brema
Parigi
Roma (9 mesi)
Borgeby Gard (Svezia)
Copenhagen
Furuborg
Oberneuland
Berlino
Worpswede
Berlino
Friedelhausen
Parigi
Dresda
Praga
Parigi
Furnes (Belgio)
Ypern
Bruges
Capri (6 mesi)
Napoli
Parigi
Praga
Breslavia
Vienna
Venezia
Capri
Napoli
Roma
Firenze
Parigi
Strasburgo
Colmar
Provenza
Lipsia
Jena
Berlino
Parigi
Oberneuland
Parigi
Algeri
Tunisi
Giza
Luxor
Karnak
Il Cairo
Napoli
Venezia
Parigi
Berlino
Monaco di Baviera
Avallon
Lione
Avignone
Savona
Sanremo
Piacenza
Bologna
Duino
Venezia
Toledo
Cordoba
Siviglia
Ronda
Madrid
Parigi
Foresta Nera
Lipsia
Berlino
Monaco
Parigi
Venezia
Vienna
Monaco
Berlino
Monaco
Zurigo
Nyon
Berna
Losanna
Ginevra
Brissago
Zurigo
Locarno
Schonenberg
Ginevra
Bern
Muzot
Montreux
Parigi
Baveno
Milano
Bad Ragaz
Muzot
Glion
Montreux

Ed ecco invece un elenco (parziale) delle personalità che Rilke ha conosciuto personalmente nella sua vita, e con cui ha avuto rapporti diretti:

Valerie von David-Rhonfeld
Emil Orlik
Hugo Steiner
Arthur Schnitzler
Karl Kraus
Lou-Andreas Salomé
Frieda von Bulow
Heinrich Vogeler
Paula Modersohn-Becker
Clara Westhoff
Gerhard Hauptmann
Stefan George
Oskar Kokoschka
C.J. Burckhardt
Lev Tolstoj
Leonid Pasternak
Paul Trubeckoj
Paula Becker
Auguste Rodin
Sidie Nàdherny
Maksim Gorkij
Rudolf Kassner
Jean Cocteau
Isadora Duncan
Marie von Thurn und Taxis
André Gide
Eleonora Duse
Sigmund Freud
Franz Werfel
Lulu Albert-Lazard
Stefan Zweig
Ferruccio Busoni
Jean Lurcat
Baladine Klassowska
Paul Valery

Fabrizio Falconi

13/04/15

Il "Testamento" di Rainer Maria Rilke - Un testo sublime.





L'inverno del 1920-21 Rainer Maria Rilke si rifugia nel castello Schloss-Berg nel cantone di Zurigo. Qui scriverà una nuova elegia (un abbozzo) dedicata all'infanzia (e contenuta ne L'Illustrazione Italiana n.13) e questo Testamento, testo durissimo e veramente sconvolgente, sorta di purificazione interiore (ed esteriore, tramite silenzio ed isolamento) dai rapporti e dalle relazioni per ritrovare il vigore di una parola assoluta.

Raggiunge i vertici la sperimentazione linguistica del taccuino bruciato, simile alle astrazioni junghiane associative - un testo misterioso e affascinante, come tutto Rilke.

Basti questa singola pagina, (67 della edizione italiana TEA con la traduzione di Claudio Groff, Ugo Guanda Editore, 1983):

L'ascesi non rappresenta certo una soluzione; è sensualità di segno negativo. Può tornare utile al santo, come supporto ausiliario; nel punto di intersezione delle sue rinunce, egli scopre quel dio del contrasto, quel dio dell'invisibile che ancora non ha posto mano alla creazione.

Ma chi è impegnato nei sensi, chi deve considerare pura l'apparizione e autentica la forma, come potrebbe iniziare con la rinuncia !  E seppure questa gli si rivelasse in un primo momento utile e vantaggiosa, per lui rimarrebbe inganno, stratagemma, raggiro -, e infine si vendicherebbe in un qualche punto del suo arco creativo sotto forma di durezza, aridità, inammissibilità, viltà del frutto. 




08/01/15

Tempo di semina - quando tutto muore, tutto segretamente rinasce.







Il tempo della semina del grano è l'autunno

Nella stagione dove tutto muore, qualcosa segretamente nasce.  

Il contadino ha già arato il campo, l'erpice lo ha spianato, tutto sembra ormai brullo e finito, come in ogni anno.  Ma tutto quello che verrà poi, che rinascerà, viene piantato in questo tempo cupo, durante il quale il cielo si annerisce, il vento spazza via ogni foglia, i rami restano impietriti, la pioggia copre come pietra tombale la vita, prima della benedizione silenziosa della neve. 

Il grano seminato dorme, al buio. Si prepara nell'infimo del terreno, tra i vermi. 
Nell'umile non visto e non udito. 

Anche l'energia vitale, il rinnovamento, la rinascita personale, l'amore, funzionano così. Come il lussureggiante campo che esploderà al sole di luglio. 
Nessuna di queste cose può arrivare se essa viene condizionata o ordinata a crescere. 

La crescita è un fenomeno spontaneo, che sgorga dalla pazienza dell'era nascosta, non controllabile, non artificiosa, non voluta. 
La speranza è nel seme.  La crescita è nella sapienza della terra. Di ciò che già la terra, contiene. 

Scriveva Rainer Maria Rilke nel Testamento:

come sono stanco di predisporre tutte queste contromosse per difendermi dalle prevaricazioni dell'amore - ; dove sarà il cuore che non mi 'commissioni' una precisa, egoistica felicità, ma mi conceda di predisporgli ciò che da me sgorga inesauribilmente ? 

Fabrizio Falconi


03/10/14

La gentilezza nel donare crea amore. Lao Tzu, Marina Cvetaeva e Rilke.



La gentilezza nel donare crea amore. 

Così scrive Lao-Tzu, e davvero - se solo vi si porge attenzione - questo è ciò che crea un amore, una relazione d'amore: gentilezza nel donare

Non occorre cioè, dice Lao-Tzu, solo la capacità di donare perché ci sia amore.   Occorre anche la gentilezza nel donare.  La gentilezza, che a noi spesso appare come una qualità esteriore, formale, è invece, sembra dirci Lao-Tzu, sostanza. Proprio perché nell'amore, tutto ciò che è forma è anche sostanza. 

A questo punto, se vi è gentilezza del donare, ogni amore è possibile. Ogni tipo di amore. Non importa quali implicazioni terrestri vi saranno.

Ci ripenso, ricordandomi dello struggente amore scritto tra Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva, che pure, non si incontrarono mai di persona. 


Nel maggio del 1926 Rainer Maria Rilke si trova nella clinica svizzera di Val-Mont per curare un malessere ancora ritenuto lieve, di probabile origine nervosa (in realtà sono le avvisaglie di quella leucemia che lo condurrà alla morte il 29 dicembre dello stesso anno).

Da tempo ormai, da quando ha terminato il decennale lavoro delle Elegie duinesi, la vita in lui si è fatta «stranamente pesante», il suo corpo, prima così servizievole, ora sembra rifiutarsi di assecondarlo; e su tutto la terribile sensazione di vuoto, di spaesamento, di chi si è ormai lasciato alle spalle il culmine della propria parabola umana e creativa.

Nel mezzo di una simile crisi, trova però il tempo, esaudendo una richiesta di Boris Pasternak, di scrivere a un’intima amica di quest’ultimo, la poetessa Marina Cvetaeva, per inviarle con dedica un proprio volume di liriche.

La risposta di lei non si fa attendere: un’appassionata, debordante dichiarazione d’amore verso il poeta Rilke, anzi, verso un Rilke che è addirittura «l’incarnazione della poesia», nonché «quanto di più caro possieda al mondo » questa esule russa dall’esistenza difficile e tormentata. E al suo tono appassionato, come all’uso del «tu» con cui la Cvetaeva supera d’un balzo, sin dall’inizio, le convenzioni di uno scambio epistolare tra sconosciuti, lui si adegua immediatamente.

Comincia così tra i due il breve, folgorante carteggio ora pubblicato nella traduzione italiana di Ugo Persi (Lettere, SE, pp. 104, € 13); comincia, possiamo dire, una breve ma intensissima storia d’amore tra un uomo e una donna accomunati dalla più profonda diffidenza verso ciò che nell’amore è adempimento, legame, possesso.

Entrambi, per tutta la vita, hanno sempre cercato tutt’altro: quello slancio dell’anima che è sinonimo, o traduzione, o alimento dello slancio poetico; quel «bacio assoluto» rispetto al quale ogni bacio concreto rappresenterebbe già una forma di degradazione.

Tanto Amelia Valtolina quanto Pina De Luca, autrici delle due interessanti postfazioni che completano il volume, sottolineano appunto la centralità, in questo carteggio, dell’idea di una «produttività del non-possesso», sia sul piano dei sentimenti sia su quello, quasi inscindibile, della riflessione poetica.

È una consapevolezza che spesso, soprattutto in Rilke, si vena di rassegnazione: la consapevolezza, come egli scrive nell’Elegia dedicata a Marina, che entrambi sono soltanto «dispensatori di segni» e che «quest’opera lieve, quando uno di noi/ più non regge e s’induce alla presa, / si vendica e uccide».

L’«opera lieve» del poeta, che solo attraverso il più paziente e sistematico sacrificio dell’Io può arrivare davvero ad abbracciare e trasfigurare tutte le cose nello spazio dei propri versi, del proprio «invisibile cuore»; ma anche l’opera altrettanto lieve e delicata degli amanti, che vive di un fragilissimo equilibrio tra prossimità e distanza.

Eppure, dopo alcuni mesi, la Cvetaeva tenta di spezzare questo equilibrio. Sente di dover «approfittare del caso di essere ancora (e pur sempre!) un corpo vivo», e propone a Rilke di incontrarsi «in qualche posto della Savoia francese molto vicino alla Svizzera».

La reazione di lui a questa proposta è cauta, vagamente intimorita; tanto da spingerla a dichiarare, nella lettera successiva, «Tu credi che io creda alla Savoia? Sì, come anche Tu, come al regno dei cieli». E infatti, i due non si vedranno mai.

All’accorato «Mi ami ancora?» inviato il 7 novembre su una cartolina postale Marina non riceverà risposta; la «strana gravezza», la «discordanza» tra l’anima e il corpo hanno sospinto Rilke in una regione inaccessibile, sottraendolo a qualsiasi relazione umana. 

Gli scriverà un’ultima volta la sera del 31 dicembre, dopo aver appreso della sua scomparsa, per commentare di nuovo, con l’amarezza delle parole definitive: «Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra - come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero?»

Paola Capriolo per Corriere della Sera. 

11/05/14

La poesia della domenica - 'Incontro nel Viale dei castagni' di Rainer Maria Rilke.




All'ingresso l'avvolse il buio verde
come in un fresco mantello di sera;
e mentre ancora al corpo s'accordava
ecco lontana nella trasparente

opposta estremità, da un sole verde
come da vetri verdi, luminosa,
emerse una sola figura bianca
e restò a lungo lontana; poi luci
spiovendo ad ogni passo l'inondarono

e all'indietro le corse un chiaro brivido i capelli
timido propagarsi nel biondo.
Ma a un tratto l'ombra si fece profonda
e occhi vicini erano aperti

ora in un volto nuovo, chiaramente visibile
e fermo come in un ritratto
in quell'istante che tornò a dividerli:
prima era per sempre e poi non era più.

Parigi, estate 1908, prima del 15 luglio

Rainer Maria Rilke, da Nuove poesie, a cura di Giacomo Cacciapaglia, Einaudi, 1995.

16/12/12

Rainer Maria Rilke - Lettera di Natale alla madre.






Castello di Berg am Irchel Cantone di Zurigo, Svizzera 17 dicembre 1920 


Mia cara Mamma, 

ancora una volta, alla nostra ora benedetta, la più amorevole memoria dei Natali passati e il desiderio che ogni anno, dopo tempi tanto malvagi, Ti possano essere concesse feste più quiete e pacifiche e, finalmente, anche in una casetta tutta Tua! 

Detto questo detto tutto; e ora non c'è tanto da leggere quanto entrare in se stessi, e preparare per la celebrazione più santa dell'anno un presepio nel nostro cuore, affinché esso e il Salvatore in lui possano davvero tornare al mondo col giusto fervore! 

Quel che Ti auguro, cara mamma, è che in questa santa sera la memoria di tutta l'emergenza e, anzi, la consapevolezza dei problemi incombenti e dell'insicurezza dilagante possano essere del tutto sollevate e in certo qual modo dissolte in quell'intimissima sapienza della grazia per la quale nessun tempo è troppo pregno di fatalità e nessuna angoscia è tanto serrata che essa non sappia al tempo suo -che non è il nostro!- entrare e penetrare con la sua mite vittoria quanto sembrava insuperabile. 

Non c'è nessun momento in un lungo anno in cui possiamo richiamare nel nostro animo la sua sempre possibile manifestazione e onnipresenza così vividamente come in questa notte invernale da secoli indipendente, che con l'incomparabile arrivo di questo bimbo capace di trasformare tutti gli esseri viventi ha raggiunto e superato con un colpo solo la somma di tutte le altre potenze terrene. 

Per quanto la lieve estate, quando l'esistenza sembra considerevolmente più sopportabile e meno faticosa, quando non dobbiamo difenderci da aggressioni così immediate da parte dell'aria e della natura serenamente impegnata... per quanto la più felice delle estati possa viziarci con le sue consolazioni, cosa sono esse di fronte agli incommensurabili tesori di conforto di questa notte dall'apparenza insignificante e anche povera che d'un tratto si apre verso l'interno come un cuore che tutti abbraccia e scalda e che davvero con i battiti del suo cuore, quasi rintocchi di campane, risponde a noi che tendiamo l'orecchio con la più fervida attenzione! 

Tutte le premonizioni dei tempi andati non sono bastate ad annunziare questa notte, tutti gli inni che sono stati cantati in suo onore mai hanno sfiorato il silenzio e la tensione in cui si inginocchiano pastori e Re Magi: e così anche per noi, poiché mai nessuno di noi è stato in grado, mentre passa su di noi questa notte di prodigio, di segnare i confini della propria vita. 

Proprio questo è il mistero dell'uomo inginocchiato, dell'uomo profondamente inginocchiato: che è più grande, secondo la sua natura spirituale, di quello in piedi! Il mistero che si celebra questa notte! L'uomo inginocchiato, che si abbandona del tutto sulle ginocchia, smarrisce tuttavia le proporzioni del suo ambiente, persino alzando gli occhi non saprebbe più dire cosa è grosso e cosa è piccino. Ma per quanto così piegato raggiunga a malapena l'altezza di un bambino, tuttavia egli, quest'uomo inginocchiato, non può certo essere detto piccolo. 

Con lui si sposta la scala ed egli, seguendo nelle sue ginocchia la gravità e la forza che gli sono proprie e prendendo il posto che loro compete, appartiene già a quel mondo in cui l'altezza è profondità e, se già l'altezza rimane incommensurabile al nostro sguardo e alle nostre possibilità, chi potrebbe mai misurare la profondità? Questa però è la notte della profondità spalancata e radiosa: possa, cara mamma, essere a Te consacrata e benedetta. 

Amen. 

Le sei di sera del Natale 1920 René* 


23/09/12

La poesia della domenica - "Un rinnegato delle proprie mani" di Rainer Maria Rilke.




Un rinnegato delle proprie mani,
e dimenticato come un animale morto, -
e molte resistenze altrui,
E la rivolta in me contro di me.
Che da questo possa venire
qualcosa di nuovo, vero e grande -
oh, infinitamente pavido è il mio cuore,
più spaurito del sogno e del talismano.
Come se non mi fosse alleata,
la vita è ogni giorno in rivolta
e ancora ricordo come da fanciullo
volessi allontanarmi da lei, verso le distese...
E negli anni tutto è rimasto
come, quando, sgomento, iniziai,
sconsolato e triste chi mi ama
e le lontananze mi guardano crudeli.
E vado, non so che fare
ho dimenticato quanto ero venuto a dire;
tutti vogliono ch'io diventi
un guerriero, mentre sono uno sposo...


Rainer Maria Rilke, 17 novembre 1902, tratta da Diario di Parigi, traduz. di Andreina Lavagetto, Einaudi, 2003, pag. 37

28/02/12

Paola Capriolo su Rainer Maria Rilke, il doppio regno della vita e della morte.


Oggi, sul Corriere della Sera un bellissimo articolo di Paola Capriolo su Rilke. La Capriolo è ormai da parecchi anni, l'autore che forse più, in Italia, ha studiato e compreso la grandezza del genio delle Elegie Duinesi. Vi propongo il testo.

In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l'essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt'altro che accattivante. 

Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l'amore, il lutto, l'emozione di fronte a un paesaggio... mentre l'«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l'arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell'uomo. 

Chi è dunque l'uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba, ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell'aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po' eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente. Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell' Ottava elegia , diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell'atteggiamento di chi parte e «... sull'ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s'arresta, si volge indietro, indugia -».

 In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d'occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo... Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall'orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l'animale, che è di casa nell'aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l'avvenire, là vede il tutto e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l'anima possedeva in sé a propria insaputa. 

Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l'errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno se vanno tra vivi o tra morti». 

 Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l'una nell'altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno». Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l'aspetto della negazione.