Visualizzazione post con etichetta serie televisive. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta serie televisive. Mostra tutti i post

03/02/24

"Lezioni di Chimica", una pregevole serie su AppleTv


La schiera delle stars femminili di Hollywood mi piace molto, perché è composta in questo momento, di donne intelligenti che in questi anni hanno saputo scegliere sempre bene, fino a diventare produttrici di se stesse con coraggio nelle scelte dei progetti, dei film e dei registi più interessanti.

E' stata ed è la prerogativa di Emma Stone, di Nicole Kidman, di Reese Whiterspoon, di Margot Robbie, ovviamente e anche di Brie Larson, che ha creduto dal primo momento, al progetto di trarre una serie TV, "Lezioni di chimica" [visibile su Appletv] dal romanzo "Lessons in Chemistry" di Bonnie Garmus: una storia femminista che ha conquistato il pubblico e che racconta le vicende di Elizabeth Zott, chimica di formazione che nell'America puritana e maschilista degli anni '50, incontra ostacoli di ogni tipo per riuscire a dimostrare il suo talento ed essere trattata alla pari di colleghi maschi.
Assunta dai Laboratori Hastings, in California, come "assistente chimico", ha l'occasione di conoscere da vicino lo stravagante e geniale Calvin Evans, l'unico ad accorgersi delle potenzialità di Elizabeth.
Brie Larson incarna convintamente il personaggio con tutte le sue fragilità e asprezze, ed è raffinatamente bella (in certi momenti una specie di clone di Grace Kelly).
La Serie si fa molto apprezzare, perché evita i cliché prevedibili, descrivendo una donna bellissima, ma dal carattere ispido e intrattabile, autolesionista e anticonformista. Evitando di spoilerare diremo che l'imbranato e fascinoso Calvin è interpretato da Lewis Pullman, figlio dell'attore Bill Pullman (e molto somigliante), mentre tra gli altri del cast spicca l'ottimo Beau Bridges, fratello maggiore di Jeff.
Una bella storia, dunque, raccontata con garbo e senza patetismi, che anzi, è tutta dalla parte delle donne e del loro orgoglio, ferito e maltrattato da comportamenti "usuali" di maschi che non sanno nemmeno chi sono.
Da vedere, in programmazione su Appletv.

22/06/23

Ecco "Black Bird", la migliore serie che c'è in giro, oggi


Quasi nessuno parla da noi di "Black Bird"
, la migliore serie che c'è in giro, e una delle migliori degli ultimi anni.

Forse perché è su AppleTv, che non tutti hanno (ma ricordo che si può anche fare una prova gratuita che dura 7 giorni).
Black Bird - in cui sembra di rivivere certe atmosfere da True Detective 1 (vertice mai più raggiunto) - è diretta da Dennis Lehane e coprodotta oltre che da Apple, da Dan e Ryan Friedkin, gli attuali proprietari della AS Roma.
E' tratta da una storia vera, e più specificatamente dalla autobiografia Il Falco di James Keene, pubblicata nel 2010. Keene, di buona e colta famiglia fu arrestato dopo essere entrato in un giro di spaccio di droga e condannato a dieci anni di carcere.
Contattato dall'FBI, fu convinto a entrare sotto copertura, con la promessa di guadagnarsi la libertà, in un carcere di massima sicurezza (nonché manicomio criminale), allo scopo di guadagnarsi la fiducia di Larry Hall, sospettato di essere l'omicida seriale di un certo numero di ragazze sparite nelle campagne dell'Illinois.
Le sei puntate della tiratissima miniserie raccontano dunque la difficilissima discesa di James - o Jimmy - nell'inferno del carcere più duro, cercando di avvicinare Larry, diventarne amico e confidente, per arrivare a ottenere da lui la confessione dei suoi crimini (e in particolare, dei luoghi delle sepolture delle ragazze che ha ucciso).
Il punto di forza della serie è nella coppia di attori protagonisti: il giovane inglese Toran Egerton (nei panni di Jimmy) e Paul Walter Hauser che riesce a incarnare il più convincente e realistico omicida seriale che si sia visto recentemente al cinema o alla Tv.
Entrambi, infatti, hanno fatto incetta di candidature e di premi ovunque, compresi i Golden Globe. Erano tutti e due nella cinquina finale. Il premio per la migliore interpretazione maschile è poi andato - meritatamente - a Paul Walter Hauser.
Il quale virtuosisticamente colora il suo assassino di sottilissime sfumature, smorfie, idiosincrasie, rendendolo naif e terribile insieme.
L'altro versante della storia - l'indagine condotta da un ispettore locale e da una funzionaria dell'FBI - è meno interessante e forse andava tagliato nei tempi.
Nel complesso, però, una grande storia su dannazione e riscatto, sul buio interiore e sull'esercizio di una forza che non si arrende.
Assolutamente da vedere.

Fabrizio Falconi - 2023

30/05/23

"Diplomat", la serie Netflix, un prodotto di alta qualità


 Diplomat - disponibile sulla piattaforma Netflix - deve la sua qualità in primis a una magnifica attrice, Keri Russell, che i più hanno conosciuto in "The Americans" , oggi cinquantenne, che qui oltre ad essere protagonista assoluta, è anche produttrice esecutiva.

Scritta brillantemente da Debora Cahn, una delle migliori sceneggiatrici di Hollywood, Diplomat ci porta nel mondo dell'alta diplomazia internazionale, nel pieno di una crisi: una nave inglese è stata attaccata da un (finto) peschereccio nelle acque del Golfo Persico, e i riflettori vengono subito puntati sull'Iran.
Nel pieno di questa crisi, Kate Wyler, esperta funzionaria di casa in paesi difficili come Iraq e Afghanistan, viene nominata ambasciatrice degli USA a Londra. Portandosi dietro l'ingombrante fardello di un marito anch'egli diplomatico ed ex ambasciatore, messo ai margini per il suo carattere indipendente e piuttosto incontrollabile.
Marito e moglie sono in crisi, c'è aria di divorzio da tanto tempo, ma i due sono legati da qualcosa di profondo, una mutua protezione, un attaccamento sensuale e di umana comprensione-accoglienza per le rispettive fragilità, soprattutto quella di Kate, specialmente ora che ha un incarico così importante e delicato.
Hal, il marito, promette di "fare il buono" e di fare "la moglie" dell'ambasciatore, ma ovviamente non va così.
La serie è costruita interamente su dialoghi serratissimi e intrighi diplomatici difficilissimi da decifrare. Se non ci si annoia è proprio per merito della bravura degli interpreti, soprattutto i due principali: oltre a Keri Russell, il perfetto Rufus Sewell. Il matrimonio in crisi e i rispettivi caratteri di Kate e di Hal sono ciò che conferisce alla serie la qualità e l'intelligenza, e che rende piacevole proseguire fino in fondo, fino a un finale a sorpresa che lascia tutto aperto.
Mi è piaciuto molto il franco femminismo della serie: Kate è una donna con le palle; Hal come uomo esperto e abituato ad essere al centro dell'attenzione deve fare esercizio quotidiano (e fa di tutto per farlo), per accettare di essere in secondo piano. Mi è piaciuta l'originalità dell'ambientazione, la grande qualità complessiva della messa in scena.
E' oltretutto illuminante percepire quanto sia precario e inautentico il mondo dell'alta diplomazia internazionale, ormai pesantemente condizionato dall'immagine, dal web, da twitter, dai vuoti rituali, dalle intemperanze caratteriali dei singoli; da come tutto, compresa una grave crisi internazionale che può mettere a rischio migliaia o milioni di persone o tutto il pianeta, può essere potenzialmente motivato da futili o futilissimi motivi (come già il Dr. Strangelove di Kubrick insegnava molti molti anni fa).
Serie consigliabile e prodotto di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

19/05/23

"Slow Horses" si migliora ancora, la seconda stagione della serie, più bella della prima


La seconda stagione di Slow Horses, serie AppleTv è se possibile, ancora migliore della prima, che suscitò entusiasmo della critica e favore del pubblico.

Stavolta i "ronzini" (gli agenti "sfigati") del "Pantano" (il dipartimento sfigato dove vengono mandati gli agenti sfigati, decaduti, del MI5, capitanato dall'espertissimo ma ingestibile Jackson Lamb) sono alle prese con un incarico che viene affidato loro direttamente dai "Cani", cioè dagli agenti di primo livello del MI5: apparecchiare, preparare, bonificare il luogo dove avverrà un incontro segreto tra la scrivania n.2 dei servizi inglesi, la Taverner e un rampante agente russo di nome Pashkin.
Da qui nascono avvenimenti e trama appassionanti e intricati che lungo l'arco di sei puntate, catturano totalmente lo spettatore, regalandogli un divertimento intelligente, impagabile.
Merito del cast, in primis. Con Gary Oldman (per cui scarseggiano ormai gli aggettivi) che non "interpreta" Lamb, ma gli dà vita, lo crea, lo rende più vero del vero, epigono di precedenti illustri, da Marlowe a Colombo, ma decisamente più cool, Lamb con il suo impermeabile fetido, la barba lunga, i capelli sporchi, l'olezzo che si porta dietro, è uno spettacolo ad ogni frase che pronuncia e a ogni espressione che accenna.
Kristin Scott Thomas è perfetta nei panni di Taverner, Jonathan Pryce è il nonno di River Cartwright, ex agente anche lui. Mentre River, interpretato dal bravissimo Jack Lowden è un coprotagonista a tutti gli effetti.
La seconda stagione è stata girata con sontuosi mezzi per le vie di Londra, dove si svolge una grande manifestazione di protesta, aeroporti di piper, stazioni, pub.
Slow Horses ha anche il merito di non precludersi di far morire i personaggi anche più amati. In questa seconda stagione trova molto spazio Rosalind Eleazar, talentuosissima attrice di cui sentiremo molto parlare, che pur con una menomazione congenita alle dita delle mani, regala emozioni assai intense.
Del tutto raccomandabile, quindi, in attesa della terza stagione già in lavorazione. Davvero una serie alla quale è difficile, se non impossibile, trovare difetti.

Fabrizio Falconi - 2023

04/04/23

"Daisy Jones & The Six", una bella serie da non perdere


Daisy Jones & The Six
, è una serie tv che raccomando caldamente per diversi motivi.

In primis, é originale nei contenuti, nel tono e nella scrittura, in un momento non molto felice per le serie tv, che ultimamente sembrano a corto di idee e povere di qualità.
Daisy Jones & The Six - 10 puntate da 40-50 minuti l'una, su Amazon prime video - è stata scritta da Scott Neustadter e Michael H. Weber esperti sceneggiatori, già candidati ai premi Oscar (The Disaster Artist, 2018), tratto da un fortunato romanzo di Taylor Jenkins.
L'idea vincente è quella di scrivere la storia di una band immaginaria (che sembra a tratti più vera del vero), che - come molte in quel periodo - esplode nei primi anni '70 (quel periodo non-ripetibile e non-più-raggiungibile nella qualità della musica pop-rock) negli USA, che realizza un solo album di enorme successo e si scioglie inspiegabilmente alla fine della tournée di lancio, dopo un concerto a Chicago memorabile, davanti a migliaia di spettatori.
La Jenkins e gli sceneggiatori hanno pensato molto, durante la scrittura ai Fleetwood Mac e alle burrascose relazioni dentro quel gruppo, in particolare quella tra la cantante Stevie Nicks e Lindsey Buckingham, chitarrista e frontman.
Quindi la storia della serie è ispirata a quella, ma non esplicitamente, e procede sulla sua linea.
La maggiore qualità di "Daisy Jones" è il tono delicato e il gusto con cui viene narrata questa storia, senza precipitare negli stra-logori luoghi comuni del pernicioso menu sesso droga & rock'n roll.
Qui interessano molto di più i caratteri, le storie personali, le relazioni. Tutto quello che all'epoca rese grande - musicalmente e non - una generazione ancora non fagocitata dalla tecnologia digitale e dalla musica virtuale.
La scelta vincente è il cast: il fascinoso protagonista è l'inglese Sam Claflin. Le due donne che dividono in due il suo cuore sono Riley Keough che, oltre a impersonare Daisy Jones, nella vita è la nipote diretta di Elvis Presley (è la figlia di Lisa Marie Presley, figlia di Elvis) e l'argentina Camilla Morrone (Camilla Dunne), famosa alle cronache per essere la compagna di Leo Di Caprio.
Ma anche tutti i personaggi di contorno funzionano assai bene. Tutti sanno recitare, tutti sono convincenti, tutti lavorano in sottrazione, senza esagerazioni e senza gigionismi.
La serie si vede con vero, grande piacere fino all'ultima puntata che dura 70 minuti, e che ovviamente presenta il redde rationem della intera storia.
Applausi.

Fabrizio Falconi - 2023

19/03/23

Mad Men, il classico delle serie che non invecchia

 


Mad Men, uscita 15 anni fa (2007), è una serie che sta invecchiando molto bene.

Dopo aver vinto tutti i premi possibili (scritta in modo magistrale dallo stesso autore di Sopranos, Matthew Weiner), ancora oggi se ne può ammirare la visione concentrazionaria di uomini e donne che si muovono nel mondo di una agenzia pubblicitaria di successo americana dei primi anni '60.

Le dinamiche descritte potrebbero definire meglio di un trattato, la realtà del maschilismo occidentale.

Gli uomini (che sono "pazzi" già dal titolo) che comandano, che decidono, che si spartiscono tutto, che vedono (nel senso proprio di "vedere") le donne come esseri inferiori, buone solo in quanto carne da penetrare.

Molto interessante è anche la descrizione dell'universo parallelo femminile che coabita questi luoghi (nelle vesti di segretarie/amanti ovviamente), nel quale, come sempre in questi luoghi chiusi, di potere, si innescano meccanismi tra gli oppressi (in questo caso "le" oppresse), con le kapò che dispongono delle ultime arrivate e le dirigono nei rispettivi giacigli, e le ultime della scala, che cercano una affannosa salvezza, anche a costo di rinunciare alla dignità.

La serie non invecchia perché la realtà non è poi così tanto cambiata, non so in America, ma sicuramente non qui da noi. 

Fabrizio Falconi - 2023

18/04/22

"The Gilded Age", la nuova serie di quel genio di Julian Fellowes

 


Julian Fellowes è senza dubbio uno scrittore eccezionale. Quando aveva 50 anni il maestro Robert Altman lo contattò per scrivere la sceneggiatura di uno dei suoi ultimi film più riusciti in assoluto: "Gosford Park"

Il film, con un cast tutto di mostri sacri inglesi (Maggie Smith, Kristin Scott Thomas, Alan Bates, Emily Watson, Helen Mirren, Stephen Fry), dopo il successo planetario ricevette ben 7 nominations agli Oscar 2002. 

L'unica statuetta che però il film portò a casa (su 7) fu quella conquistata da Julian Fellowes per la migliore sceneggiatura originale (che aveva firmato da solo). 

Diversi anni più tardi Fellowes, che nella vita ha fatto anche l'attore, il regista, il produttore e naturalmente lo scrittore di romanzi, è diventato universalmente noto per la serie "Downton Abbey" (6 stagioni), una delle più viste di sempre, che ha messo d'accordo tutti, pubblico popolare e platea sofisticata amante delle atmosfere e delle psicologie alla Henry James. 

Ci voleva dunque una buona dose di coraggio per Fellowes, per cimentarsi con una nuova saga originale, intitolata "The Gilded Age", ambientata stavolta nella New York di fine Ottocento, qualche decennio prima dei fatti di Downton Abbey. 

Anche stavolta Fellowes ha messo in piedi un congegno narrativo perfetto (per ora 1 stagione, 9 puntate) basato sullo scontro tra la classe sociale degli immigrati americani di prima generazione legati alla madre patria Inghilterra, e perciò assai snob e la nuova generazione di parvenu americani, fortissimamente intenzionati a prendersi soldi, potere e successo e soprattutto notorietà e riconoscimento da parte della vecchia

La scrittura e i dialoghi sono del solito alto livello, la ricostruzione è fenomenale, senza i soliti trucchi al computer, con centinaia di comparse vere, costumi e ambienti fantastici, nella più consolidata tradizione dei lavori di Fellowes. 

Però sono quasi sicuro che The Gilded Age non avrà lo stesso successo di Downton Abbey (anche se pure qui ci saranno diversi seguiti): i personaggi sono (volutamente) meno empatici, non c'è il tono ironico e leggero (e romantico/sentimentale) del british mood che piace molto in Italia. 

D'altronde Fellowes è troppo serio per non averci pensato: gli USA di fine ottocento, non erano l'Inghilterra. 

Qui il confronto, le ambizioni, la lotta sociale, le dinamiche sono molto più cruente, prive di scrupoli. 

Non mancano personaggi moralmente virtuosi, ovviamente, in primis la protagonista Marion (impersonata da Louisa Jacobson, figlia di Meryl Streep). 

Ma si respira un'aria meno lieta e consolante. La visione The Gilded Age è comunque del tutto raccomandabile: il puro grande piacere dell'intrattenimento anglosassone, sullo spartito di una scrittura sempre brillante, formidabile.

Fabrizio Falconi - 2022 

22/03/22

The White Lotus, la bellissima e feroce nuova serie HBO che racconta cosa è diventato l'occidente

 


The White Lotus è una ferocissima, splendida serie (2021), una delle migliori dell'anno, che non smentisce la qualità del marchio HBO, ormai una garanzia assoluta. 

L'ha scritta il geniaccio Mike White immaginando e descrivendo una settimana in un prestigioso resort hawaiano chiamato appunto "The White Lotus". Protagonista è il concierge Armond (uno stupefacente Murray Bartlett) che deve vedersela con clienti ricchi sfondati e pazzoidi (una coppia in luna di miele, una famiglia disfunzionale, una attempata signora depressa venuta a disperdere le ceneri della madre). 

Siamo dalle parti dei Coen (e di Fargo, in particolare), in quanto a toni e atmosfere: domina il grottesco, la satira tagliente, ma si vira decisamente sul dolente e sul drammatico mano a mano che ci si avvicina alla fine. 

Scene sessualmente esplicite, ma non insistite o volgari, e la capacità talentuosa di far evolvere un'ambientazione o "scenario" già visto (il resort di lusso, i ricchi che si comportano male, l'isola esotica) in qualcosa di veramente e del tutto originale. 

E' una descrizione feroce di quello che è diventato l'Occidente e in tempi come questi viene da pensare quanto sia facile per la propaganda di Putin (ma del resto anche per quella araba/musulmana) puntare il dito su un Occidente alla deriva, in preda alla depravazione dei costumi, al consumo abissale di droghe e alcol, alla dipendenza da farmaci e tecnologia, alla mancanza assoluta di un qualsiasi punto di riferimento alto (non diciamo "morale") superstite, in grado di riempire quel vuoto di senso miserevole in cui è precipitata la vita. 

Eppure, grazie proprio ad opere come questa di Mike White, l'Occidente dimostra una capacità reattiva, autoconsapevole e autocritica durissima (come già accadeva in Don't Look up): il fatto che in Occidente si possano immaginare storie come queste, descriverle, farle vedere a un pubblico, è esattamente la differenza che ancora esiste - e non è poco - tra l'Occidente (o quel che resta di esso) e i regimi di Putin o panislamici fondamentalisti, che si illudono di fermare il tempo solo con la censura e la dura repressione dei comportamenti e delle libertà.

Fabrizio Falconi - 2022 

12/02/22

Quando i Neonazi manifestavano liberi nel 1962 a Londra, a Trafalgar Square

 


Una bella miniserie prodotta da BBC, "Ridley Road", in 4 puntate di 1 ora ciascuna, ancora in attesa di trovare un distributore in Italia, ha riportato alla memoria l'incredibile vicenda di un gruppo neonazista che in Gran Bretagna, ispirandosi direttamente ad Adolf Hitler, nel dopoguerra, riuscì a manifestare liberamente per le strade di Londra, come conferma questa foto storica scattata a Trafalgar Square, nel 1962.

Il gruppo era capitanato dal politico Colin Jordan, e dalla moglie francese, Francoise Dior, che oltre ad essere la dama nera del movimento inglese, era anche la nipote (figlia del fratello) di Christian Dior. 

Ero piuttosto curioso, dopo aver visto la serie, di scoprire quanto nella fiction ci fosse di vero. E sembra proprio che la ricostruzione sia molto fedele ai fatti. 

Nell'Inghilterra del dopoguerra Colin Jordan, figlio di un impiegato postale scozzese, cavalcò la frustrazione di un popolo che molto aveva sofferto durante la Seconda Guerra Mondiale, con un inaudito numero di perdite umane; lanciando lo slogan che tutto questo era stato fatto "per salvare gli ebrei" e quindi, tutto sommato, per colpa loro. 

Cominciò così una campagna dai toni sempre più aggressivi nei confronti degli ebrei inglesi, fino a quando Jordan non fu arrestato con l'accusa - e le prove - di aver organizzato una forza paramilitare sul modello delle SA naziste. 

Ridley Road ripercorre con tocco lieve ma efficace, la storia di due infiltrati - ebrei - che riuscirono a sabotare l'organizzazione di Jordan, fornendo a Scotland Yard, le prove della loro attività criminale. 

Come sempre, quando si tratta di serie inglesi, la ricostruzione è perfetta negli ambienti, nel clima, e nei personaggi. 

Tra tutti i (bravi) attori, menzione particolare per Rory Kinnear, attore shakespeariano che incarna magistralmente il nevrotico represso Jordan. 

Fabrizio Falconi - 2022 



29/01/22

Come rifare 50 anni dopo, "Scene di un matrimonio" di Bergman e come farlo meravigliosamente bene


Si pensava che fosse impossibile e impensabile imbarcarsi in un remake da un'opera mitologica come "Scene da un matrimonio" che Ingmar Bergman realizzò per la televisione qualcosa come 50 anni fa, nel 1973, archetipo e prototipo delle "serie" televisive, che nasceranno soltanto 30 anni più tardi.

Invece l'israeliano Hagai Levi non solo ci ha provato, ma ha realizzato un miracolo.

D'altronde Levi è il più brillante scrittore e creatore della sua generazione, basti pensare che ha inventato il "format" di In Treatment, (nell'originale israeliano Be Tipul), poi esportato e rifatto negli USA e in decine di altri paesi.

Prodotto dalla Hbo, la più raffinata delle reti, Hagai Levi ha riscritto interamente il copione bergmaniano, operando alcune coraggiose modifiche: tagliando la puntata n.2 di Bergman (quella che aveva il meraviglioso titolo "L'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto") - e quindi qui sono 5 non 6 - e invertendo i ruoli dei protagonisti:  nella serie 2021 non è il marito a tradire e a andarsene, ma la moglie. E di conseguenza, tutto avviene a parti invertite.

La sostanza però non cambia. Ma tutto viene "aggiornato" secondo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, di oggi.

Ed è una serie dolorosissima, come l'originale, ma necessaria.

5 puntate meravigliose, contenute nel claustrofobico legame tra Jonathan (Oscar Isaac) e Mira (Jessica Chastain), che non riescono ad essere all'altezza dell'amore che li lega, del sentimento che sentono l'un l'altro, che sabotano - come spesso succede - questo rapporto e anche le loro vite individuali, alla ricerca di aria, di libertà, di spazio, di crescita evolutiva, di emancipazione, salvo ritrovarsi poi all'apparente punto di partenza, sconsolatamente orfani di qualcosa che hanno perduto e che non può ormai più essere rimesso in piedi - se non sotto forma di affetto o scarna sessualità estemporanea.

Quest'opera riesce insomma ad essere degna dell'originale bergmaniano (anche se ovviamente, nelle mani del maestro, tutto ciò si trasformava in una delle sue ricerche da entomologo sulla natura e sulle ombre dell'animo umano).

Tutto ciò grazie a due attori veramente straordinari, Jessica Chastain e Oscar Isaac che si mettono in gioco completamente, esponendo con se stessi, la nudità completa dei loro personaggi, indagati instancabilmente da primi o primissimi piani.

I due meritavano e hanno vinto innumerevoli, meritatissimi premi.

Il segreto della loro alchimia sul set, sembra nasca dal fatto che si conoscono da tantissimo tempo, essendo ex compagni di corso nella mitica Julliard School che ha sfornato innumerevoli talenti negli ultimi anni.

Ogni piega, ogni dolore, ogni lacrima, ogni sorriso, ogni violento litigio, ogni compassione o riappacificazione è dunque qui mostrata con naturalezza, con estrema verità.

Una serie che è una delle più belle e sostanziose sorprese di questi ultimi due difficilissimi anni, per tutti.

Fabrizio Falconi - 2022

14/12/20

E' morto John Le Carré, maestro assoluto della Spy-Story


In 'Una spia che corre sul campo', uscito poco piu' di un anno fa, aveva raccontato gli anni della Brexit, immaginando un'alleanza tra i servizi segreti di Londra e l'America di Trump con il duplice scopo di minare le istituzioni democratiche europee e smantellare il sistema internazionale dei dazi. 

"E' mia convinta opinione che per la Gran Bretagna, per l'Europa e per la libera democrazia in tutto il mondo, l'uscita della Gran Bretagna dalla Ue al tempo di Trump e la conseguente dipendenza senza riserve sugli Stati Uniti in un'era in cui gli Usa hanno imboccato la strada del razzismo istituzionale e del neo-fascismo e' un disastro senza precedenti", aveva fatto dire a uno dei personaggi del romanzo. 

E per manifestare contro la Brexit era sceso in piazza, John Le Carre', maestro della spy story acclamato nel mondo, celebre per le sue storie di spionaggio intrise di realismo e critiche nei confronti della societa' moderna, dalla Guerra Fredda ai fallimenti della globalizzazione, morto all'eta' di 89 anni. 

Vero nome David J. M. Cornwell, nato a Poole, nella regione inglese del Dorsetshire, nel 1931, Le Carre' insegna all'universita' di Eton, prima di diventare un funzionario del ministero degli Esteri britannico ed essere reclutato dall'MI5 e poi dall'MI6. 

Dall'esperienza nei servizi segreti predera' spunto per creare il personaggio di George Smiley, leggendario protagonista di numerosi suoi romanzi.

L'esordio, in quell'anno, e' con 'Chiamata per il morto', poi verra' 'Un delitto di classe', ma sara' la sua terza fatica letteraria, 'La spia che venne dal freddo', uscito nel 1964, a regalargli la fama planetaria. 

Oltre 20 milioni di copie vendute nel mondo, racconta la storia di Alec Leamas, agente britannico trasferito nella Germania dell'Est, che sara' interpretato sul grande schermo da Richard Burton nel primo di una lunga serie di adattamenti delle sue opere, tra cinema e tv. 

Basso, tozzo, occhiali spessi, paranoico, ma dotato di intelligenza acuta, una sorta di anti James Bond, come lo descrive lo scrittore in 'Candele nere' (1962), Smiley resta l'eroe preferito di Le Carre'. 

Ne La Talpa (1974) questo formidabile ufficiale dei servizi segreti smaschera una talpa sovietica infiltrata nelle sue fila. 

I sequel, 'L'onorevole scolaro' e 'Tutti gli uomini di Smiley', vengono portati in tv e al cinema con Gary Oldman nel ruolo di Smiley. 

Tra gli altri romanzi celebri, 'La tamburina', 'La spia perfetta', 'La casa Russia', 'Il direttore di notte', diventato di recente un serial di successo (con il titolo originale The Night Manager) con Tom Hiddleston e Hugh Laurie

Con la fine della Guerra Fredda nel 1991, Le Carre' mette alla berlina nelle sue opere gli eccessi del nuovo ordine mondiale costruito sulle rovine del muro di Berlino: mafia, traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro e terrorismo. 

Sono gli anni di 'Il sarto di Panama' e 'Il giardiniere tenace', approdato anche al cinema, che denuncia gli abusi delle multinazionali farmaceutiche in Kenya. 'Il nostro traditore tipo' e 'Una verita' delicata' tracciano una satira feroce dei padroni del mondo e delle manovre costruite nei salotti di ambasciate, ministeri e banche. 

Negli ultimi Le Carre' ha scelto una vita ritirata, tra Cornovaglia e Hampstead. Sposato due volte, ha avuto quattro figli e tredici nipoti. 

Nel 2011 ha lasciato in eredita' tutti i suoi archivi alla Bodley Library, fondata all'inizio del XVII secolo a Oxford, dove ha studiato lingue negli anni '50. "Per Smiley, come per me, Oxford e' la nostra casa spirituale", spiega. "E mentre ho il massimo rispetto per le universita' americane, la Bodley Library e' il luogo dove riposerei il piu' felice possibile". 

"John Le Carre' e' scomparso a 89 anni. Questo anno terribile ha portato via un gigante della letteratura e uno spirito umanitario". Cosi' lo scrittore americano Stephen King ha reso omaggio su Twitter, all'autore di La spia che venne del freddo. 



05/08/20

Libro del Giorno: "Parlarne tra amici" di Sally Rooney




E' diventata subito un fenomeno letterario Sally Rooney (classe 1991), irlandese laureata al prestigioso Trinity College di Dublino e lanciata dal suo editore con l'eloquente slogan di: "la Salinger della generazione Snapchat". 

Parlarne tra amici (Conversations with Friends) è il suo primo libro, l'esordio, avvenuto nel 2017, bissato l'anno seguente da Persone Normali (Normal People, anche questo pubblicato in Italia da Einaudi), nel 2018, che ha vinto il Costa Book Award, e soprattutto è stato trasformato in una splendida serie televisiva (titolo omonimo), che nei paesi anglosassoni ha messo d'accordo tutti ed è ancora poco vista in Italia. 

Rooney scrive - nei due romanzi che ha scritto finora - di cose che conosce bene. Quasi tutti i personaggi del primo e del secondo libro orbitano nel mondo dell'università dublinese, tra aspirazioni artistico-letterarie e famiglie disfunzionali di provenienza; tra relazioni fluide che non si stringono mai del tutto, espiazioni personali, equivoci, comunicazioni frammentate che avvengono attraverso mail e messaggi what's app, feste piuttosto banali, conversazioni sui massimi e minimi sistemi, e soprattutto il rito del bere, in compagnia o da soli, bere molto. 

Ma mentre in Normal People i protagonisti sono soltanto due, i poco più ventenni Marianne (alto borghese e sfigata perché strana) e Connell (orfano di padre, di famiglia umile), che si amano moltissimo, lasciandosi e riprendendosi e ancora lasciandosi,  in Conversations with Friends i protagonisti sono quattro, due coppie: le studentesse Frances e Bobbi (che formavano una coppia lesbica ma si sono lasciate, pur continuando a costituire un connubio artistico - Frances scrive testi poetici e Bobbi le interpreta su palchi di ritrovi universitari) e Melissa e Nick, più grandi di loro di dieci o quindici anni:  Melissa è una fotografa e pubblica libri, Nick è un attore trentaduenne, bello e fallito e con problemi psicologici. I due sono sposati da parecchi anni. 

La vicenda si innesca quando Melissa contatta le due ragazze per realizzare un servizio delle loro performances. Frances e Bobbi si ritrovano a frequentare la casa sua e di Nick, con le feste alcoliche e borghesi, a conoscere i loro amici, ad accettare i loro inviti nella villa in Francia, a confrontarsi in lunghe conversazioni durante i pasti, in cui si parla di anarchia, della persecuzione dei neri in America, del capitalismo, delle malefatte della finanza globale. 

Accade così che Frances si innamora di Nick (che fra l'altro è il primo uomo che si sia mai portato a letto) e Bobbi si scopre infatuata di Melissa alla quale sottopone timide avances

Il focus della narrazione si stringe sempre più intorno a Frances (che rassomiglia in modo notevole alla Marianne di Normal People, ne è anzi per molti versi la controfigura e probabile controfigura della stessa autrice, Sally Rooney): intorno alle sue nevrosi, ai suoi istinti di autolesionismo (che ritornano in tutto il romanzo e sono anch'essi comuni alla Marianne dell'altro romanzo), alla sua afasia, alla sua scoperta del sesso, alla sua ipocondria che si manifesta poi in veri disturbi psicosomatici e non. 

Qui però, al contrario di Normal People, che ha uno sviluppo più lineare e coerente, la vicenda comincia ad aggrovigliarsi intorno all'inconcludenza dei vari personaggi, che dicono tutto e il contrario di tutto, e fanno tutto e il contrario di tutto: si capisce fin troppo l'intento della Rooney, di descrivere senza enfasi e con apparente freddezza, la confusione contemporanea, l'analfabetismo sentimentale, l'allergia a ogni tipo di responsabilità, la fluttuazione come sistema di vita, l'insoddisfazione e l'inconcludenza come unico orizzonte possibile. 

Nick, l'unico maschio dei quattro protagonisti, è l'emblema di questa palude: indeciso a tutto, si lascia guidare dalla sua passività-remissiva, limitandosi ad assecondare le richieste - sessuali, sentimentali, decisionali, minime - che gli vengono formulate. 

Nessuno dei quattro personaggi suscita l'empatia del lettore (in Normal People era impossibile invece non averne per l'onesto e fragile Connell e anche per la volubile Marianne), e con il passare delle pagine, si finisce per avvertire l'inautentico di questa narrazione e un fastidioso senso di compiacimento dell'autrice per i suoi personaggi, perduti in questo confortevole cupio dissolvi che non è mai definitivo e sempre rimandabile. 

Insomma, c'è la sensazione che il successo della Rooney di questo primo romanzo sia dovuto più che altro alla immedesimazione da parte dei molti lettori nelle fragilità emotive dei personaggi e sopratutto di Frances, piuttosto che all'indubbio talento della scrittrice.  

Le cose sono andate meglio con il secondo romanzo e soprattutto con la miracolosa messa in scena della serie televisiva tratta da Normal People, che ha potuto avvalersi di due giovanissimi interpreti veramente straordinario che hanno saputo dare faccia, corpo e sincerità a una storia di formazione intensa e dolorosa. 


Fabrizio Falconi 

04/12/18

Una bellissima poesia di un poeta palestinese, tratta da The Little Drummer Girl.




Nella terza puntata di The Little drummer girl, bellissima serie televisiva BBC tratta dal romanzo di John  Le Carré con Alexander Skarsgard e Florence Pugh, in una intensa scena viene recitata questa poesia di Mahmoud Darwish, poeta palestinese nato nel 1941 e morto in America, a Houston nel 2008.   La ripropongo per i lettori di questo Blog.


Ora, quando ti svegli, ricorda l’ultima danza
del cigno. Hai ballato coi cherubini
mentre sognavi? La farfalla ti ha illuminato
mentre ardeva della luce eterna della rosa? La fenice
ti è apparsa nitida…. e ti ha chiamato
per nome? Hai visto sorgere l’alba
dalle dita della tua amata? E hai toccato il sogno
con la mano, o hai lasciato che il sogno sognasse da solo,
quando all’improvviso ti sei accorto della tua assenza?
Non è così che i sognatori lasciano il sonno,
diventano incandescenti,
completando nel sogno la propria vita…
Dimmi come hai vissuto il tuo sogno
In un qualche luogo, e ti dirò chi sei
E ora che sei sveglio, ricorda:
hai maltrattato il tuo sogno ?
Se lo hai fatto, ricordati
l’ultima danza del cigno!
Di Mahmoud Darwish, traduzione italiana di di Pina Piccolo dalla traduzione inglese di Fady Joudah, tratta dal libro “The Butterfly’s Burden, Copper Canyon Press, 200 2007 (la poesia è tratta dalla raccolta di Darwish “Non ti scusare per quel che hai fatto, 2003)

Now, as you awaken, remember the swan's 

last dance. Did you dance with young angels 
while you were dreaming? Did the butterfly 
light you up when it burned with the eternal 
light of the rose? Did the phoenix appear clearly 
before you and call you by your name? 
Did you see the morning dawn from the fingers 
of the one you love? Did you touch 
the dream with your hand or did you 
leave it to dream alone, aware suddenly 
of your own absence? Dreamers don't abandon 
their dreams, they flare and continue 
the life they have in the dream…tell me 
how you lived your dream in a certain place 
and I'll tell you who you are. And now, 
as you awaken, remember if you have wronged 
your dream. And if you have, then remember 
the last dance of the swan. 

Continua a leggere: http://frontierenews.it/2016/03/ora-quando-ti-svegli-ricorda-mahmoud-darwish/

08/08/18

La serie dell'anno: "Patrick Melrose", un doloroso viaggio verso la consapevolezza.



Ecco una serie televisiva che ti apre il cuore - per chi ne ha ancora uno - come una noce. 

Patrick Melrose, appena andata in onda su Sky Atlantic, e recuperabile sul BoxSet o in streaming, è tratta dalla saga dei romanzi dello scrittore inglese Edward St Aubin (finalista del Man Booker Prize)  tra il 1992 e il 2012: cinque, come sono cinque le puntate della mini-serie. 

Si tratta della lunga tranche de vie del protagonista e come i romanzi si basa sulla vita dell'autore, cresciuto in una disfunzionale famiglia dell'alta borghesia britannica, il quale ha affrontato la morte di entrambi i genitori, problemi di alcolismo, una dipendenza da eroina, e successivamente la guarigione, il matrimonio e la paternità.

La serie è stata ideata e scritta dall'inglese David Nicholls, diretta sontuosamente da Andrew Berger per la produzione di Showtime e fortemente voluta dal carismatico Benedict Cumberbatch nei panni del protagonista.

Cinque puntate brillanti e livide, di un'ora ciascuna, in cui viene descritta senza compiacimenti e senza cadute di stile, la discesa agli inferi di Patrick, abusato da bambino dal padre-orco, un ricco e crudele aristocratico represso, con la complicità muta della disastrosa madre, in balia di alcool e psicofarmaci.

Le vicende si alternano tra la vita presente di Patrick - in lotta per liberarsi dalla dipendenza radicale dall'eroina e dall'alcool - e i frammenti agghiaccianti della vita altoborghese della sua infanzia, nel villone in Provenza, dove il padre e la madre portano il ragazzino ogni estate.

Non molto viene risparmiato allo spettatore, non certo in termini di effettacci, come oggi va molto di moda, quanto in clima di angoscia spirituale e materiale, intorno alle vicende di un bambino di dieci anni, impossibilitato a diventare un adulto responsabile e ossessionato dalla presenza-incubo dei due genitori.

La storia comincia con la telefonata che annuncia la morte del padre, dall'altra parte dell'Atlantico, in America.  Lentamente scopriamo la vita dissoluta, rovinata, consapevolmente rovinata di Patrick, il suo galleggiare sull'orlo di una impossibile normalità; i suoi anni terribili, la lotta feroce con se stesso; l'ambiente paranoico e cinico degli amici di famiglia; l'importanza di almeno due rapporti che salvano Patrick e lo guidano verso l'utopistica speranza di poter uscire fuori: l'amico e una moglie (il vero personaggio chiave della storia, nella riabilitazione alla vita, faticosissima di Patrick).

L'allestimento è da grande produzione, la regia è meravigliosamente misurata e allo stesso tempo brillante, i dialoghi sono di alto livello sempre, l'ironia e l'auto-sarcasmo percorrono tutta la vicenda attraverso la faccia, il corpo, lo stile di Cumberbatch, un attore dalle capacità espressive mostruose (come scrisse una volta Callisto Cosulich a proposito dei De Niro e Minnelli visti in New York, New York  di Scorsese), attorniato da un cast fantastico in cui spicca la grande Jennifer Jason Leigh oltre a Hugo Weaving, Indira Varma, Jessica Raine, Prasanna Puwanarajah, Pip Torrens, Anna Madeley, Allison Williams e Holliday Grainger.

Patrick Melrose conquista, turba e affascina perché è un grande racconto sulla impossibilità del perdono, sul lasciare andare, sulla consapevolezza, sul sacrificio, sulla deriva sanguinosa e sanguinaria che è generata dall'ignavia e dalla indifferenza, dalla cinica obbedienza all'egoismo.

Temi su cui è quanto mai importante riflettere oggi.

Fabrizio Falconi

riproduzione riservata



10/04/18

"Le Bureau (des Legendes)", una magnifica serie francese in onda su Sky.



Non appena terminata l'ultima scena della terza stagione di Le Bureau - Sotto copertura (Le Bureau des légendes, titolo in francese), si resta ammirati dalla capacità di scrittura e dalla realizzazione di questa serie televisiva, le cui prime puntate sono state trasmesse dal 27 aprile 2015 su Canal +, che è il canale che l'ha prodotto. 

Immaginata e scritta da Eric Rochant, Le Bureau va in onda su Sky Atlantic dal 16 gennaio 2017 ed è interamente reperibile per chi ha la funzione On Demand. 

Interpretata da un cast d'eccezione, Le Bureau racconta le vicende di Guillaume "Malotru" Debailly (impersonato da Mathieu Kassovitz), funzionario dell'intelligence francese della DGSE, che rientra a Parigi nel cosiddetto Bureau des légendes (BDL), uno dei dipartimenti della DGSE, dopo sei anni trascorsi a Damasco sotto copertura, ma, contrariamente alle norme di sicurezza, non sembra aver abbandonato l'identità con la quale ha vissuto in Siria. 

Intanto la sua amante di Damasco, Nadia el Mansur, esperta in storia e geografia, arriva a Parigi con la copertura della partecipazione a un corso universitario, per partecipare a trattative segrete fra la Russia e la Siria, dirette da Hachem Al-Khatib, e i due tornano a frequentarsi, suscitando i sospetti di Nadim, responsabile della sicurezza siriana a Parigi.

Si dipana da qui una vicenda - sempre credibile, piena di suspense ma senza mai eccedere in effetti o effettacci di sceneggiatura - dove l'umano è sempre al centro. Malatru-Kassovitz e gli altri protagonisti dell'Ufficio (Sara Giraudeau e Léa Drucker, tra gli altri protagonisti della serie) debbono e vogliono sacrificare qualcosa o molto più di qualcosa di se stessi - e dei propri destini individuali - in vista di un altro bene che è la comunità alla quale appartengono e alla quale hanno scelto di appartenere. 

Non sono eroi, non sono tanto meno campioni d'etica, sono sempre in bilico, sempre sul punto di rinnegare o tradire, sempre nel guado di dover scegliere tra mali possibili e mali minori o peggiori.  

Rochant ha creduto fino in fondo in questo progetto ed è stato ripagato da grandi ascolti e da critiche molto positive sia in patria, sia all'estero. 

E' un prodotto di alta qualità, una serie d'autore, che merita di essere vista e apprezzata fino in fondo.

Fabrizio Falconi

  

20/06/17

"Taboo", una delle serie televisive dell'Anno - imperdibile.




Taboo è decisamente una delle miserie televisive dell'anno.  Prodotta da Ridley Scott (produttore esecutiva) è ideata da Steven Knight, dall'attore Tom Hardy, che è anche il protagonista maschile e da suo padre Chips Hardy, che è anche consulente produttore. 

Di produzione britannica, la serie viene trasmessa dal 7 gennaio 2017 su BBC One nel Regno Unito, e dal 10 gennaio 2017 su FX, negli Stati Uniti. È stata rinnovata per una seconda stagione e in Italia, va in onda dal 21 aprile 2017 su Sky Atlantic. 

Di forti sapori conradiani, la serie racconta la storia dell'avventuriero James Keziah Delaney che nel 1814 torna a Londra dopo aver passato molti anni in Africa. 

Dopo i funerali del padre, morto in oscure circostanze, James eredita l'intero patrimonio assieme all'isola di Nootka, sulla costa occidentale degli Stati uniti, un territorio la cui posizione strategica conferirebbe la possibilità di commerciare con l'oriente attraverso il pacifico. 

Ben presto dovrà fare i conti con i suoi demoni ed il misterioso passato del padre, fronteggiando la potente Compagnia britannica delle Indie Orientali e la corona inglese, entrambe decise ad ottenere il possesso di Nootka tramite qualunque mezzo.



12/08/15

Torna Twin Peaks, David Lynch e Mark Frost al lavoro !



Per qualcuno, e io sono tra questi, Twin Peaks è davvero l'inizio di tutta l'epopea della moderna serialità tv di alta qualità che rappresenta la vera novità nel linguaggio culturale dei primi anni 2000.

Farà dunque piacere ai molti appassionati di allora - e agli appassionati alle serie di oggi - questa notizia: 

Partiranno a settembre le riprese del sequel di Twin Peaks, thriller cult della Abc del 1990-91, che andrà in onda su Showtime

In pista entrambi i co-creatori della serie, David Lynch e Mark Frost, dopo il momentaneo addio al progetto da parte del regista, annunciato ad aprile via twitter con grande sconforto dei fan. 

Lo ha spiegato il presidente del gruppo Showtime, David Nevins. 

Lynch e Frost stanno scrivendo la nuova stagione, la terza, e lo stesso Lynch dirigerà tutti gli episodi.

"Non ho mai avuto dubbi sul fatto che gli avremmo fatto cambiare idea", ha commentato Nevins parlando del momentaneo forfait del regista. Superato l'intoppo relativo al numero degli episodi - "saranno piu' di nove", ha spiegato Nevins, senza specificare quanti - nel cast "ci saranno molti dei personaggi che il pubblico aspetta, ma anche sorprese"

Resta ancora un mistero la messa in onda, attesa comunque nel 2016.

18/03/15

Su "Fargo". La banalità del male è più forte del male puro.




C'è genialità nella serie televisiva Fargo, del resto dominatrice dei premi della stagione. 

Quanto ci sia dei Coen è facile arguire. Perché l'opera si riconnette direttamente alla filmografia dei fratelli di St. Louis Park e in particolare al loro film omonimo, anche se con parecchie differenze. 

La serie televisiva - in dieci puntate - è una epopea sul male. Lester Nygaard (il bravissimo Martin Freeman) è il prototipo dell'uomo medio: middle class, assicuratore, mediamente sposato senza figli, mediamente infelice. Non intelligente, ma furbo. Deciso - con la forza della disperazione - a riscattare la frustrazione che ha fatto di lui un uomo eternamente vessato. 

Il corto circuito che manda in pezzi la vita di Lester è la capacità di uccidere a sangue freddo (e con violenza inaudita, come capita molto spesso leggendo le cronache dei giornali) l'insopportabile moglie (che lo vessa continuamente e lo giudica), durante un banale litigio.

Da lì comincia una furibonda lotta di Lester contro se stesso e contro tutto il mondo.  Di guaio in guaio entra in rotta di collisione con lo spietato killer Lorne Malvo (Billy Bob Thornton), epigono del male assoluto, uomo che ha scelto convintamente il male come filosofia di vita: l'esistenza è una giungla, le regole non esistono, esiste solo la legge del più forte.  Sopravvive chi è più forte.

Lester se la cava molto bene, e a lungo, per confondere - complice anche una polizia sgangherata, con l'eccezione della poliziotta Molly (Allison Tolman) - le tracce dei suoi misfatti.  Con incredibile nonchalance viola ogni regola morale, tradisce il fratello, lo fa incarcerare, passa sopra ogni affetto e ogni norma primaria di comportamento.

Lo scopo è sopravvivere. Lo scopo è rovesciare la frustrazione e trasformarla in sopraffazione. A scapito dunque di altri frustrati.  Lester  è un ambizioso.  Rappresenta il male banale di Harendtiana memoria, quello che sembra debole e goffo, normale  e prudente e invece è il più devastante. 

La capacità del plot è nell'indurre lo spettatore a schierarsi senza alcuna esitazione dalla parte del malvagio (ma gentleman) Lorne. A indurlo a sperare che sia il male puro a spazzare via quel microbo di Lester e a dargli la punizione che merita, in virtù del patto faustiano che i due hanno stipulato (è stato Lester a chiedere l'aiuto di Lorne, nella prima puntata, perché lo tiri fuori dal casino che ha combinato).

Ma - e qui c'è una avvertenza di spoiler (chi non ha ancora visto la fine, non vada avanti) - non sarà così.  Il sottovalutato Lester - il male banale - è molto più duro a morire e più pervicace di chi è male per istinto, per purezza costitutiva. 

Ad affondare Lester (in tutti i sensi) sarà solo il destino. Il ghiaccio che si sbriciola sotto i suoi piedi e lo inghiotte è una efficace metafora del fatto che prima o poi tutti i giocolieri finiscono per cadere vittime della propria ambizione (il vero male in senso lato).   Non a caso Molly non è ambiziosa. Non è nemmeno così interessata alla carriera. Lo è nel modo giusto, sano. E' una persona che sa stare al suo posto. E' questo, forse che le permette di vedere - l'unica che riesce a vedere - quello che gli altri non vedono. 

In questo senso Fargo è una leggenda morale nera (il tocco leggiadro della narrazione la rende altamente spettacolare) che parla al cuore di ognuno di noi, costringendo a farsi continue domande: cosa si salva ? cosa resta ? perché si è così prigionieri ? perché non si sa apprezzare nulla (dei doni) dell'esistenza ? perché il nostro sistema è così disincarnato ? perché siamo sempre più soli ? perché non riusciamo più a comunicare ? perché non troviamo conforto se non nella nostra dissoluzione ?

Fabrizio Falconi