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11/05/22

La vera travolgente storia d'amore de "La mia Africa" - Karen Blixen e Denys Finch Hatton


E' un film memorabile, La mia Africa, girato da Sidney Pollack, nel 1985 e rimasto nel cuore di molti, insieme al romanzo da cui è tratto, della grande Karen Blixen. 
Non tutti sanno comunque la reale storia che è alla base del romanzo, e del film. 


Karen Christenze Dinesen  era nata in Danimarca 17 aprile 1885 e subito dopo essersi trasferita in Kenya, che all'epoca faceva parte dell'Africa orientale britannica , si era sposata con il barone svedese  Bror Blixen-Finecke a Mombasa il 14 gennaio 1914.  
Dopo il suo matrimonio, divenne nota come Baronessa Blixen e usò il titolo fino a quando l'allora ex marito si risposò nel 1929.

Bror aveva frequentato l'università di agraria ad Alnarp e gestiva la fattoria di Stjetneholm, all'interno della tenuta di Nasbyholm. 

Durante i suoi primi anni, Karen trascorse parte del suo tempo nella casa di famiglia di sua madre, la fattoria di Mattrup vicino a Horsens. 

Karen e Bror progettavano di allevare bestiame nella loro fattoria, ma alla fine si convinsero che il caffè sarebbe stato più redditizio. 

La coppia fondò presto la loro prima fattoria, M'Bagathi, nell'area dei Grandi Laghi. Durante i combattimenti della prima guerra mondiale tra tedeschi e britannici nell'Africa orientale , Bror prestò servizio nelle pattuglie di Lord Delamere lungo il confine del Kenya con il tedesco-tanganika e Karen aiutò a trasportare rifornimenti, ma la guerra portò una carenza di lavoratori e forniture. Tuttavia, nel 1916, la Karen Coffee Company acquistò una fattoria più grande, M'Bogani, vicino alle Ngong Hills a sud-ovest di Nairobi . La proprietà copriva 6.000 acri di terreno. 

Inizialmente, Bror lavorava nella fattoria, ma presto divenne evidente che aveva poco interesse per essa e preferiva lasciare la gestione della fattoria a Blixen per dedicarsi  ai safari.  

A proposito dei primi anni di vita della coppia nei Grandi Laghi africaniregione, Karen Blixen scrisse in seguito, Ecco finalmente che si poteva fregarsene di tutte le convenzioni, ecco un nuovo tipo di libertà che fino ad allora si trovava solo nei sogni! 

Il marito di Karen la tradiva sistematicamente e in breve contrasse la sifilide.

Il 5 aprile 1918, Bror e Karen furono presentati al Muthaiga Club al cacciatore di selvaggina grande, inglese Denys Finch Hatton (1887–1931), che fu assegnato al servizio militare in Egitto. 

Al suo ritorno in Kenya dopo l'armistizio, Hatton sviluppò una stretta amicizia con Karen e Bror. Lasciò nuovamente l'Africa nel 1920. Mentre Bror e Karen si separarono nel 1921. 

Hatton viaggiava spesso avanti e indietro tra l'Africa e l'Inghilterra e visitava occasionalmente Karen, rimasta sola. 

Ritornò nel 1922, investendo in una società di sviluppo del territorio. Dopo la separazione dal marito, lei e Finch Hatton avevano sviluppato una stretta amicizia, che alla fine divenne una relazione amorosa a lungo termine. 

In una lettera a suo fratello Thomas nel 1924, scrisse: "Credo che per tutto il tempo e l'eternità sono vincolata a Denys, ad amare la terra su cui cammina, ad essere felice oltre ogni parola quando è qui e a soffrire peggio della morte molte volte quando se ne va..." 

Ma altre lettere nelle sue raccolte mostrano che la relazione era instabile, e che la crescente dipendenza di Karen da Finch Hatton, il quale era invece intensamente indipendente, era un problema. 

Finch Hatton si trasferì a casa sua, fece della fattoria di Blixen la sua base di partenza tra il 1926 e il 1931 e iniziò a condurre safari per ricchi sportivi. 

Tra i suoi clienti c'era perfino Edward, principe di Galles. Durante un safari con i suoi clienti, Denys morì schiantandosi con il suo biplano de Havilland Gipsy Moth nel marzo 1931.

Blixen registrò la loro partenza. "Quando era partito con la sua macchina per l'aeroporto di Nairobi, e aveva abbandonato il vialetto, è tornato a cercare un volume di poesie, che mi aveva dato e che ora desiderava nel suo viaggio. Si fermò con un piede sul predellino dell'auto, e un dito nel libro, leggendomi una poesia di cui avevamo discusso. «Ecco le tue oche grigie», disse. 

Ho visto oche grigie volare sulle pianure 
Oche selvatiche vibranti nell'aria alta - 
Incrollabile da orizzonte a orizzonte 
Con l'anima irrigidita in gola - 
E il loro grigio candore che snoda i cieli enormi 
E i raggi del sole sulle colline accartocciate. 


Poi si allontanò definitivamente, agitando il suo braccio verso di me». 

Poco dopo, il fallimento della piantagione di caffè, a causa della cattiva gestione, dell'altezza della fattoria, della siccità e del calo dei prezzi del caffè causato dalla depressione economica mondiale , costrinse la Blixen ad abbandonare la sua tenuta. La società di famiglia vendette la terra a uno sviluppatore residenziale e Blixen tornò in Danimarca nell'agosto 1931 per vivere con sua madre. Nella seconda guerra mondiale, aiutò gli ebrei a fuggire dalla Danimarca occupata dai tedeschi. E rimase a Rungstedlund per il resto della sua vita.

09/09/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 38. "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" ("Jeremiah Johnson") di Sidney Pollack (1972)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 38. "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" ("Jeremiah Johnson") di Sidney Pollack (1972)

Corvo rosso non avrai il mio scalpo è uno degli esempi più eclatanti nella storia nefasta della traduzione dei titoli di film stranieri in Italia. I titolisti italiani da sempre, alla ricerca del facile successo al botteghino, si sono sbizzarriti per molti decenni a "inventare" letteralmente i titoli italiani, spesso storpiandone il senso, o semplicemente riducendoli ad altro.  Sulla scia del successo italiano dello spaghetti-western, questa sorte toccò così anche ad uno dei film più evoluti del nuovo cinema americano che negli anni '70, propose pellicole magistrali: quel Jeremiah Johnson (un titolo che dovette sembrare molto poco appetibile per i traduttori italiani) diretto nel 1972 da Sydney Pollack e presentato in concorso al 25º Festival di Cannes, incentrato incentrato sulla figura di un trapper, interpretato da Robert Redford, figura liberamente ispirata alla vita del leggendario Mangiafegato Johnson. 

Il soggetto è tratto dal racconto Crow Killer: The saga of Liver-Eating Johnson (L'uccisore dei Corvi: la saga di "Mangiafegato" Johnson) di Raymond Thorp e Robert Bunker e dal romanzo Mountain Man di Vardis Fisher, con la sceneggiatura scritta da John Milius ed Edward Anhalt. 

Le maestose riprese, in un film coraggioso, quasi completamente privo di dialoghi, vennero effettuate in varie località dello Utah.

La storia è vede protagonista un veterano della guerra messicano-statunitense (1846-48), Jeremiah Johnson, che cerca rifugio nel West. 

Intende intraprendere la vita da mountain man stabilendosi sulle Montagne Rocciose e cacciando animali alla maniera dei trapper. Inizialmente, nel gelido inverno, ha difficoltà a sopravvivere ed ha un breve incontro con Mano Che Segna Rosso, un nativo americano capo della tribù dei Corvi. 

Johnson trova poco dopo un fucile Hawken calibro 12 sul corpo congelato di Hatchet Jack, un altro mountain man, sostituendo così l'inadeguato Hawken calibro 20 in suo possesso.

In seguito Johnson rovina inavvertitamente la caccia all'orso grizzly dell'anziano ed eccentrico Artiglio d'orso Chris Lapp. Dopo le inevitabili diffidenze iniziali, Lapp lo accoglie e gli fa da maestro su come vivere nelle montagne. 

Johnson dimostra la sua abilità nello scuoiare un orso grizzly consegnatogli vivo nella sua capanna da Lapp, quindi, dopo una schermaglia con i Corvi, compreso Mano Che Segna Rosso (amico di Lapp), parte per conto suo. Passando vicino ad un'abitazione nota le chiare tracce di un attacco di guerrieri Piedi Neri che hanno massacrato una famiglia lasciando in vita solo una donna con il figlio più piccolo. 

La donna, impazzita dal dolore, convince Johnson a portare con sé suo figlio, restato muto a causa dello choc subito. A Johnson e al ragazzino, che viene chiamato "Caleb", si aggiunge casualmente un altro mountain man, vittima anche lui dei Piedi Neri, che lo hanno derubato e lasciato seppellito fino al collo sotto al sole. 

Si tratta di Del Gue, che conosce molto bene gli indiani e li teme al punto da radersi la testa per evitarne lo scotennamento. Dopo alcuni giorni di cammino i tre si imbattono proprio nel bivacco dei Piedi Neri. Johnson vorrebbe solo derubarli, ma qualcosa va storto e Del Gue li stermina senza pietà. 

Rimessisi in cammino vengono in contatto con la tribù delle Teste Piatte, indiani cristianizzati che li accolgono come ospiti d'onore per le loro imprese. Quando Johnson offre gli scalpi e i cavalli dei Piedi Neri (i loro mortali nemici), il capo secondo l'usanza delle Teste Piatte si trova obbligato a ricambiare con un dono ancora più grande, così gli dona sua figlia Cigno (Swan nella versione americana) che Johnson, sebbene riluttante, è costretto a sposare. 

Seguono molte altre avventure, in cui protagonista assoluto è il paesaggio. La natura. Da un certo punto di vista, anzi Jeremiah Johnson può essere definito il primo film ecologista della storia, un film che illumina sui disastrosi rapporti tra l'uomo e l'ambiente che lo ospita, dell'uomo come elemento che da preda, diventa cacciatore, quindi distruttore, distruggendo gli altri uomini che si contendono lo stesso territorio, distruggendo gli animali, gli esseri viventi, le piante.  E' di certo l'impatto dell'uomo bianco, da questa prospettiva, è devastante. Il film di Pollack è anche uno dei primi che rovescia, dalla visuale americana, i rapporti tra bianchi e nativi americani, mettendo i bianchi conquistatori di fronte alle loro responsabilità. 

Un film maestoso, che non si smette di ammirare. 



"Corvo rosso non avrai il mio scalpo" 
("Jeremiah Johnson") 
regia di Sidney Pollack,
con Robert Redford, Will Geer
Usa, 1972

04/02/16

"The Revenant" di Alejandro González Iñárritu (recensione).



Ambientato in North Dakota nel 1823, The Revenant (in Italia è stato aggiunta la traduzione 'Il redivivo') è destinato a fare incetta di premi Oscar.

Alejandro González Iñárritu, dopo il trionfo dell'anno scorso con Birdman, ha trovato nel copione di Michael Punke, un soggetto primario, di quelli che piacciono tanto a Hollywood: un uomo lasciato da solo a combattere contro tutto e contro tutti, contro le contrarietà terribili della natura e contro la malvagità degli uomini. 

Leo di Caprio interpreta il trapper Hugh Glass a cui ne succedono di tutti i colori. Partito insieme ad una compagnia di uomini per una raccolta di pelli preziose nei gelidi territori del Nord, sopravvive prima  ad un attacco degli indiani Arikara, che sterminano gran parte dei membri della spedizione, e poi all'assalto di un enorme Grizzly che durante la fuga lo attacca e lo riduce in fin di vita.   Soccorso sul momento dai suoi e caricato su una barella, ben presto si rende necessario abbandonanre l'infermo al suo destino. 

Ma uno degli uomini lasciato ad accurdirlo fino alla fine è il terribile Fitzgerald, che non solo vorrebbe lasciarlo morire, seppellendolo vivo, ma uccide l'unico figlio adolescente, mezzosangue, di Glass, sotto i suoi occhi.

Lasciato da solo a morire, l'uomo riesce a sopravvivere.  Si automedica, si trascina prima sulle mani, poi torna a camminare utilizzando un pesante ramo come bastone, mentre l'inverno scatena tutta la sua furia. 

Il resto del film è il lento ritorno a casa di Glass, dopo l'incontro con un indiano solitario che gli salva la vita e quello con una guarnigione francese a cui riesce a rubare un cavallo. 

Mosso soltanto dal desiderio di vendicare il figlio, Glass fa ritorno al forte dove sono i suoi, solo per mettersi nuovamente in viaggio alla ricerca del criminale, che ha ucciso suo figlio. 

Il film è sontuosamente realizzato, ma è deludente. 

Sulla fattispecie della storia dell'uomo solo contro tutto e tutti, Inarritu non riesce mai a far decollare il film, e nessuna evoluzione emotiva dei personaggi si concretizza in quasi tre ore di racconto. Sembra più che altro un esercizio di stile messo a disposizione per Di Caprio, che occupa militarmente ogni inquadratura in primi e primissimi piani, per consentirgli di vincere finalmente l'agognata statuina. 

Tralasciando l'assoluta inverosimiglianza dei dettagli della storia raccontata, vengono in mente esempi recenti come Cast away di Robert Zemeckis (2000), dall'esito favolistico-narrativo ben più riuscito, o il simile Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) di Sidney Pollack (1972) che aveva ben altro respiro epico. 

Insomma, Inarritu annacqua un po' il suo stile - che resta comunque vigoroso, potente - con ampie concessioni alla sinfonia degli elementi, strizzando l'occhio a Terrence Malick, ma senza la stessa poesia. 

E in effetti sembra proprio l'elemento poetico, quello più assente in questo film, troppo uguale a se stesso dalla prima all'ultima inquadratura. 

Fabrizio Falconi 





23/11/13

"The way we were (Come eravamo)" compie 40 anni. Il film di tutti quelli che si lasciano. Un bellissimo pezzo di Annalena Benini.





Dal 1973, quando uscì Come eravamo, ogni storia d'amore in cui ci si lascia senza smettere di amarsi ha per protagonisti Katy Morosky e Hubbell Gardner, Barbra Streisand e Robert Redford. 

E dal 1973, dalla sera della prima, Barbra Streisand non ha più perdonato Sydney Pollack, che tagliò senza dirglielo (di corsa, in una notte, dopo una proiezione privata in cui nessuno pianse) cinque scene del film. 

Scene politiche, per lo più, ma anche la scena con dentro il vero motivo per cui Katy e Hubbell, la ragazza ebrea, comunista, super impegnata e il ragazzo biondo, sorridente, wasp (che si sono perfino sposati, aspettano un figlio e vivono a Hollywood), si lasciano. 

Con quei tagli Sydney Pollack trasformò Come eravamo in un grandioso successo, in un film eterno, indimenticabile e dimostrò una cosa importante: non lo vogliamo sapere, qual è il vero motivo per cui due che si sono amati così tanto, e detestati, sempre amandosi, si lasciano. 

Vogliamo deciderlo noi. Si lasciano perché sono troppo diversi, si lasciano perché lui l'ha tradita con un'altra, si lasciano perché lei insegue la purezza e l'impegno con troppa ostinazione, si lasciano perché lui non la sopporta più, si lasciano perché lui ha deciso di cedere, di fare compromessi con la vita e non vuole che lei lo guardi mentre svende il suo talento, svende se stesso, ritorna a essere lo smidollato che era prima di incontrare Katy. 

Potevamo scegliere, possiamo scegliere di nuovo e ogni volta, commuovendoci, sempre ripetendo quelle frasi imparate a memoria e adattandole alla nostra vita: "Tu non molli mai, eh", è una di queste, sono le parole che ritornano, Hubbel le ripete a Katy in più di vent'anni d'amore in infinito conflitto, sempre con quell'aria, ammirata e ironica insieme, di chi in fondo vorrebbe essere come lei, così appassionata, seria, convinta e arrabbiata, ma sa già, fin dai giorni lievi dell'Università , che Katy è un'altra cosa. Lui pensa che:«la vita è troppo seria per prenderla seriamente», lei è convinta di dovere e potere cambiare tutto, anche lui («Porta una bandiera o diventerai un vegetale»). 

A lui piace stare a Hollywood alle feste davanti al mare, ma sogna la passione pura di lei, i suoi occhi accessi sul mondo. Lei è sempre arrabbiata, piena di battaglie da combattere, ma sogna il sorriso di lui, gli scosta i capelli dalla fronte, gli stira la giacca bianca da ufficiale, si stira i capelli, per lui si veste da signora elegante, ma non riesce mai a tenere la bocca chiusa, a non litigare. Sono due modi diversi di essere americani, dalla fine degli anni Trenta a New York alla morte di Roosevelt, fino al maccartismo, alle liste nere dei sospettati di essere comunisti. Sono due modi diversi di essere giovani, anche, e poi di lasciarsi alle spalle la giovinezza e diventare per sempre adulti. 

Katy non molla mai, nemmeno con una figlia, nemmeno con la perdita dell'amore della vita. Come ha scritto Francesco Piccolo nel suo ultimo libro, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), Hubbel sa benissimo che, alla fine chi tra loro due è migliore, è lei. 

Forse lo sa dall'inizio. Mentre la guarda distribuire volantini a Manhattan e invitare a firmare contro la bomba atomica con lo stesso entusiasmo con cui vent'anni prima arringava gli studenti all'Università contro il fascismo. Hubbel la guarda, e capisce che lei non ha rinunciato all'intensità, del resto non avrebbe potuto, non l'ha fatto nemmeno per un grande amore. 

Scrive Piccolo che Katy "ha conservato, dentro, la testardaggine dell'impegno politico, la sua giovinezza". Mentre Hubbel è diventato un adulto disincantato, ben pagato, deciso a fare per sempre in modo che le cose che succedono nel mondo non succedano a lui personalmente (Robert Redford non voleva girare questo film, non voleva essere Hubbel: si sentiva troppo scemo, troppo pin up, Pollack lo convinse per sfinimento).

Se Sydney Pollack non avesse tagliato la scena cruciale adesso avremmo la certezza che ci si può lasciare per un motivo preciso, e quindi ci saremmo immedesimati di meno, di volta in volta in Katy, o in Hubbell, o desiderando essere Katy e sentendoci superficiali come Hubbell: si lasciano (ma davvero abbiamo bisogno di saperlo, adesso?) perchè Katy è entrata nella lista nera dei sovversivi. 

Un suo compagno di università, quello che era evidentemente innamorato di lei fin dalla prima scena, quello che lavorava con lei nella Lega dei giovani comunisti, è diventato un informatore del governo, e in questa caccia alle streghe Katy è considerata una pericolosa comunista, moglie di uno sceneggiatore che quindi potrebbe essere stato contagiato dall'ideologia. 

Sta per venire messo nella lista nera anche lui, e gli verrebbe impedito di lavorare. E'  lei a dirgli: «Ma esiste il divorzio», e lui scuote la testa, ma è già rassegnato. Quella scena spiegava molte cose, ma non commuoveva, non colpiva al cuore, Pollack la tolse.

E in fondo, forse, non spiegava niente di più: loro si lasciano davvero perché sono troppo diversi, hanno scopi diversi, perché lei resta pura e «spinge troppo», come la rimprovera lui, perchè stare con lei è facile solo in confronto alla Guerra dei Cent'anni, perché lui ha amici troppo stronzi. 

Lui avrebbe potuto dire: al diavolo questi cafoni di Hollywood, torniamo a New York, andiamo in Francia come piace a te, facciamo questo figlio e amiamoci e basta, scriverà un libro bellissimo. Non l'ha fatto. 

Per questo Come eravamo è il film sull'impossibilità di un amore puro, senza compromessi, pieno soltanto di certezze e di luci accese e di giovinezza. "Sei proprio tanto certa delle cose di cui sei certa?", le chiede Hubbel, che non è davvero una pin up, che sa vedere i due lati di un problema. Lei è sempre certa, lui mai.

Ma alla fine è lei ad accettare la realtà . Come eravamo è il film di tutti quelli che si lasciano, e che guardano indietro con struggimento, con nostalgia, al tempo perduto della purezza. 

«Vorrei che ci si potesse amare», dice Katy: è questo il punto, è questa la cosa più difficile di tutte, per cui nemmeno l'amore può bastare. E' per questo che non importa più il motivo preciso per cui ci si è lasciati, e forse non importa mai: la verità è che ci si è amati, e poi non ci si è più potuti amare.