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15/01/24

"Koba il Terribile" di Martin Amis e la rimozione collettiva del massacro di 20 milioni di uomini

 


Koba il Terribile è un altro meraviglioso libro di Martin Amis, pubblicato per la prima volta nel 2003. Un libro terribile da leggere, come Terribile è l'appellativo che Amis attribuisce a Josif Stalin, mutuandolo da quello con cui è passato alla storia il "Terribile" zar Ivan IV.
In 286 pagine Amis ricostruisce la carriera purtroppo irresistibile di uno dei più grandi sanguinari della storia, responsabile del genocidio di almeno venti milioni di persone: carriera irresistibile di un uomo rozzo, incolto, volgare e di personalità completamente border line (si direbbe oggi) capace di instaurare dal 1937 al 1953 una (non perfetta come quella nazista, ma altrettanto efficace) fabbrica del terrore, inducendo con la carestia imposta, alla miseria più assoluta un intero popolo, in particolare la secolare stirpe dei contadini russi, costretti a morire di fame o a mangiarsi tra di loro per sopravvivere.
Il massacro dei milioni di contadini russi si è accompagnato alle fucilazioni di massa, alle deportazioni nei gulag siberiani, alle torture sistematiche non solo dei dissidenti, ma anche di tutti quelli che per i motivi più diversi potevano anche lontanamente essere sospettati (la delazione era anch'essa di massa) di poter essere d'ostacolo al programma stalinista.
Leggere questo documentatissimo libro oggi è importante, perché a Stalin riuscì anche il miracolo, nonostante (o grazie a) i genocidi e alle deportazioni, di riuscire a rimanere una sorta di semidio per una buona parte dei russi, sovietici e non (la memoria di Stalin è ancora oggi, in patria, a partire da Putin, difesa e vezzeggiata).
Fa bene leggerlo perché, con il suo tono dolente e lucido, Amis parla a tutti, anche e soprattutto alle generazioni che in Inghilterra come in Italia, sono cresciute rimuovendo sistematicamente e sostanzialmente, l'immagine di Stalin e dei suoi aberranti crimini.
Generazioni, le nostre, che sapevano tutto di Treblinka e Dachau ma niente (e non volevano saperne niente) di Solovetskij e Belomorsko.
Generazioni che infatuate di John Reed e dell'Ottobre, si erano specializzate nell'arte dei distinguo, e praticavano l'oblio a riguardo del terrore sovietico, preferendo credere alla favola della controinformazione inventata dagli americani.
Fu forse il fatto che senza il sacrificio immane del POPOLO russo (non di Stalin e dei suoi inetti generali) nessuno probabilmente sarebbe riuscito a piegare e fermare l'avanzata nazista e la catastrofe mondiale, che generò anche una particolare condiscendenza, fatta in sostanza di silenzio, su quello che dal 1937 in poi successe in Russia, fino alla morte di Stalin.
Oggi la storia non ha buchi. E' particolarmente toccante l'ultimo capitolo del libro, quello nel quale con diverse lettere, Amis si rivolge al padre (il grande scrittore Kingsley Amis) e all'amico del cuore, Christopher Hitchens (grande scrittore e saggista), chiedendo loro come abbiano potuto - anche loro, così intelligenti, così colti e sensibili - giustificare Koba il Terribile e il suo "terrificante terrore". Uno strabismo imbarazzante (e colpevole), perché anche allora, chi avesse veramente voluto, avrebbe potuto guardare in faccia la semplice realtà.
Si preferì non farlo, anche in Occidente, con il risultato che la Russia è ancora oggi, nei metodi e nella concezione del potere assoluto, non così distante da quella dell'impunito Koba (che morì tranquillamente nel suo letto, probabilmente nemmeno consapevole dell'eredità di sangue, dolore e terrore lasciata in dono all'umanità).

Fabrizio Falconi - 2024

02/11/23

"Il Regno" di Emmanuel Carrère, l'investigazione (teologica) come forma d'arte


Con un po' di anni di ritardo, dalla sua uscita, ho letto Il Regno, di Emmanuel Carrère, che al pari degli altri suoi libri ebbe una diffusa eco alla sua pubblicazione e traduzione in Italia.

E' un libro importante e confermo che - come forse altri lettori - sono stato messo fuori strada all'inizio dalle recensioni italiane uscite all'epoca (2014), che ne sottolineavano un carattere da "pamphlet", sostanzialmente anticristiano.
Il Regno non è così: è un testo molto serio, documentato, impegnativo (più di 400 pagine), dal quale - anche per chi è cristiano o si professa tale - si imparano moltissime cose.
La seconda cosa che non è vera, è che il protagonista del libro sia Paolo di Tarso. Non è così. Il vero protagonista è Luca, il giovane medico macedone, che fu discepolo di Paolo e che è l'autore del Terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, quella "miscellanea" di eventi del dopo-morte di Gesù che racconta i primissimi anni del cristianesimo e che si ferma prima dell'Apocalisse di Giovanni.
In Luca, Carrère, palesemente finisce anche per identificarsi, in questa investigazione a tutto tondo: genere nel quale Carrère non conosce rivali. Luca arriva a scrivere il suo Vangelo, basandosi su quello - precedente - di Marco, ma - secondo Carrère - "romanzando" là dove lui stesso è in grado di riferire cose nuove, che Marco non sapeva o non ha scritto. La stessa "accusa" potrebbe essere rivolta a Carrère, il quale pur documentatissimo, deve fermarsi di fronte alle enormi lacune - e incoerenze, vuoti, piccoli e grandi misteri - di cui il racconto della Vita di Gesù è pieno. E Carrère, travestendosi da Luca, ed essendo (anche) un romanziere, riempie, ipotizza, aggiunge, interpreta, ma con grande sincerità intellettuale. E sempre con un alto grado di plausibilità e di "coerenza" di racconto.
Ne viene fuori il ritratto di Paolo, di cui Luca fu il più vicino collaboratore per molti anni: cittadino romano, prima persecutore poi convertito, uomo severo e ostinato, instancabile e appassionato. Le Lettere di Paolo sono come si sa, i documenti scritti, temporalmente più vicini alla vita di Gesù, risalendo ad appena 15-20 anni dopo la sua morte.
E lo si segue - mediante Luca - lungo i suoi avventurosi viaggi attraverso il Mediterraneo, e poi fino a Roma dove a Paolo - essendo cittadino romano - viene risparmiato il supplizio della croce (riservato ai senza patria cristiani), e comminata la "pietosa" decapitazione eseguita alle Tre Fontane (ad aquas salvias) .
Dopo la morte di Paolo, Il Regno si occupa a lungo delle vicende di Luca e della scrittura del suo Vangelo, l'unico tra i sinottici a gettare luce sulla nascita e infanzia del Maestro.
Carrère, essendo Carrère, intreccia come sempre questo dotto e avventuroso racconto - in cui si incontrano anche molti studiosi moderni del cristianesimo tra cui il grande Paul Veyne - con le sue vicende personali: la sua conversione al cristianesimo, avvenuta parecchi anni prima, e durata solo 3 anni, al termine della quale lo scrittore è tornato convintamente a essere un agnostico (e praticante di discipline orientali come lo Yoga).
E pur scritto da un agnostico, Il Regno si rivela come uno dei migliori, e più acuti, libri scritti negli ultimi anni sul cristianesimo, dal punto di vista storico, come e da quello filosofico. Carrère, pur non potendo oggi dichiararsi cristiano, ha capito meglio di molti altri lo spirito "autentico" del cristianesimo, quello delle origini, quello di Gesù e quello dei discepoli e degli apostoli, e ne ha un profondissimo rispetto.
Il suo punto debole, in un libro quasi impeccabile come questo, è forse credere, come fanno molti, che una storia "inventata a tavolino" (anche se questo non è quello che pensa Carrère) e messa in buona forma da volenterosi "segretari" come Luca (segretario di Paolo) e Marco (segretario di Pietro), possa aver rapidamente conquistato il mondo, e l'intero occidente per duemila anni (l'istituzione della chiesa cattolica cristiana è, come è noto, l'istituzione umana più antica, esistente).
Carrère sa, e lo scrive: che questo racconto pieno di buchi, incongruenze, cose inverosimili, miracoli, contraddizioni, questo racconto che ha per protagonisti un gruppo di analfabeti, umili pescatori e scappati di casa, e un presunto dio ammazzato come un capretto su una croce, delirante e pazzo nelle sue affermazioni contro ogni senso comune; questo racconto aveva ogni probabilità di essere cancellato dalla storia in qualche giorno o settimana, dopo la morte del Profeta, così come era successo a centinaia di altri racconti simili, inghiottiti dall'oblio.
Il vero mistero è, invece, come sia stato possibile che questa collezione di assurdità (Creo quia absurdum, scriveva Tertulliano), di "favola per donne, raccontata da donne" [specie la Resurrezione] quindi quanto di più inattendibile al mondo potesse esistere, di epopea degli ultimi, abbia potuto non soltanto diffondersi in pochissimo tempo capillarmente in ogni angolo di un immenso impero, ma addirittura nel giro di "appena" un paio di centinaia di anni, diventare creduta da milioni di persone, e così per duemila anni e fino ad oggi.
In questo senso Carrère, pensando "pro domo sua" attribuisce troppa importanza agli evangelisti, a quelli cioè che "scrissero" il Vangelo, immaginandoli come fossero scrittori di oggi, con gli stessi loro tic e metodi:
sembra una visione ingenua. Gli studiosi del cristianesimo sanno che i quattro Vangeli furono "messi per iscritto" per motivi pratici molto concreti che sono sostanzialmente due: 1. quando si capì che la fine del mondo non era imminente, come sembravano invece intendere le parole di Gesù (gli apostoli erano convinti che Lui sarebbe tornato con loro ancora in vita) 2. quando si capì che l'attesa - molto più lunga del previsto - metteva a serio rischio il racconto orale (orale perché "scrivere di Gesù" durante le persecuzioni anticristiane non era esattamente una buona idea) e quindi era opportuno scriverle, perché restassero.
Per questi motivi nella scrittura di questi testi non contò così tanto la personalità degli "scrittori" che furono più che altro i "redattori" chiamati a mettere per iscritto, quanto più fedelmente possibile, un racconto orale (di gruppo, di comunità) che si tramandava di bocca in bocca, e da padre a figlio.
Il mistero è dunque un altro.
Un mistero che non si spiega, e in cui anche Carrère, con la sua penna affilata e degna, evita di addentrarsi. Lo Spirito non è e non può essere materia di indagine, e Carrère è il primo a saperlo. A lui interessano i fatti. E siccome la storia, specialmente quella del primo cristianesimo, è fatta di molti, molti fatti lui si dedica con passione a quelli.
Per lo Spirito, bastano e avanzano le ultime cinque pagine de Il Regno: ho finito di leggerle con i brividi sulla schiena e mi sono reso conto che quasi mai, nella mia lunga vita di lettore, un libro mi ha procurato brividi sulla schiena, mentre lo leggevo.

Fabrizio Falconi - 2023

06/01/22

Libro del Giorno: "Gli scomparsi" di Daniel Mendelsohn

 



Jonathan Safran Foer, nello strillo in quarta di copertina, lo ha definito «Epico e intimo, libro meraviglioso».  

E in effetti il romanzo-saggio di Daniel Mendelsohn, ha ottenuto un meritato successo globale.  Mendelsohn, studioso di lettere classiche, critico, traduttore e docente di Letteratura al Bard College, collaboratore del «New Yorker», di «New York Review of Books» e del «New York Times», con gli scomparsi ha ottenuto il National Book Critics Circle Award 2006, il Prix Médicis 2007 e numerosi altri riconoscimenti, e dopo Un'Odissea (Einaudi 2018, finalista al Baillie Gifford Prize 2017) è autore del recente, già celebratissimo Tre anelli (Einaudi 2021). 

Ne Gli Scomparsi, il libro che lo ha portato al successo, Mendelsohn racconta, con ogni dovizia di particolari, la saga della sua famiglia di ebrei originari della vecchia Europa dell'Est e trapiantati negli Stati Uniti ai tempi delle persecuzioni naziste.

Daniel, da bambino restava seduto per ore ad ascoltare i racconti del nonno. Erano storie di un tempo lontano e quasi magico, di un piccolo villaggio della Polonia, Bolechow, in cui la vita scorreva felice. 

C’era però un punto in cui la voce del nonno si rompeva, oltre il quale non riusciva ad andare, come volesse nascondere un segreto troppo doloroso. 

Che ne era stato durante l’Olocausto del fratello Shmiel, della moglie e delle loro quattro bellissime figlie? Molti anni dopo Daniel scopre una serie di lettere disperate che il prozio Shmiel aveva indirizzato al nonno. 

Quelle lettere custodiscono frammenti del passato di una generazione perseguitata e cancellata per sempre, che in queste pagine ritorna lentamente a vivere davanti ai nostri occhi.

I particolari della vicenda che riguarda la sorte di Shmiel e della sua famiglia sono distillati con lentezza, la narrazione seguendo il ritmo della faticosa ricerca di Daniel, aiutato dai suoi fratelli, sulle tracce degli ultimi sopravvissuti testimoni di quell'epoca cancellata dalla Storia. 

Ciò che sembra stare più a cuore a Mendesohn, oltre la ricerca di quella verità familiare nascosta, comunque difficile da raggiungere in forma definitiva, è la comprensione di quel lascito dentro le dinamiche della sua famiglia di oggi, dentro le vite così diverse della contemporaneità. 

29/12/21

Libro del Giorno: "E' inutile che io parli" di Ezra Pound

 


La Rapallo cosmopolita e letteraria tra le due guerre, i rapporti con il fascismo, l’instancabile lavoro ai Cantos, gli amici scrittori e filosofi, il pensiero economico, la sua amatissima Italia, la vecchiaia, la Poesia… 

Questo volume, da poco pubblicato dall'editore De Piante è prezioso perché raccoglie le principali interviste rilasciate da Pound e apparse sulla stampa italiana dagli anni Venti agli anni Settanta del Novecento. 

Raccolte per la prima volta in volume, offrono al lettore un ritratto del tutto inedito del poeta americano, non offuscato dalle polemiche, spesso pretestuose, del Dopoguerra. 

Si scoprono così giudizi, ricordi e riflessioni fulminanti di uno dei grandi e controversi protagonisti del secolo scorso: lucido, determinato, consapevole della realtà e soprattutto intenzionato ingenuamente a migliorarla con il suo impegno dalla parte sbagliata della storia

Pound, come è noto, pagò la sua adesione ideologica al fascismo, i suoi strambi proclami lanciati dalla radio italiana, mentre i suoi connazionali americani combattevano sui fronti europei. E pagò duramente, alla fine della guerra, con la cattura, il trasferimento negli Stati Uniti, il processo durante il quale la possibile condanna a morte per tradimento fu tramutata - considerando il soggetto un malato di mente - in reclusione coatta al manicomio di Sant'Elizabeth, dove Pound rimase per 12 anni.

Tornato in Italia, nel 1958, Pound vi rimase fino alla morte avvenuta a Venezia nel 1972 all'età di 87 anni.

Il libro è interessante perché permette di ricostruire l'intero rapporto di Pound  con il nostro paese. Il poeta vi arrivò con spirito esule, disgustato dal potere americano, dopo un periodo londinese e uno parigino. In Italia trovò quella vivacità, quel fervore, quello spirito di cambiamento che cercava e finì per stabilirsi nel golfo del Tigullio, dove soggiornavano molti e grandi intellettuali stranieri, e dove presero a fargli visita giornalisti, poeti, scrittori, giornalisti italiani, attratti dal suo spirito visionario e soprattutto dalla grandezza della sua poesia, da quell'opera - I Cantos - che scrisse in gran parte in Italia e che restano un monumento della poesia di tutti i tempi.

Tra i diversi contributi anche il resoconto fedele, originale, della intervista televisiva che realizzò Pier Paolo Pasolini a casa del poeta, a Venezia. 

L'edizione è curata e ottima, a parte la scelta piuttosto incomprensibile dell'autoritratto di Van Gogh in copertina (forse motivata da una certa somiglianza tra Pound e il pittore fiammingo).

Ezra Pound 

E' inutile che io parli

Curatore: Luca Gallesi 

De Piante Editore, 2021 

Pagine: 240 p., EAN: 9791280362018

Euro: 20,00

14/12/21

Libro del Giorno: "Sedurre da dio" di Olga Cirillo

 


Non è soltanto una idea editoriale, come oggi purtroppo chiede tirannicamente il mercato editoriale editoriale: in questo libro c'è molto di più. 

Si tratta di un originale e interessantissimo saggio, scritto da Olga Cirillo, che vive e lavora a Napoli e si occupa principalmente di poesia elegiaca ed è stata cultrice della materia di Letteratura Latina all'Università Federico II, nel quale l'autrice esplora i miti classici, da Era e Afrodite e Apollo, a Giasone e Teseo, a Enea e Odisseo, a Pandora e Elena, fino a Narciso e Eros e Psiche. 

Un viaggio sorprendente attraverso il mito per scoprire quello che la psicologia analitica sa già molto bene, e cioè che le figurazioni antiche descrivono il campo delle emozioni umane - e di conseguenza delle relazioni - meglio di qualunque trattato specifico e con una chiarezza incredibilmente moderna.  Ciò è particolarmente interessante considerando la grande confusione che sembra regnare sopra le relazioni amorose umane, dove tutto sembra o sembrerebbe molto più complesso e complicato rispetto al passato. 

Non è così e il nostro è semplicemente un errore di prospettiva. Le dinamiche amorose infatti rispondono, per linee generali, ma anche nel particulare dei simbolismi, a quanto è descritto nel racconto mitologico dell'età antica.

Il viaggio attraverso la narrazione di alcuni tra i più noti miti erotici del mondo antico percorre i diversi volti della seduzione. Quando il desiderio interviene nella vita, provoca cambiamenti e conflitti, fino a che non si realizza. Nel racconto mitologico, a indurlo è sempre un’influenza divina, quella di Eros o di Afrodite, che contano su uno o più oggetti magici. In qualche caso, essi agiscono insieme, combinando le proprie strategie come complici perfetti, il che, tuttavia, non risparmia loro di soffrire delle stesse pene che riservano alle inconsapevoli vittime.

Nella interpretazione moderna, come insegnano Jung e Hillman, alle entità divine si possono sostituire, con pregnanza di senso, le figure archetipiche che sono alla base dei comportamenti e della storia umani. Figure che vivono dentro ciascuno di noi e che nomi come: "carattere", "destino", "predisposizione", "affinità", definiscono sinteticamente, in mancanza di meglio. Anche perché la natura umana - e l'eros rappresenta la natura umana alla sua massima potenzialità - si muove su basi ancestrali ancora del tutto inesplorate: chi si aspettasse di poter definire la dinamica amorosa in base a mere teorie psicologiche o psicanalitiche o peggio ancora, con motivazioni genetiche o neuronali, non ne capirebbe niente.  

Nell'amore c'è un quid potente che ci continua a sfuggire e che - per fortuna - sconvolge ogni nostro piano e ogni nostra previsione o controllo.

E' di questo quid che parlano - emozionandoci - questi miti, raccontandolo nel modo più sincero, più veritiero possibile.  E di questo quid è fatto quindi anche questo splendido libro.

Fabrizio Falconi 

Olga Cirillo
Sedurre da dio 

06/07/21

Libro del Giorno: "Quando abbiamo smesso di capire il mondo" di Benjamìn Labatut

 



Adelphi sceglie un'opera di Yves Klein del 1960 come felice copertina per un romanzo assai sui generis che è già diventato uno dei casi dell'anno, grazie al passa parola e alle positive (in alcuni casi entusiastiche) recensioni dei giornali.  

L'opera di Klein richiama il suo famoso blu e si ricollega subito alla prima parte del libro intitolata appunta Blu di Prussia che racconta le vicende dell’alchimista che all’inizio del Settecento, infierendo sulle sue cavie, crea per caso il primo colore sintetico, lo chiama «blu di Prussia» e si lascia subito alle spalle quell’incidente di percorso, rimettendosi alla ricerca dell’elisir.  La scoperta finisce molto tempo dopo nelle mani di un brillante chimico al servizio del Kaiser, Fritz Haber, quando a Ypres constata che i nemici non hanno difese contro il composto di cui ha riempito le bombole e quando intuisce che dal cianuro di idrogeno estratto dal blu di Prussia si può ottenere un pesticida portentoso, lo Zyklon, che verrà poi utilizzato dagli aguzzini nazisti per lo sterminio degli ebrei nei Lager. 

La scelta di Adelphi è felice anche nel titolo: nella difficoltà di utilizzare quello originale (Un verdor terrible) si è scelto il titolo di uno dei capitoli, il più lungo, quello riferito alla figura del genio della fisica del Novecento, Heisenberg, il quale all'epoca ventitrenne, durante la tormentosa convalescenza per una forte allergia, sull'isola sperduta nel mare del Nord, di Helgoland, intuisce e scopre che bisogna  smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento e avventurarsi verso una forma di comprensione assolutamente nuova. Per quanto terrore possa, a tratti, ispirare: è la nascita della meccanica quantistica, che ha cambiato la storia del mondo e che resta ancora oggi una teoria profondamente misteriosa anche se verificata un numero infinito di volte (basti pensare che gran parte della nostra moderna tecnologia, tra cui telefoni cellulari o internet funziona grazie ad essa), senza mai essere smentita nemmeno una volta. 

Benjamín Labatut, l'autore, è uno scrittore cileno nato a Rotterdam nel 1980. Ha trascorso la sua infanzia tra L'Aia, Buenos Aires e Lima, per poi trasferirsi a Santiago del Cile all'età di quattordici anni. E in questo paese vive attualmente in un remoto villaggio sulla Cordigliera. Il suo primo libro di racconti, La Antártica empieza aquí, ha vinto il Premio Caza de Letras nel 2009 e il Santiago Municipal Literature Award – nella sezione racconti – nel 2013. A questo libro sono seguiti Después de la luz e Quando abbiamo smesso di capire il mondo, che è stato nominato per l'International Booker Prize 2021.

Con il suo stile lucido e disturbante, Labatut costruisce un libro strano e diverso dagli altri. L'assunto è forse proprio quello di esplorare il lato demoniaco/distruttivo della scienza che si esprime nelle stesse vicende biografiche ossessivo/compulsive dei geni, che da Heisenberg a Schrodinger, sono i protagonisti del libro. 

La scelta di romanzare, cioè di inventare particolari biografici e non mano a mano che il racconto va avanti, è spiazzante per il lettore. E lo costringe ad andare ogni volta a verificare se quello che scrive Labatut è del tutto vero o no. 

Poiché l'avvertenza sulla libertà presa dall'autore nel raccontare queste storie è messa alla fine e non all'inizio del libro, qualche lettore potrà anche sentirsi coinvolto in un gioco scomodo. Forse però è proprio quello che Labatut voleva, visto che il tema centrale del libro è proprio il dubbio relativo alla esistenza di quello che noi chiamiamo "reale", sulla consistenza del quale è proprio la scienza moderna a farci dubitare. 

Cosa è vero, cosa no? Chi e cosa sono queste menti geniali che hanno scoperchiato abissi? 

La cosa certa è che grazie a Labatut si imparano molte cose su argomenti su cui abbiamo letto tanto, senza mai finire di meravigliarsi di quanto il mistero in cui siamo calati sia spaventosamente fitto e infinitamente complicato. 

La mancanza di qualsiasi parvenza di oggettività in quello che noi pensiamo/vediamo/ realizziamo, rispetto al piano di "realtà" - ammesso che esista poi, una realtà - è sconvolgente, dato che le cose nella fisica quantistica sembrano esserci, esistere soltanto se e quando qualcuno le osserva (influenzandolo fra l'altro). 

È la via che ha preferito Benjamín Labatut in questo singolarissimo e appassionante libro, ricostruendo alcune scene che hanno deciso la nascita della scienza moderna. Ma, soprattutto, offrendoci un meraviglioso intrico di racconti, e lasciando scegliere a noi quale filo tirare, e se seguirlo fino alle estreme conseguenze.

L'unica pecca per un libro così bello è la cura editoriale - assai strano per un editore come Adelphi - che scivola sul piano dei refusi e della impaginazione. Nella edizione cartacea c'è addirittura una intera riga completamente saltata a fondo pagina, più tanti altri piccoli errori piuttosto imbarazzanti. 

Benjamín Labatut 

Quando abbiamo smesso di capire il mondo 

Traduzione di Lisa Topi 

Adelphi 2021, pp. 180 

isbn: 9788845935183 

€ 18,00 

17/03/21

Libro del Giorno: "Il silenzio" di Erling Kagge

 


Mi sembra che la nostra epoca sia, più di ogni altra cosa, l'epoca della interruzione. Tutte le nostre vite sono diventate frammentate, continuamente interrotte. Mentre siamo impegnati a fare qualcosa, siamo costantemente distratti e interrotti dalle notifiche dello smartphone, di ogni tipo, dalle telefonate, dai messaggi, dalle mail della posta elettronica, dall'aggiornamento del pc, dalle chat in continua proliferazione.  

Parlare di silenzio nella nostra epoca è dunque quanto mai opportuno e in un certo senso coraggioso.

In media, secondo uno studio, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l’intrattenimento perpetuo un’abitudine

E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un’anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. 

Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta

Grazie alla sua passione di viaggiatore estremo, nei mesi trascorsi nell’Artide, al Polo Sud o in cima all’Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana

Ma che cos’è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è piú importante che mai? 

Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatre sono le possibili risposte che offre. 

Trentatre riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un’unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere piú a fondo la vita.

Cercare il silenzio. Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo. Perché il silenzio non è un vuoto inquietante ma l'ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito.


Il silenzio. Uno spazio dell'anima 

13/02/21

Libro del Giorno: "Due vite" di Emanuele Trevi

 


Un libro prezioso, di rara qualità. Emanuele Trevi ritorna con "Due vite", recentemente ristampato da Neri Pozza e già sicuro concorrente - e possibile o probabile vincitore - del premio Strega 2021. Un libro che, nello stile di Trevi, è in parte memoriale, in parte omaggio/tributo a due amici scrittori morti prematuramente, in parte saggio di critica letteraria, in parte pura narrazione (le biografie, cioè, qui diventano pura materia letteraria). 

«L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità». Così scrive Emanuele Trevi in un brano di questo libro che, all’apparenza, si presenta come il racconto di due vite, quella di Rocco Carbone e Pia Pera, scrittori prematuramente scomparsi qualche tempo fa e legati, durante la loro breve esistenza, da profonda amicizia. 

Trevi ne delinea le differenti nature: incline a infliggere colpi quella di Rocco Carbone per le Furie che lo braccavano senza tregua; incline a riceverli quella di Pia Pera, per la sua anima prensile e sensibile, così propensa alle illusioni. Ne ridisegna i tratti: la fisionomia spigolosa, i lineamenti marcati del primo; l’aspetto da incantevole signorina inglese della seconda, così seducente da non suggerire alcun rimpianto per la bellezza che le mancava. Ne mostra anche le differenti condotte: l’ossessione della semplificazione di Rocco Carbone, impigliato nel groviglio di segni generato dalle sue Furie; la timida sfrontatezza di Pia Pera che, negli anni della malattia, si muta in coraggio e pulizia interiore. 

Tuttavia, la distanza giusta, lo stile dell’unicità di questo libro non stanno nell’impossibile tentativo di restituire esistenze che gli anni trasformano in muri scrostati dal tempo e dalle intemperie. Stanno attorno a uno di quegli eventi ineffabili attorno a cui ruota la letteratura: l’amicizia

Nutrendo ossessioni diverse e inconciliabili, Rocco Carbone e Pia Pera appaiono, in queste pagine, come uniti da un legame fino all’ultimo trasparente e felice, quel legame che accade quando «Eros, quell’ozioso infame, non ci mette lo zampino». 


Emanuele Trevi

Due Vite

Neri Pozza Editore, 2020

ISBN: 978-88-545-2046-2 

 Collana: Piccola Biblioteca 

 Pagine: 144 Prezzo: €12,00

23/06/20

Libro del Giorno: "E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto" di John Berger




Dispiace che anche un editore serio come Il Saggiatore sia assai deludente quando presenta il nuovo libro di John Berger come una "intensa lettera d'amore di un grande narratore", annunciandolo così nella quarta di copertina e ripetutamente sottolineandolo nella bandella, allo scopo, immagino, di catturare più lettori. 

In realtà il libro di Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) - come altri suoi - è un testo completamente anomalo, in bilico su diversi generi letterari, saggio filosofico soprattutto, memoir, poesia, auto-fiction. I temi affrontati sono quelli filosofici esiziali, dell'esistenza

L'amore vi ha una parte del tutto minore, trascurabile e semmai funzionale soltanto nella scelta del linguaggio fortemente evocativo e poetico di Berger.

John Peter Berger del resto è stato un personaggio atipico: critico d'arte, scrittore e pittore. Il suo romanzo G. vinse il Booker Prize e il James Tait Black Memorial Prize nel 1972, ma la sua formazione è pittorica: quando nel dopoguerra si iscrisse alla Chelsea School of Art e alla Central School of Art di Londra, esponendo in diverse gallerie londinesi sul finire degli anni '40.

Mentre lavorava come insegnante di disegno (dal 1948 al 1955), Berger divenne poi un critico d'arte, pubblicando svariati saggi e recensioni. Il suo umanismo marxista e le sue convinte opinioni sull'arte moderna lo hanno reso una figura controversa sin dall'inizio della sua carriera.

E solo recentemente si è pienamente apprezzata la sua notevole produzione letteraria, difficilmente identificabile in un genere specifico.

Questo libro, pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1984, è assai prezioso: un compendio di illuminazioni, suddivise in una dimensione verticale (il tempo) e orizzontale (lo spazio).   

Ricordi di viaggi, visioni estatiche, ma anche e soprattutto riflessioni profonde sul passato e sul senso dell'esistenza che (ci) trasforma ogni cosa che viviamo, mentre la viviamo, in qualche altra cosa. 

Un Taccuino intimo intervallato da brevi testi poetici dello stesso Berger, o di altri poeti come Anna Achmatova o Evgenij Vinokurov, oltre a fulminanti incursioni nelle opere amatissime di Van Gogh,  di Vermeer o di Caravaggio.

John Berger
E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto
Edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti
Edizioni il Saggiatore, 2020
pp. 152, Euro 18.00

08/06/20

"Quando avete finito di preoccuparvi di questa epidemia, preoccupatevi della prossima" - Esce "L'albero intricato", il nuovo libro di David Quammen



"Quando avete finito di preoccuparvi di questa epidemia, preoccupatevi della prossima", ha esortato a maggio in uno dei suoi pezzi per il New York Times in modo chiaro e diretto David Quammen, di cui ora arrivano in libreria due titoli e fanno notizia

La sua infatti non e' una visione pessimista o disfattista, visto che e' l'autore di "Spillover" (Adelphi, pp.610 - 29,00 euro) e sa quel che dice se, con quel suo saggio tornato inevitabilmente al centro dell'attenzione nei mesi scorsi, metteva in guardia sin dal 2013 dall'arrivo di una pandemia che sarebbe probabilmente venuta "fuori dalla foresta pluviale o da un mercato cittadino della Cina meridionale", argomentando in modo articolato che tali virus sono l'inevitabile risposta della natura all'assalto dell'uomo agli ecosistemi e all'ambiente. 

Sono quindi da leggere questi due veri e propri saggi, ma dalla scrittura e esposizione chiara, quasi affabulatoria e per molti versi coinvolgente, visto che racconta spesso anche la storia di una scoperta e di chi l'ha fatta: il primo e' la ristampa dopo 15 anni di un suo libro di Quammen uscito in Italia nel 2005 sulla ferinita' di uomini e animali, sulla indifferenza della natura e la catena alimentare; il secondo e' la traduzione della sua ultima opera, del 2018, sull'intricato albero della vita, che fa il punto su quel che sappiamo dell'evoluzione, di Dna e genomi, dell'interrelazioni e i collegamenti filogenetici tra le varie specie e forme di vita di ogni tipo, dalle piu' evolute alle piu' elementari, a quasi due secoli dalle intuizioni che cominciarono a germogliare nella testa di Darwin nel 1837, mentre, specie in America, trovano nuovi seguaci le sette creazioniste e persino i terrapiattisti. 

 David Quammen (Cincinnati, 24 febbraio 1948) e' uno scrittore e apprezzato divulgatore scientifico statunitense che per quindici anni ha curato una rubrica intitolata 'Natural Acts' per la rivista Outside. I suoi articoli, che gli hanno valso numerosi premi, sono anche apparsi su National Geographic, Harper's, Rolling Stone, New York Times Book Review e altri periodici. 

"L'albero intricato" e' una storia della genetica moderna, per cui ci riguarda molto da vicino, e' affascinante, e' un susseguirsi di ipotesi e verifiche e smentite e scoperte improvvise o intuizioni geniali, oltre che di ricerca e esperimenti in laboratorio e in questa ricostruzione ha al centro un momento di svolta particolare con anche una data, il 1928, dovuto a un ricercatore inglese, Fred Griffith, che riconobbe per la prima volta come possibile il trasferimento genetico orizzontale, senza nemmeno rendersi ancora conto di cio' che questo avrebbe implicato. E' allora che l'albero della vita disegnato da Darwin col suo trasferimento di geni in linea verticale, di discendenza, si e' dimostrato assai piu' ingarbugliato e complesso della stilizzazione appunto di un albero.

La scoperta che i geni si spostano anche in senso orizzontale, lateralmente, potendo attraversare cosi' i confini di specie o passare da un regno naturale a un altro, che e' poi quello che e' accaduto col molti virus e con lo stesso Covid. accanto,o meglio assieme a questo discorso se ne sviluppa un'altro che non puo' non farci pensare, sul concetto di specie e di individuo come li intendiamo tradizionalmente

Noi siamo un mosaico di forme di vita, "Siamo una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia". L'otto per cento di un genoma umano consiste infatti di residui di retrovirus che hanno invaso il Dna dei nostri antenati, "l'equivalente genetico di una trasfusione di sangue", e tra i donatori ci sono organismi primordiali che dominavano la vita miliardi di anni fa e ora 'abitano' in ciascuno di noi. 

"Alla ricerca del predatore alfa" parla del contesto in cui si e' evoluto l'Homo sapiens ed e' sorto il nostro senso di identita' in un ambiente popolato di terribili belve carnivore. 

Tutte le volte che un feroce carnivoro usciva da una selva o da un fiume per cibarsi rendeva evidente una realta' che si cercava di dimenticare ma non si poteva eludere, rinnovando trauma e orrore: una delle prime forme dell'autoconsapevolezza umana, sottolinea Quammen, fu proprio la percezione di essere pura e semplice carne. 




09/05/20

Goffredo Parise e Roma: un rapporto, un sentimento, un racconto - Da "Le Rovine e l'Ombra" di Fabrizio Falconi



Goffredo Parise era giunto a Roma i primi giorni di marzo del 1960. All’amico Comisso una settimana prima aveva scritto: Tra una settimana parto per Roma dove resterò quasi stabilmente data l’impossibilità per me di stare ancora a Milano. Le ragioni sono molte (…) Mi annoio atrocemente, e non della dolce noia del Veneto (…) ma di una noia acre e inutile, impiegatizia e tramviaria, da grandi magazzini asettici. Insomma mi sento come un aquilone sotto la pioggia (…) basta con questo libeccio che soffoca i voli. (23)

E’ la noia la grande nemica che già pedina questo trentenne inquieto, venuto dalla provincia veneta. Eppure Milano è la città che ha regalato a lui, figlio di una ragazza madre,  amicizie importanti, un lavoro di prestigio (lavora alla Garzanti) e il grandissimo successo a soli 25 anni con Il prete bello.

Parise però ha bisogno di altro. E sembra trovarlo: nel Corriere della Sera, in un articolo del ’72 ricorda: Quando a trent’anni sono sceso a Roma, è stata la liberazione. Ho incontrato l’Italia.  E a Comisso scrive: Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la mia fantasia… Vivo insomma intensamente ancora i giovani anni che mi restano, nel modo che mi è congeniale, nell’estro e nel disordine dell’avidità, nel sogno e nell’avventura…

In effetti a Roma Parise trova una ben calda accoglienza: Montale, Piovene, Moravia diventano amici, nel 1964 va a vivere in Via della Camilluccia, vicino di casa a Gadda, comincia a scrivere per il cinema e firma sceneggiature per Bolognini, Fellini, Tonino Cervi.  Conosce anche Marco Ferreri, e si innamora artisticamente del suo folle genio creativo. Scrive per lui il copione de L’ape regina, uno dei più censurati e controversi della filmografia di Ferreri.

Finché l’irrequietezza non lo ferma, spingendolo a mettersi in viaggio per i famosi reportage da mezzo mondo, è Roma la casa di Parise. Prima di far ritorno nel Veneto, dove compra una casa a Salgareda, un piccolo borgo sul Piave, nei primi anni ’70.

Roma resta comunque per lo scrittore Parise, sempre un punto di riferimento. Il punto di ritorno dai suoi viaggi, l’approdo solare e d’ombra, il luogo della eterna fantasia, del sogno che si rinnova.

E quando tra il 1971 e il 1981 pubblica i suoi Sillabari, Parise scrive un racconto proprio su Roma, uno degli ultimi, lasciando incompiuta la sua opera, com’è noto, alla lettera S.

Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z, scrive nella celebre Avvertenza al testo del gennaio 1982, Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore. (24)

La prima cosa che scopriamo allora è che per Parise Roma è un sentimento. Come Amicizia, Dolcezza, Fame, Ozio, Povertà o Simpatia, che sono altri titoli del Sillabario.

Il racconto – uno dei più misteriosi del libro – inizia in modo bruciante con un viaggiatore, un uomo che si sentiva straniero senza però esserlo, che una domenica d’inverno, al crepuscolo, arriva con un rapido, dal nord, alla stazione di Roma. (25)

Già dai finestrini la città gli appare col suo inconfondibile aspetto, le enormi case innestate sui colli rognosi di rifiuti e untume e le pietre dell’Arco di Porta Maggiore da cui sorgono ciuffi d’erba e alberelli.
Il viaggiatore, appena sceso dal treno, riconosce anzi, sente, la mortale presenza dei secoli e della storia, come sempre quando arriva.

La città delle rovine dunque lo accoglie con un canto di morte. Il cielo però, color violetta e la luce limpida della tramontana, colorano subito la scena di presenze vive: donne africane vestite di bianco, soldati, uomini delle più diverse razze che si muovono nel crepuscolo, il colore delle cose che varia sempre più verso l’ombra.

L’uomo sale su un taxi ed attraversa la città stranamente deserta, senza traffico, come non l’aveva vista mai.
Giunto a casa, entra e lascia la borsa ma subito esce di nuovo spinto dalla luce. Prende a passeggiare sul lungotevere, viene avvicinato da un giovane africano – con occhi dalla cornea bianchissima -  che vuole vendergli una coperta. Ed è curiosa questa Roma che sembra già popolata solo di stranieri, di africani in particolare. Molto tempo prima del dovuto, Parise già è così che la vede.  

L’uomo prosegue a piedi fino al Circo Massimo, mentre non pare sera a causa della luce.  E’ un crepuscolo di quelli che regala a Roma, che sembra non trascolorare mai definitivamente nell’ombra, che permane a lungo in una condizione di incertezza sospesa, tra ombra e luce.

Al Circo Massimo, l’uomo si imbatte in un travestito – anche questo di colore – che con una parrucca bionda in testa sbuca fuori da un cespuglio muovendosi con gesti di danza e aprendo e chiudendo la grande bocca rossa.

Giunto alla Passeggiata Archeologica e poi alle Terme di Caracalla il viaggiatore si sente in uno stato d’animo molto strano, sentendosi ancora più straniero di quanto lo fosse in modo leggero e trepidante, camminando molto piano, attratto dal terreno intorno ai muri e alle rovine. Si sente anche dentro una specie di narcosi, mentre la luce viola è ancora nel cielo e spunta una prima stella al di là delle mura romane.

Prende a rovistare tra i ciuffi di erba polverosa, i kleenex, i rifiuti, le bottiglie di birra, dai quali affiorano frammenti di pietra bianchissima, quasi porosa, certamente molto antica.

Ed è qui che accade qualcosa di veramente inaspettato e terribile.

Il racconto, che era proseguito fin qui in una sorta di allucinato resoconto di quieta e inquieta contemplazione, prende una piega completamente diversa: il viaggiatore si ritrova all’imboccatura di un anfratto, proprio tra quelle antiche mura.  Sulle prime pensa alla nicchia di guardia delle Terme. E pronuncia tra sé il nome tepidarium ricavandone un senso di totale rilassatezza. Ma ecco che dopo essersi acceso una sigaretta, scorge una figura muoversi nella luce viola. E’ una donna molto grassa e anziana, accucciata e con le calze arrotolate. Vicino a lei c’è un giovane etiope, alto con gran capelli crespi, molto simile al venditore di coperte incontrato poco prima sul Lungotevere.

E prima che l’uomo se ne renda conto, ancora avvolto dalla passività della luce viola nel cielo notturno, viene colpito da un fendente di coltello, sferrato dall’etiope. Arrivano altri colpi, nel ventre, nel petto, nel collo e l’uomo quasi senza sentire dolore, zampilla sangue a fiotti abbondanti e regolari come in chiaro ma anche oscuro accordo con il cuore.

E’ la frase con cui si chiude il racconto, e anch’essa sembra tagliente come una rasoiata. 

L’assurdità della scena e di questa fine – cosa facevano i due nell’oscurità ? La donna con l’aria da portinaia romana e l’etiope ? Un rapporto sessuale ? O un qualche diverso affare ?  E perché l’etiope reagisce con tale violenza ? Per un semplice furto ? O perché l’uomo ha involontariamente scoperto – o sta per scoprire – un segreto ? – è come un nero sipario che cala apparentemente senza scopo, senza alcuna finalità.

Eppure anche questa fine ha qualcosa di catartico. L’uomo muore quasi senza sentire dolore, il suo essere sembra come  ingoiato dentro il teatro di quella città notturna, dalla luce viola, dalle sue rovine. E nel ventre di una rovina egli trova la fine, quella fine che forse è cercata, forse è auspicata, sembrando quasi una liberazione: l’abbandono all’effimero destino, alla sua apparente insensatezza.

Ma la chiave (anche) di questa morte è nella sua innocenza. 

Una parola decisiva per Parise, che in quegli anni scrisse a proposito di com’era sorta in lui l’idea di scrivere i Sillabari: Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo:l’erba è verde. 
Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel "l’erba è verde", l’essenzialità della vita e anche della poesia...
Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. 
Ecco la ragione intima del sillabario. (26)

Roma è dunque un sentimento, le rovine sono sentimento e anche la morte è sentimento. Quella morte interiore che Parise ha attraversato così tante volte nel corso della vita, rinascendo ogni volta dalle proprie rovine. 

Le guerre che visitò come inviato, i posti più strani del mondo che incontrò, non modificarono niente in lui, al punto di invidiare chi era rimasto, a scrivere, fermo nella sua stanza.

Nel suo eremo di Ponte di Piave, dove si rinchiude per vivere gli ultimi anni della sua vita, Parise trova forse un senso alla sua eterna inquietudine.  Non ci sono più rovine intorno. Ma solo la melodia della natura, dei ruscelli e delle campane.

E in lui si incarna forse quella morte vagheggiata nel racconto scritto per i Sillabari.  Una morte soltanto fisica, che è compimento di quanto fatto, e punto interrogativo per un altrove sconosciuto.  Nel racconto Famiglia, nei Sillabari, aveva scritto quello che è sembrato il suo perfetto epitaffio:
...godette per un po' le "gioie della vita", incontrò, vide e amò molti occhi, pelli, le calme e le intelligenze pratiche di altre famiglie, poi cessò di godere le "gioie della vita" e di lui non si ebbero più notizie se non per sentito dire.

23. Questa citazione e quelle che seguono sono rese pubbliche dalla Casa di Cultura Goffredo Parise, Ponte di Piave (TV).

24. Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi, Milano 2004.
25. Tutte le citazioni sono tratte dal racconto Roma, in G. Parise, Sillabari, Op.cit. pag. 327 e ss.
26. da Il Gazzettino, 31 ottobre 1972, in F. Sala, “Il Sillabario dei sentimenti”
27. Famiglia, in Sillabari, op. cit. p. 137.


Tratto da Fabrizio Falconi, Le rovine e l'ombra, Castelvecchi, Roma, 2017

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26/02/20

Libro del Giorno: "Sopruso: Istruzioni per l'uso" di Valerio Magrelli




Un pamphlet, un j'accuse, un ironicissimo ma tremendamente reale cahier de doléance.

E' questo l'ultimo libro di Valerio Magrelli: poco più di 100 pagine che si leggono in un soffio, ma che fanno arrabbiare, indignare anche ridere molto. 

Il poeta si libera del principale dei suoi incubi: quello di avere a che fare, in Italia e maggiormente a Roma - la città in cui è nato e abita - con i cosiddetti alterprivi: persone che vivono ignorando completamente la presenza dell'altro, anzi, non calcolandola proprio, assumendo atteggiamenti di brutale noncuranza, di prevaricazione, sopraffazione, umiliazione.

Non si tratta soltanto dei risaputi orrori della burocrazia e dell'autorità costituita (per quanto può esserlo in Italia), ma di qualcos'altro: di atteggiamenti diffusi capillarmente in quello che è chiamato prossimo: nel veloce e tagliente librino Magrelli ne passa in rassegna una schiera: il saltafila alla posta, il medico che umilia il paziente, gli autisti infestanti con le loro sirene antifurto, la musica sparata ad alto volume nei parchi e nei bar, i vivavoce dei cellulari aizzati a tutta birra nei vagoni dei frecciarossa, i padroni di cani lasciati ad abbaiare per otto ore di seguito sui balconi condominiali, addirittura le bande di Hare Krishna che arrivano ad occupare militarmente un appartamento dello stabile dove Magrelli vive, con i loro ritornelli mistici cantati a tutto volume dalle finestre aperte dalla mattina alla sera e perfino l'apertura di un ristorantino adeguato ai gusti della setta, al piano terra, con effluvi e mondezza che si disperdono in ogni dove. 

Magrelli autoproclama nel libello la sua parzialità, la sua propensione "genetica" alla reazione al sopruso e lo fa con un fulminante breve saggio finale dedicato alla roscitudine, cioè alla condizione di essere rosso di capelli - e quindi discriminato e soggetto naturale di soprusi - che appartiene sin da bambino al poeta romano. 

Proprio questa propensione è però forse la molla che agita in Magrelli la spinta ad una ribellione che - come nell'episodio degli Hare Krishna nel quale un unico abitante esasperato innesca la protesta dell'intero quartiere contro gli "infestatori" arancioni - egli spera si propaghi, trovi coscienza nelle persone, porti ad una riappropriazione degli spazi di libertà personali, così miserabilmente travolti dal vivere sguaiato e prepotente che abita le nostre città. 

Fabrizio Falconi