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01/11/21

L'uomo è una creatura assurda - Dostoevskij





L'uomo è creatura avventata ed assurda, e forse a lui come al giocatore di scacchi interessa soltanto il processo di raggiungimento dello scopo, non già lo scopo stesso. 

E chissà forse lo scopo a cui tende l'umanità consiste unicamente nel mantenere ininterrotto questo processo di raggiungimento, in altre parole è la vita medesima, e non propriamente la meta da raggiungere. 

La quale meta non può essere altro che il due più due quattro, ossia una formula, ma questo due più due quattro non è più la vita, signori, bensì, il principio della morte.

L'uomo ha sempre avuto paura di questo due più due quattro. Poniamo anche che l'uomo non faccia altro che cercare questo due più due quattro, e solchi gli oceani e sacrifichi la vita in tale ricerca, ma trovarlo poi di fatto, vero Iddio, ne ha paura.

E invero sente che quando lo avesse trovato non gli rimarrebbe più nulla da cercare.
Si rivela in lui, ogni volta che raggiunge uno scopo, come un senso di disagio.
Darsi da fare per raggiungere uno scopo gli piace, sì, ma raggiungerlo poi per nulla e questo è, s'intende, un fatto terribilmente comico.

E' noto che molti amatori del genere umano, prima o poi verso la fine della loro vita mutarono registro, facendosi protagonisti di qualche storia, dite pure, talvolta delle più scandalose.

Rovesciate su un uomo, rovesciategli anche addosso tutti i beni terreni, immergetelo fino ai capelli nella felicità, tanto che alla superficie della felicità, come da un'acqua, non affiorino che bolle d'aria; dategli anche tale prosperità economica che non gli resti nient'altro da fare se non dormire, mangiar pampepato e provvedere a che la storia universale non abbia a finire lì;

E anche allora lui, l'uomo, anche allora, per mera sconoscenza, per mera monellaggine, farà qualche porcheria. Rischierà perfino il pampepato e a bella posta desidererà la più rovinosa sciocchezza, l'assurdità più antieconomica, unicamente per mescolare a tanta positiva saggezza il proprio pernicioso elemento fantastico.
Vorrà tenersi le sue fantasticherie e la sua indegna stupidaggine appunto e unicamente per dimostrare a se stesso che gli uomini son sempre uomini.

Fedor Dostoevskij - Ricordi dal Sottosuolo - circa 1864.

10/02/15

Saul Bellow: "Il mio lavoro è essere me stesso."



"Ho delle risposte e ho anche delle domande, e con questo voglio dire che ho smesso da un po' di cercare qualcosa di definitivo.  Ho l'impressione di credere in cose in cui non ho mai pensato di credere, e che agiscono che io voglia o no. Quindi non si tratta di rifletterci sopra, ma di imparare a conviverci. 


E bisogna accettare il fatto che stai cercando di convivere con le preferenze o con le decisioni segrete di cui un modo o nell'altro non sei mai riuscito a liberarti. E non te ne libererai mai. Adesso lo sai. Per esempio, ho smesso di tormentarmi riguardo alla fede in Dio. Non è una domanda vera.


La domanda vera è: "Come mi sono sentito in tutti questi anni?" e "In questi anni ho creduto in Dio?" tutto qui. Cosa ci puoi fare ? Non si tratta dunque di liberare l'intelletto dai vincoli, si tratta innanzitutto di cercare di decidere se la fede sia un vincolo e poi accettare ciò in cui si crede, perché per ora è ciò che possiamo fare." 

Allora torniamo alla scrittura, la tua immagine...

"Il mio lavoro è essere me stesso. E nell'essere me stesso divento un fenomenologo elementare, o fondamentale.   
Ed è così che faccio tornare i conti, prima di andarmene.  Mi chiedi cosa significa essere un artista. Prima di tutto vedi ciò che non hai mai visto prima; hai aperto gli occhi e c'era il mondo; il mondo era un posto molto strano; ne hai ricavato la tua versione, non quella di qualcun altro; e sei rimasto fedele alla tua versione e a quello che hai visto.  Credo che, in senso personale, sia questa la radice del mio essere scrittore. E tu sai perfettamente di cosa sto parlando."

Cosa pensi del mondo?

"Be' posso dire senza alcun problema che non credo che il mondo si sia sviluppato o evoluto in maniera casuale e non diretto da una intelligenza superiore.
Non può essere stato casuale.  Una volta ho avuto una discussione con un famoso biologo che sosteneva: " Se c'è abbastanza tempo può accadere in base a un processo casuale, e visto che sono passati miliardi e miliardi di anni, il tempo c'è stato."  Io ho risposto: "Sufficiente a spiegare l'equilibrio ormonale nel corpo di una donna incinta ? Aleatorio ? Io non credo."  Non credo che sia andata così, questo è il mio scetticismo naturale, diretto contro la scienza, non contro la religione.

Ci fu una famosa controversia, forse un litigio tra Einstein e Bohr. Bohr aveva una visione diversa - sul grande gioco della natura, sul fatto che sia casuale - ed Einstein gli disse: "Senti, io non credo. Sono d'accordo che Dio giochi, e quel gioco non lo capiamo, ma sappiamo comunque che si tratta di un gioco."

"Sì adesso me lo ricordo. Non dico che le conclusioni cui sono giunte siano quelle corrette.  Quello che dico è che è arrivato il momento di fingere che io non ci creda.  In un certo senso ci credo. Uso la conoscenza che ho accumulato in ottantacinque anni. Lo applico a queste domande e mi dico: come può tutto questo essere il risultato di miliardi di episodi casuali ? E' impossibile."



Tratto da Saul Bellow, "Prima di andarsene", Una conversazione con Norman Manea, Il Saggiatore, 2013. 




29/08/14

"Costruire una cattedrale", il senso della vita (Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman).




Il 30 luglio del 2007, sette anni fa, morirono proprio nello stesso giorno, per uno scherzo del caso, due dei più grandi cineasti del Novecento: Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman. 

In quei giorni i giornali si riempirono di commenti, vecchie interviste, dotti interventi critici. Molti si chiedevano: cosa questi due uomini, questi due indagatori, avevano capito più di noi del mistero della vita?

Si erano avvicinati, attraverso la loro arte, a una qualche verità definita ? Avevano percepito una maggiore chiarezza intorno alla tragica bellezza della vita ?

Io, che per anni - come molti - mi ero nutrito dei film di entrambi (specie di quelli di Bergman, che mi hanno accompagnato in ogni stagione della mia vita), sono rimasto colpito dalle parole del maestro svedese rilasciate tanto tempo fa a un giornalista, nella hall di un albergo, riesumate da un quotidiano nei giorni dopo la sua morte: 

Se mi chiede il fine generale dei miei film, rispondo che vorrei essere stato uno degli artisti che hanno creato la cattedrale di Chartres. Ma alludo, con questa idea, sopratttutto a una cattedrale che rappresenta per me la vita culturale, l'attività artistica. Ebbene io penso che ogni artista, soprattutto europeo, debba portare la sua piccola pietra per la costruzione della cattedrale. Si tratta solo di una piccola pietra, ma è molto importante. E' il nostro dovere, il nostro unico modo di vivere, di esistere, perfino di respirare. Costruire la cattedrale significa combattere contro le ipocrisie, contro le ingiustizie, contro le guerre, contro l'oppressione, contro la menzogna. E' una lotta difficile perchè se è vero che c'è chi vuole costruire, c'è anche chi vuole distruggere. E questa gente che vuole distruggere è tanta, ed è tenace. E' così facile distruggere, ed è così difficile creare.... Ma anche se la cattedrale una volta costruita, può essere demolita e non esistere più, noi dobbiamo edificarla. Solo così saremo migliori.

Ho meditato a lungo su queste parole. 

In fondo davvero la nostra vita, quella di tutti, non solo degli artisti non è altro che questo: costruzione. E costruire vuol dire evidentemente entrare in un disegno di armonia, in una ricerca di bellezza, di forme, di struttura, di senso. Costruire non si può, senza saper chiedere, perché nessuno di noi sa costruire qualcosa completamente da solo. 

Così è stato per Ingmar e Michelangelo che hanno fatto in virtù dei loro talenti, ma hanno fatto grazie al talento grande, normale e minimo di chi ha lavorato ogni giorno, insieme a loro. 

Detto molto semplicemente, è questo forse il senso ultimo della vita. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


04/10/13

La vita armonica. (perché debbo vivere armonicamente ?)






Perché bisognerebbe vivere armonicamente ?  Anche ammesso che ciascuno sappia cosa significhi questo - cosa significhi scegliere tra una vita armonica, dove le cose e i gesti e i pensieri seguano il ritmo coerente di un ordine intrinseco,  e una vita caotica, dove ci si limiti a vivere come un legno alla deriva, sospinto dagli umori del vento - perché bisognerebbe scegliere la prima opzione ?

L'obiezione mossa da alcuni (dai tempi di Schopenhauer e prima ancora, e sempre più spesso) è: perché si dovrebbe scegliere l'uno - cercare faticosamente di vivere in armonia - invece dell'altro, abbandonarsi alla inerzia delle cose, visto che il fine della vita è lo stesso, ovvero la morte e la dispersione di tutto?

La risposta, molto banalmente, è nel dover essere.

E' così che è. Perché l'universo si è formato e sviluppato, secondo un ordine perfetto, invece di non nascere e di sbrindellarsi in un immane caos ?  Perché la vita ha ordinato il suo filo nel corso di miliardi di anni, per raggiungere uno scopo obbedendo ad un ordine inaudito di sequenze, anziché non nascere e rimanere poltiglia, cosa inespressa ?

Il dover essere del mondo è il suo essere.

Il dover essere è una legge (per quanto misteriosa) del mondo.

Noi siamo mondo.

E a quanto pare, nessuno può esimerci dal desiderio di una ricerca di vita armonica, perché - a quanto pare - l'armonia nasce solo da un'ordine (o al massimo da un armonico disordine).


Fabrizio Falconi


27/03/13

Costantin Kavafis. 'Quando ti metterai in viaggio per Itaca'.






Ho visitato Itaca, anni fa. Ed è molto diversa da come la immaginavo. Vista da Cefalonia, all'alba, è quasi un miraggio. Quando ci arrivi ti colpisce la sua nuda semplicità. Il mistero che hai rimasticato in tanti anni di letture. 
Questi versi di Kavafis, immortali, ci parlano sempre di lei, di questo luogo profetico della nostra anima. 



Quando ti metterai in viaggio per Itaca,
devi augurarti che la strada sia lunga.

Soprattutto non affrettare il viaggio;
fa' che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco,
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.


Costantin Kavafis, da Itaca, (trad. F.M.Pontani, 1961)

12/10/12

Tornare ad essere come i bambini: il motivo per cui si vive.




Il motivo per cui si vive non è una crescita uni-direzionale. 

La vita umana è un ciclo - come avevano capito tutti i grandi popoli del passato - somiglia certamente più ad un cerchio che a una linea retta: il ritorno delle stesse cose, trasformate, è lo scopo del vivere.

Se a un essere umano è dato di vivere a lungo, è certo che egli - sul finire dei suoi giorni - si sarà trasformato in una sorta di se stesso bambino:  riemergeranno le stesse caratteristiche di quando si è stati bambini. Si sarà deboli, dipendenti dagli altri, meno disposti ad affermare se stessi e più disposti ad ascoltare e - se si è vissuto pienamente, elaborando il conto dei propri giorni passati senza abbandonarsi al rancore, all'odio e a tutti gli altri sentimenti negativi - meno cinici, di nuovo ingenui (e innocenti) come lo sono i bambini.

Questo senso dell'esistenza è inscritto in molte tradizioni, in molta antropologia, e incardinata nelle stesse parole, più che eloquenti, pronunciate dal fondatore del Cristianesimo riportate nei Vangeli, il quale così formula l'unica ricetta per guadagnarsi il regno: In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.

E' significativo che Cristo dica: non sarete come i bambini, ma diventerete come i bambini.

Bisogna dunque diventare come i bambini.  E' questo lo scopo della vita.

Non si tratta di essere bambini per tutta la vita, come invece oggi tutto sembra incline ad incoraggiare: una vita di solo divertimento, di sola de-responsabilità, di solo gioco.   No, non è questo.  Il puer aeternus a nulla serve, se non a se stesso.  E non sembra essere questo lo scopo per cui si è venuti al mondo.

Diventare come i bambini, tornare ad essere come eravamo è un compito, anche molto faticoso.   Riscoprire volta a volta lo stupore e lo sguardo nostro primigenio (e innato) sembra molto spesso un'opera impossibile. Innumerevoli sono gli ostacoli che ciascuno di noi incontra nel cammino. Amiamo ribadire, ridirci che tutto basta, che ogni risposta è alla portata del mio essere adulto, che il cammino scritto è una linea retta (che non si sa dove porta, probabilmente da nessuna parte).

E basta scorrere le notizie quotidiane per capire cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo alla nostra parte bambina, ai nostri bambini che sembrano certe volte non avere più diritto di cittadinanza in questo mondo, soffocati dalle esigenze e dalle volontà di chi "ne sa più di loro".

Eppure ogni cosa su questa terra ci insegna che la fine torna all'inizio.

E che senza comporre questo cerchio perfetto, nessuna esistenza, nessuna vita trova o può trovare il suo significato. 

Fabrizio Falconi

05/05/12

Raimon Panikkar e il senso della vita.


Pensare di poter sistemare e risolvere tutto è un errore. Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere soppresse e che noi ci siamo dentro; che si deve fare il possibile, senza lasciarsi dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; sapere che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita. Devo rendermi conto che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, rimandando ad un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovare questo senso in ogni istante.

Raimon Panikkar (Barcellona 3.11.1918 - Tavertet 26.8.2010)

07/03/12

L'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento.



Mi ha molto colpito leggere oggi una frase del grande drammaturgo (è un po' riduttivo definirlo così)  Bob Wilson, intervistato dal Corriere, a proposito della nuova messa in scena del capolavoro Einstein On The Beach, su musiche di Philip Glass, presentato per la prima volta - con accoglienza stupefatta per la grande carica innovativa di quello spettacolo - ad Avignone esattamente 30 anni fa. 

'L'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento'. 

E' una frase breve ed essenziale nella sua nuda verità - che ciascuno di noi può sperimentare come vera - se soltanto si ferma a riflettere sulla vita, un istante.  E paradossalmente, proprio ciò che dà continuità alla vita, che è sempre costante nella vita, è il suo divenire continuo, il suo non essere mai la stessa cosa

Mi sono tornate in mente le parole di J.Krishnamurti che ha fatto di questo tema una costante del suo pensiero (e della sua vita). 

Credo infatti che proprio da questa 'impermeabilità' al cambiamento (ma anche all'idea stessa di cambiamento) personale, a questo pensare e pensarsi granitico derivino molti dei nostri mali e dei nostri disagi come individui e come collettività.

Allora sia cio che è,  dice Krishnamurti, rispondendo ad una domanda di un visitatore, Quando ne comprende la falsità, l'ideale scompare. Lei è "ciò che é".    Il "ciò che è" è lei stesso: non in un periodo particolare o in un dato stato d'animo, ma come lei è di momento in momento.  Non si condanni o si rassegni a quel che vede, ma sia attento, senza interpretare il movimento di "ciò che è".  Sarà difficile, ma in ciò c'é gioia. La felicità c'è solo per chi è libero, e la libertà giunge con la verità di "ciò che è". 





10/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 9. SEMPLICITA'


Dovrò essere consapevole che nessun senso può essere trovato nel caos, a meno che io non elegga il caos a senso.

Chi lo ha fatto, però, ha procurato quasi sempre a se stesso e alla comunità nella quale vive, disastri. 

Per capire cosa la vita pretende da me, dovrò sempre ricordarmi di cosa ero io, quando sono venuto al mondo: un essere vivente, prodotto di una vita biologia estremamente complessa (ma del tutto ORGANIZZATA - senza organizzazione e ordine, nessuna vita biologica è possibile) bisognosa però di molto poco: attenzione e cura, amore, nutrimento, serenità, possibilità di evoluzione.

Non potrò dunque mai trovare senso alla mia vita, riempiendola a dismisura di cose perlopiù inutili. Non potrò mai pensare di individuare un 'ordine' se io per primo concederò alla mia vita di essere del tutto caotica, stipata fino all'inverosimile di  cose inutili.

Sarò e sono consapevole che questo oggi è sempre più difficile. Sarò e sono consapevole che riempire la propria vita a dismisura, proclamare incessantemente che "non si ha tempo", che "non si ha tempo per nulla e quindi a maggior ragione anche per farsi domande su se stessi e sulla vita" è la più diffusa forma di auto-difesa contemporanea. 

Si ha paura del vuoto, di quello che si presume a-priori di essere un vuoto - la mancanza di senso - e  si colma  la vita di stupidaggini, dettagli e diversivi fino all'inverosimile nella speranza che non si abbia il tempo e il modo di interrogarsi mai, e dunque di spaventarsi di fronte a quel vuoto. Ci si illude di protrarre questo sentimento fino all'estremo limite della morte, e di morire quindi inconsapevoli di tutto, ma "senza soffrire", come bambini spaventati.

Questa vita non fa per me.

Mi ricorderò sempre che soltanto fermandomi, interrompendo il flusso ininterrotto delle cose complicate (non complesse) che tutti e tutto mi impongono, io potrò scoprire qualcosa. Dovrò fare quindi spazio nella mia vita, pur nelle incombenze di tutti i giorni, lasciare sempre questo spazio vitale, essenziale.

Solo dal silenzio e dalla quiete sorgono le vere domande. E solo nel silenzio e nella quiete è possibile ascoltare qualcosa. Ascoltare quella voce - flebile o forte - che la potenza della vita riversa (riverserebbe) dentro ognuno di noi.

Come lasciò scritto il profeta: Non sarete confusi per sempre.

Fabrizio Falconi

in testa: immagine da Monika e il desiderio di Ingmar Bergman 

06/09/11

Le vite concitate, il caos, e il senso che non si trova.



Si avvicina la ricorrenza del decennale dell'11 settembre, l'attentato alle Torri Gemelle di New York.  Su La Stampa mi è capitato di leggere l'intervista ad Edward Fine, il celebre sopravvissuto che fu immortalato con la sua valigetta 24 ore negli attimi successivi alla tragedia, diventando di essa un simbolo.

Mi ha colpito questa sua frase: "Prima lavoravo anche quando ero in vacanza, telefonate, computer e non sapevo neanche chi fosse mia moglie. Ora conosco e apprezzo le cose della mia vita che contano."


Questa frase ha ronzato nelle mie orecchie per alcuni giorni, sommandosi a quest'altra, che il grande Woody Allen - sempre più avvitato in una specie di ostentato nichilismo personale - ha rilasciato a 'La Repubblica':

"continuo a girare film in modo forsennato perché se lavoro e sto sul set, non ho tempo di fermarmi. Se mi fermassi mi deprimerei constatando che la vita non ha alcun senso."

E' il problema di molti, oggi.

Molte persone sembrano convinte che il senso della vita non esista, ma non fanno nulla per fermarsi a riflettere.  Temendo, anzi,  che la riflessione corrisponda a un vuoto, ed essendo del tutto terrorizzati da quel vuoto, non fanno altro che rimpinzare la vita di quante più cose possibili, per la maggior parte del tutto inutili.

Sono convinte, più o meno inconsciamente, che questo rappresenti una formidabile protezione da quel vuoto che attira e terrorizza, per l'appunto.

Il problema però è che, dentro esistenze così stipate, così enormemente sovradimensionate,  si pretende di trovare un 'senso' a questa vita.

E' ovvio che nessun senso si può trovare.

Anche perché con esistenze sempre più caotiche, e sempre meno ordinate (nel flusso di cose semplici) è molto molto difficile percepire un senso, a meno che - come sembra oggi diventata 'vulgata' comune - non si teorizzi che il caos stesso, cioè il disordine E' il senso.

Ma l'uomo, che è principalmente - e resta sempre tale - materiale biologico enormemente organizzato, quindi ordinato (ché altrimenti nessuna vita biologica potrebbe esistere)  non può trovare nessun senso nel caos e nel disordine assoluto. 

E' perfino troppo ovvio che il senso - un senso o IL senso - può essere trovato solo se e quando siamo capaci di fermarci, e di creare un vuoto e di abitare quel vuoto, senza lasciarsene spaventare, ascoltarlo, lasciarlo crescere dentro di noi, e sentire se e come ci parla, se e come ha qualcosa da dirci.

Non è un caso che Edward Fine abbia capito soltanto ora quali sono le cose da conoscere e apprezzare nella vita. Solo ora, quando la giostra si è fermata, indipendentemente dalla sua volontà.

Il problema è proprio questo: che spesso ci fermiamo soltanto quando non possiamo farne a meno, per una crisi improvvisa, per una empasse della nostra vita, un lutto, una crisi, la perdita del lavoro.   Soltanto allora siamo costretti a mettere ordine. A comprendere che la vita è - sarebbe - del tutto semplice, e ha - avrebbe - bisogno di molto poco.

La prima cosa da fare dunque è quella di smetterla di dire "ho troppo da fare per farmi domande."  Dovremmo tutti comprendere che le domande - e solo le domande - danno senso all'esistenza.  E che senza mai porsi domande si possono soltanto compiere disastri, nelle proprie vite individuali e in quella collettiva, come la storia dovrebbe averci abbondantemente insegnato.


Fabrizio Falconi

nella foto in testa: Woody Allen alle prese con la pennichella durante le riprese del suo film romano, agosto 2011. 

08/07/10

Non voglio sprecare niente del tempo che resta.



Che cosa facciamo del nostro tempo ?
E’ deprimente constatare lo scialo che spesso riusciamo a farne.
Sembra, anzi, che l’alibi del nostro tempo sia questa frase: “non ho tempo.”

“Non ho tempo” ci permette di restare inchiodati, al punto che ci conviene. “Non ho tempo” ci permette di non metterci mai in discussione, in gioco veramente.

Facciamo mille cose, la gran parte inutili.

Siamo impegnati, ci dedichiamo anima e corpo a lavori inutili, a servire gente inutile, a fare turni inutili, a partecipare a riunioni inutili, a studiare organigrammi inutili, strategie inutili, pianificazioni inutili. Siamo impegnati a fare più soldi inutili che spenderemo per cose inutili.

Perciò “non ho tempo” per vedere un amico, per leggergli negli occhi, per fare con lui una bella conversazione, per vedere le nuvole passare, per ascoltare il rumore del vento, per godere la pioggia, per sentire cosa ho dentro, per capire cosa è questo vuoto apparente che abbiamo intorno, per immaginare lo straordinario universo.

“Non avere tempo” vuol dire essere eternamente sospesi tra il rimpianto e il ricordo del passato, e l’aspettativa frenetica di un sempre nuovo futuro, che magari non arriva mai.

“Non avere tempo” vuol dire cancellare il presente, che è l’unica condizione che conta veramente. L’unica condizione che ci è dato abitare.

Scrive Schopenhauer: “ La forma dell’apparizione della volontà è solo il presente, non il passato né il futuro. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: il presente è la forma di ogni vita, è un possesso che nessun male può strapparle… “

Invece, sembra spesso che abbiamo abdicato al nostro presente.

Cerchiamo distrazioni virtuali, vie di fuga parallele, oppure avanti o indietro. E tutto il bello che la vita offre, ci sfugge – mentre siamo occupati a fare altro – come grani di sabbia tra le dita.

Il tempo, però, ha sempre l’ultima parola. Perché il tempo è reale. Ogni ‘confutazione’ del tempo, infatti, non regge alla prova.

Anche il grande J.L. Borges, che provò a confutarlo, dovette alla fine del suo saggio ammettere: “ Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume.; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. “
Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.

Riprendiamoci il tempo. In questo tempo propizio d'estate, riprendiamoci il nostro tempo.

Da qui inizia ogni rivoluzione possibile delle nostre vite.


20/05/10

Wonderland - Il meraviglioso che non vediamo mai.


Sahara Wonderland from zoomion on Vimeo.

Ho letto recentemente le dichiarazioni di Woody Allen al festival in corso a Cannes, dove il grande regista presenta il suo ultimo film.

In vecchiaia, il grande Woody si è sempre più incupito, e ogni volta che in conferenza stampa qualcuno gli domanda in cosa creda, quale è la sua concezione del mondo, il senso della nostra vita, la sua risposta è sempre più brutale: Woody dichiara - sempre più implacabilmente - che non crede in nulla, che la vita non ha nessun senso, che l'esistenza è un inferno caotico, del quale forse sarebbe stato meglio non fare mai parte - tranne poi aggiungere con la sua consueta ironia alla inevitabile domanda sulla morte, che "è fortemente contrario".

A parte dunque che chi odia così tanto la vita, chi la ritiene un incubo o un inferno dovrebbe desiderare solo di uscirne il più presto possibile, e quindi agognare la morte, mi sembra che Woody incarni molto lo spirito dei tempi: non a caso dichiara che il suo autore preferito è Philip Roth, al quale è accomunato da una stessa visione filosofica della vita.

Questa visione così cupa mi lascia sempre interdetto. Non bisogna sentirsi religiosi - tutt'altro - per considerare la vita come una esperienza formidabile.

Io credo fortemente che il nostro destino su questa terra sia quello di essere felici - o almeno di tentare di esserlo.

Quello di cui disponiamo è un bene immenso, che mirano - o tendono - ad una compiutezza e a un senso che hanno un nome: vita.

Basterebbe passare una notte nel Sahara, forse.


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11/02/09

La morte negata.


Non c’è epoca nella storia dell’uomo che sia stata più lontana dall’idea di morte, che questa che stiamo vivendo.


Per secoli e millenni l’uomo ha con-vissuto con la morte. La morte è stata una sorella fedele, la morte ha fatto parte a tutti gli effetti della vita. Vita e morte si sono mischiati continuamente, nelle guerre, nelle epidemie, nel piccolo mondo di ruvide certezze delle comunità contadine.

La morte, il lutto, il sacrificio, la carne erano parte – a tutti gli effetti – della vita di ogni giorno.

Oggi la morte è scomparsa.

I funerali vengono celebrati frettolosamente, il lutto è scomparso. Parlare di morte, o di lutti, in società, è considerato di cattivo gusto.

La morte è esorcizzata, tenuta lontano, sull’onda di un’euforia pagana, che rende sempre più adrenalinici e sempre più disperati.

Ma è una esperienza tipicamente umana, che più una cosa si allontana forzatamente dal nostro orizzonte psicologico, più la si esorcizza, e più essa ritorna, più potente e simbolica, più minacciosa.

Quindi, anche se siamo nell’epoca della storia umana in cui siamo più lontani dall’idea di morte, siamo certamente nell’epoca in cui la morte fa più paura.

E la ragione è proprio questa.

Conosciamo sempre meno la morte, ed essa ci fa sempre più paura.

La morte continua a dominare i nostri pensieri – è normale, e il pensiero della morte che non riusciamo più ad elaborare, ritorna sotto forma di incubi, depressione, disagio, disturbo, nevrosi.

Sì, perché l’uomo non riesce a vivere sotto il peso schiacciante della morte. Come infatti ci ricordano gli antichi Greci – ha scritto recentemente U. Galimberti - l’uomo per vivere ha bisogno di una costruzione di senso, in vista della morte, che è l’implosione di ogni senso.

Questa visione tragica del greco, che non nutriva speranze ultraterrene, venne oltrepassata dal Cristianesimo che ha iscritto l’uomo in un orizzonte di senso che ha il suo riferimento nell’immortalità dell’anima e quindi, come ci ricorda Paolo di Tarso, nella vittoria sulla morte.

Oggi questa speranza e questa costruzione di senso del cristianesimo sembra – dal comune sentire, ce ne accorgiamo specialmente in un paese ‘cattolico’ come l’Italia – spappolata.

Domina una rimozione collettiva del problema della morte, in vista della nostra incapacità di dare alla morte un senso, e quindi di accettarla nelle nostre vite.

Così, mi sorprendo moltissimo della meraviglia di quanti scoprono con ipocrita scandalo che la sera della morte di Eluana, la puntata del ‘grande fratello’ con le beghe da cortile dei palestrati e il loro futile e insensato vociare, abbia ottenuto il record di ascolti.

Se la proposta è:
- da una parte la morte come OGGI la viviamo e la sentiamo
- e dall’altra il dis-impegno, la disinvoltura, il dis-interesse, la deriva di un ostinato NON-domandarsi nulla,
CHI – secondo voi - potrà mai prevalere ?
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