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11/11/14

"Facebook, l'orrore e l'incanto" - di Sandra Petrignani.



Facebook, l’orrore e l’incanto 
di Sandra Petrignani
Il Foglio

“Da quando ho letto ‘Se niente importa’ di Jonathan Safran Foer non sono più riuscita a mettere una bistecca in bocca”, mi ha detto un’amica. “Nemmeno io”, ho risposto. 

Lo scambio, però, non avveniva a tu per tu o al telefono, ma su Facebook, ed ecco che in pochi minuti ai nostri commenti se ne aggiungevano molti altri di convinti vegetariani o viceversa di irrecuperabili mangiatori di carne, che contestavano le posizioni animaliste dello scrittore americano, e di altri ancora che non avevano mai sentito parlare di quel libro e sarebbero corsi a comprarlo grazie al piccolo, insignificante scambio di battute fra noi. 

Perché Fb è così: getti un sasso nello stagno e i cerchi, quando l’argomento è sentito, si allargano a dismisura e la tua chiacchiera a due diventa dibattito pubblico, hai l’impressione di appartenere a una comunità, di essere seduto accanto al fuoco a scambiare racconti della tua vita e di quella altrui come si faceva prima dell’epoca dell’incomunicabilità. 

E’ l’orrore e l’incanto di questa geniale invenzione del mondo contemporaneo: tornare a vivere in piazza, e non nella piazzetta del paese, ma in una piazza globale dove puoi farti i fatti del vicino di casa, che non hai mai visto, nemmeno sai che è proprio il tuo vicino di casa, come quelli di uno sconosciuto che vive all’altro capo del pianeta.

Non era questo all’inizio il progetto del giovane inventore Mark Zuckerberg, studente di Harvard che, con un paio di amici, nel febbraio del 2004 voleva solo mettere in contatto fra loro gli iscritti alla sua università perché potessero scambiarsi alla grande notizie utili allo studio, prendere appuntamenti, dividere i costi di un appartamento. 

Fare, insomma, via rete ciò che facevano anche prima stringendo amicizia sui prati del campus o nei frequentatissimi baretti di Harvard Square o affiggendo bigliettini nelle varie bacheche dei vari istituti. Non è certo un caso che la pagina-profilo su Facebook si chiami, appunto, “bacheca” (wall) e che il sito prenda il nome dall’annuario che raccoglie le fototessera degli studenti, il face book con cui abbiamo familiarizzato attraverso tanto cinema americano. 

Non immaginava il geniale Mark dal viso cavallino e le guance implumi che nel giro di dieci anni avrebbe invaso la terra intera e superato i 500 milioni di utenti per un fatturato di 1,1 miliardi di dollari. Perché oltre agli harvardiani si sono mano mano registrati al servizio anche gli studenti di altre università americane, e poi quelli europei e poi quelli delle scuole superiori e a un certo momento (alla fine del 2006 più o meno) non erano più solo studenti, ma dai tredici anni in su chiunque dotato di duttilità tecnologica poteva connettersi a Fb. 

Cosicché, inevitabilmente, i contenuti iniziali finivano con il modificarsi. “Facebook ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita” è lo slogan del sito. E forse per questo i detrattori pensano, senza saperne molto, che “ritrovare i vecchi compagni di scuola” ne sia lo scopo principale. “Cosa vuoi che me ne importi di riprendere i rapporti con persone che conoscevo a sei anni! Se le ho perse di vista ci sarà una ragione”, mi dicono amici perplessi e ostili alla mia passione per il social network secondo solamente a Google, stando al numero di visitatori. 

Ma che c’entrano i compagni di scuola! mi tocca spiegare ogni volta: ne ho ritrovata una sola di compagna di scuola, due va’. A parte il fatto che sono proprio le due compagne di scuola che mi fa piacere frequentare, Facebook non è una triste festa planetaria di “ex amichetti d’asilo cinquant’anni dopo”, tanto è vero che gli utenti più attivi sono giovani e giovanissimi, che l’asilo se lo sentono troppo vicino per provarne nostalgia. Ma allora che diamine è questo Facebook? E soprattutto: “Cosa ci trovi di così attraente?”, mi viene chiesto con incredulo sconcerto ogni volta che mi dichiaro dipendente dal popolare “gioco” di società virtuale, che sta ridisegnando il modo di stringere relazioni fra le persone. 

Buone domande a cui non è per niente facile rispondere. Ci proverò cominciando dall’inizio della mia, chiamiamola, “militanza feisbuchiana”. Innanzitutto devo spiegare che non appartengo alla pattuglia della prima ora: mi sono affacciata sul sito, per altro frenata dalle stesse resistenze e dagli stessi sospetti dei miei amici più critici, solo un anno e mezzo fa, quando una giovane editor mi convinse che per uno scrittore far circolare su Facebook i propri libri è un ottimo investimento pubblicitario. Insomma ero animata, lo confesso, unicamente da spirito affaristico e se non fosse stata lei stessa, quella intraprendente ragazza, a iscrivermi mostrandomi quanto fosse facile entrare a far parte della modernità tecnologicamente più avanzata, sarei ancora lì a chiedermi: mi butto o non mi butto? Mi sono buttata. 

E, subito lasciata a me stessa, ho capito che potevo nuotare senza problemi anche ignorando totalmente i segreti di parole misteriosissime come “tag” (con annesso verbo “taggare”), come “poke” (con annesso “pokare”). Anzi ancora oggi qualche dubbio lo conservo e sulla questione “taggare” non ho ben capito se è l’andare importunando le persone imponendo loro la lettura di nostre “note” o se, più semplicemente, il tag è la scrittura del loro nome dentro una fotografia in cui compaiono o se l’una e l’altra cosa. 

Il risultato non cambia: ho imparato a taggare a più non posso nell’una e nell’altra direzione. Quanto al poke, me l’ha spiegato mio figlio, per motivi generazionali più a suo agio di me dentro l’universo dei naviganti internettiani. “Poke” mi ha detto “è fare così” e mi ha dato con un dito una spintarella sulla spalla. E dunque? ho chiesto continuando a non capire. “Ma sì, è un modo per attirare l’attenzione. Tu mandi un poke a qualcuno e quello si accorge di te. E’ come un saluto”. Ma insomma qui non siamo l’Accademia della Crusca, non tuteliamo l’integrità della lingua e, dunque, se proprio volete saperlo, quando qualcuno su Facebook riceve un poke, e lo ricambia, per una settimana consentirà al pokante di curiosare nel suo profilo (o bacheca che dir si voglia). 

E adesso veniamo al nocciolo: cosa succederà mai su queste “bacheche”? Di tutto, di più. Qui sta il bello: tu credi di piegare ai tuoi interessi l’intero trappolone convincendo a comprare i tuoi prodotti i pochi o tanti “amici” che sei riuscito ad accalappiare in rete, e presto, se non subito, la trappola scatta su di te. 

E se non scatta, mi chiedo, che ci stai a fare su Fb? Se non scatta, non ti diverti. Se non scatta, se non ti fai invischiare, se stai lì a difenderti e a fare il sostenuto, se non dai qualcosa di te di autentico, se sei un tipo freddo che gli altri devono stare al loro posto e guai se si avvicinano, se sei pauroso di tutto e di tutti e fai il prezioso, sempre con la puzza al naso, sempre lì a valutare “chi mai sarà questo sconosciuto/a che mi chiede l’amicizia, gliela do o non gliela do”… se insomma, come certi innamorati che non vogliono scoprirsi e fanno gli indifferenti finché l’amata si scoccia e sceglie un altro, stai su Facebook con l’aria di non starci, con la paura di perdere tempo, con il contagocce, non saprai mai cosa può succedere fra una bacheca e l’altra, nella ragnatela indistricabile di rapporti virtuali che qualche volta (spesso) diventano reali e di rapporti reali che, diventando virtuali, finalmente si approfondiscono. 

Mi rendo conto che, a chi non lo pratica, non ho ancora chiarito niente del complesso sistema di relazioni messo in campo da Fb. E allora un poco di casistica. Una volta iscrittisi a Facebook si deve andare a cercare nomi di persone note (solo a noi o in generale) già interne al “gioco” chiedendo loro l’amicizia per costituire un proprio gruppo di persone con cui interagire. Ognuna di queste persone possiede un suo tesoretto di nomi (corredati di simboli, foto, disegni che le rappresentano) che possono essere messi in comune, previo accordo degli interessati. 

C’è chi cerca solo persone che conosce già nella vita vera, o comunque garantite da presentazioni affidabili, e chi si lascia incuriosire dagli sconosciuti, purché simili a lui, e chi non si fa impressionare negativamente neppure dagli elementi che nel suo gruppo sociale vengono generalmente banditi: un modo ruspante di proporsi, una battuta ingenua, una foto scollacciata, un tatuaggio selvaggio… Inutile dire che a maggior apertura corrisponde più grande divertimento. Ma siccome la natura umana è selettiva e conservatrice e simile chiama simile, ecco che poi all’interno anche del più sterminato campo-amicizie finiranno per legare solo quelli che hanno gusti, idee politiche, cultura analoghi. Insomma uno può arrivare a totalizzare anche cinquemila amici (limite massimo consentito) ma a interagire sul serio e assiduamente è grasso che cola se saranno in cinquecento. 

Ancora un po’ di esempi: c’è chi lancia temi di discussione e chi va a ruota. C’è chi ama polemizzare e chi butta acqua sul fuoco, c’è chi discute solo di politica e chi propone spezzoni di film, canzoni, brani teatrali (attraverso i video YouTube) o proprie immagini. Chi scrive poesie e le sottopone al giudizio della comunità, chi invita a feste, presentazioni di libri, degustazioni, sfilate di moda e chi cerca appartamenti al mare. 

Chi scrive articoli per i giornali e li rilancia sul suo profilo (il suo wall) dove avrà il piacere di vederli discutere da una massa di gente, spesso molto agguerrita e intelligente, non sempre e comunque adorante e acritica. Chi si mobilita per qualche (giusta?) causa, chi denuncia, chi informa, chi chiama a raccolta per scendere in piazza, chi fa propaganda elettorale (uno stuolo – in genere noioso – di politici noti, notissimi o alle prime armi accompagnati da slogan e bandiere), chi dà lezioni di cucina, chi sistema cani randagi, chi commenta in diretta una trasmissione televisiva, chi si sfoga per i tradimenti del coniuge e chi cerca nuovi innamorati/e. 

Chi non ha inventiva e si affida a scambi preconfezionati con invii (virtuali, ma a pagamento) di mazzi di fiori, orsacchiotti, cuoricini… Dove altro puoi andare di corsa a dirne quattro a David Sassoli perché ha votato a favore di una vergognosa legge sulla vivisezione al Parlamento europeo (e lui sta faticosamente cercando di spiegare le sue ragioni) o congratularti con Vito Mancuso, se sei d’accordo con le sue posizioni, perché lascia la Mondadori? 

Fai amicizia in quattro e quattr’otto con Michela Murgia e le dici quanto ti è piaciuto il suo libro e lei ti risponde un ovvio “grazie”, o qualcosa di articolato dedicato esclusivamente a te, se sei stato capace di interessarla (perché, per esempio, Michela Murgia, grande esperta di blog e comunicazione in rete, è di quelli che non si risparmiano: non lo faceva prima da semisconosciuta, non lo fa adesso che ha vinto il Campiello). Ma, soprattutto, Facebook dà i superpoteri. Questo è il segreto del suo successo. 

Diventi ubiquo: puoi festeggiare il matrimonio di un tuo lontano parente in uno sperduto villaggio degli Stati Uniti e insieme trovarti a Ibiza a condividere la vacanza di tua sorella. Ti fai invisibile: puoi controllare i figli che si danno appuntamento per il sabato sera e verificare se il tuo amante fa il cascamorto con le altre. Hai superudito, supervista, superenergie. Puoi cambiare personalità, identità, persino sesso senza ricorrere alla chirurgia. 

Eppure su Facebook vengono a galla pregi e difetti, la generosità o la supponenza dei vari tipi psicologici, che si tratti di soliti noti o di imprevedibili ignoti. C’è chi viene inseguito e chi insegue in modo anche indipendente dalla notorietà acquisita altrove. Non che il mito del successo non alligni in rete come negli altri mondi, ma la possibilità di strappare la maschera e guardare cosa ci sia dietro al personaggio famoso è a disposizione di chi non si lasci incantare. 

E la bella sorpresa è che di gente autonoma, gentilmente critica, attenta e sensibile è pieno il mondo di Fb quanto di cretini, invadenti e opportunisti. Ma con un clic puoi liberarti dello scocciatore senza strascichi. E adesso la domanda delle domande: è davvero una rivoluzione il modo di stare insieme su Facebook o solo un’illusione collettiva di amicizie inesistenti, di compagnie fittizie? Sposta qualcosa nell’inconscio collettivo, nel modo di informarsi e costruirsi idee autonome su ciò che ci circonda o non sarà la pericolosa anticamera di uno spropositato narcisismo alla portata di tutti, un’immaginaria fabbrica di scatenati egocentrismi, un contagiarsi inutile per blaterare rivendicazioni al vento, un’invasione senza limiti della privatezza, del segreto delle persone? Che ricadute avrà tutto questo sulla vita vera della gente? E, soprattutto, qual è a questo punto la vita vera e quella falsa? 

Vale di più avere un vicino di cui non sappiamo niente e al quale non rivolgeremmo mai la parola sul pianerottolo perché è di destra e noi siamo pervicacemente di sinistra, o ritrovarselo amico su uno schermo imparando che fiori preferisce, chi ha amato alla follia, di che cosa sta soffrendo e scoprirci capaci di una viva simpatia perché come noi si getterebbe nel fuoco per salvare un gatto? In un recente articolo sul Corriere della Sera Maria Laura Rodotà riferiva le tesi di Stephen Coleman, un sociologo che a Londra studia la “cittadinanza digitale” e che non è per niente ottimista sulle ricadute sociali dell’impegno dimostrato in rete dagli under 40 (non più precisamente riconoscibili nelle tradizionali categorie di sinistra e di destra): si mobilitano su temi specifici ma senza capacità di organizzare una militanza attiva, agitano opinioni in rete facendo proseliti senza incidere sul reale perché non sono in grado di elaborare proposte politiche concrete. 

Prova ne sia la parabola di Obama, eletto grazie all’appoggio dei social network da persone che non sanno andare oltre la configurazione del “fan” e che non hanno elaborato strategie per sostenerlo nel tempo.

Ora, siccome Maria Laura Rodotà è anche un’attiva presenza su Facebook con un parco amici di poco inferiore ai fatidici cinquemila, il suo articolo ha subito suscitato una discussione in rete rilanciata da un altro giornalista e scrittore, Fabrizio Falconi, portatore di una visione meno pessimista, e i commenti si stanno moltiplicando.

Il famoso sasso nello stagno. E se ogni causa ha un effetto, anche gli infiniti cerchi provocati dal quotidiano dibattito feisbuchiano da qualche parte andranno a parare. La comunità digitale avanza, né più buona né più cattiva di quella reale, né particolarmente diversa negli usi e costumi, ma avanza, con qualche inevitabile, magari per ora impercettibile, slittamento verso il nuovo. 

Il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil avrebbero di che sbizzarrirsi manovrando un’arma potente come il computer e un teatro umano vasto come quello di una rete digitale per manipolare i destini amorosi delle loro vittime. Sono relazioni pericolose, molto pericolose, tanti scambi fra amanti spiati da mogli e mariti gelosi sotto false identità (chiunque può aprire un profilo con un nome di fantasia), ma si sa anche di storie d’amore risbocciate fra partner di vecchia data che avevano ripreso ignari a corteggiarsi, sotto altro nome, riscegliendosi inesorabilmente fra sterminate nuove possibilità… 

Chissà se Zuckerberg aveva previsto almeno questo nell’inventare la sua micidiale macchina: la possibilità di moltiplicare gli scenari delle vicende sentimentali, complicarne gli strazi, pervertirne le delizie, centuplicare gli equivoci. Nell’altalenante pendolo fra virtuale e reale, se un social network non riesce a far trionfare un presidente (o viceversa a decretarne la fine) almeno produce il flusso multicolore di tante storie possibili, il grande romanzo di un’umanità chiacchierona e invadente che, minacciata dall’incomunicabilità, dalla separazione, dall’individualismo, ha trovato la via di fuga (o di salvezza, chissà) di una perenne, promiscua compagnia. 

23/07/14

I bambini di Silicon Valley (The Children of Silicon Valley) : un illuminante post di Robert P. Harrison sul mondo digitale.




Pubblico questo articolo scritto da Robert Pogue Harrison per il blog di The New York Review of Books.  E' un piccolo saggio pieno di spunti e riflessioni illuminanti sul nuovo mondo di Silicon Valley: Google, i social network, il sistema digitale che sembra aver inghiottito le nostre vite.  

The Children of Silicon Valley

Robert Pogue Harrison


In the new HBO comedy Silicon Valley, almost every new start-up representative at a high-tech conference ends his presentation with the programmatic words, “and this will make the world a better place.” When Steve Jobs sought to persuade John Sculley, the chief executive of Pepsi, to join Apple in 1983, he succeeded with an irresistible pitch: “Do you want to spend the rest of your life selling sugared water, or do you want a chance to change the world?” The day I sat down to write this article, a full-page ad for Blackberry in The New York Times featured a smiling Arianna Huffington with an oversize caption in quotes: “Don’t just take your place at the top of the world. Change the world.” A day earlier, I heard Bill Gates urge the Stanford graduating class to “change the world” through optimism and empathy. The mantra is so hackneyed by now that it’s hard to believe it still gets chanted regularly.
Our silicon age, which sees no glory in maintenance, but only in transformation and disruption, makes it extremely difficult for us to imagine how, in past eras, those who would change the world were viewed with suspicion and dread. If you loved the world; if you considered it your mortal home; if you were aware of how much effort and foresight it had cost your forebears to secure its foundations, build its institutions, and shape its culture; if you saw the world as the place of your secular afterlife, then you had good reasons to impute sinister tendencies to those who would tamper with its configuration or render it alien to you. Referring to all that happened during the “dark times” of the first half of the twentieth century, “with its political catastrophes, its moral disasters, and its astonishing development of the arts and sciences,” Hannah Arendt summarized the human cost of endless disruption:
The world becomes inhuman, inhospitable to human needs—which are the needs of mortals—when it is violently wrenched into a movement in which there is no longer any sort of permanence.
The twenty-first century has only aggravated the political, moral, social, and environmental concussions of the twentieth. There would be reason to applaud the would-be world-changers and start-up companies of Silicon Valley if they made it their business to resist or reverse this process of planetary upheaval, the way environmentalists seek to do with the wounds we have afflicted on nature. Sadly they have no such militancy in their souls, nor much thoughtfulness. With a few exceptions, our new tech armies rarely take the time to think through what they are doing. Or if they do, they tend to think in ways that only add to the turmoil and agitation.
Silicon Valley, and everything it stands for metonymically in our culture, has indeed affected billions of people around the planet. The innovations have come fast and furious, turning the past four decades into a series of “before and after” divides: before and after personal computers, before and after Google, before and after Facebook, iPhones, Twitter, and so forth. In the silicon age, “changing the world” means at bottom finding new and more ingenious ways to turn my computer or smart phone into my primary—and eventually my only—access to “reality.”
In truth Silicon Valley does not change the world as much as it changes my way of being in it, or better, of not being in it. It changes the way I think, the way I emote, and the way I interact with others. It corrodes the worldly core of my humanity, leaving me increasingly worldless. (I do not consider the Internet’s Borg collective, with its endless drone of voices, a world, any more than I consider social media a human society; those who do not see the difference have already been assimilated.) Thoreau wrote: “Be it life or death, we crave only reality.” If only that were unconditionally true. Alas, Silicon Valley has enriched its coffers thanks largely to a contrary craving in us—the craving to trade in reality for the miniature screen of the cell phone.
In “Change the World,” a splendid New Yorker article published in 2013, George Packer mentions an employee at a high-tech firm who refused to take time away from work to hear what President Obama, who was visiting the campus, had to say. “I’m making more of a difference than anybody in government could possibly make,” the employee reportedly told a colleague. There are not many places in the world—maybe only one—where an employee can expect an absurd utterance like that to be taken seriously, and where children, metaphorically speaking, believe that adults need their guidance and tutelage. Speaking of the pastoral campuses of companies like Google and Facebook, Packer writes:
A polychrome Google bike can be picked up anywhere on campus, and left anywhere, so that another employee can use it. Electric cars, kept at a charging station, allow employees to run errands.… At Facebook, employees can eat sushi or burritos, lift weights, get a haircut, have their clothes dry-cleaned, and see a dentist, all without leaving work. Apple, meanwhile, plans to spend nearly five billion dollars to build a giant, impenetrable ringed headquarters in the middle of a park that is technically part of Cupertino. These inward-looking places keep tech workers from having even accidental contact with the surrounding community.
These heterotopias, with their teenage dress codes, situate themselves neither inside nor outside the public sphere. The companies that create such “frictionless” environments for their employees expect them to have an unlimited devotion to their jobs. Almost everyone who works for one of these companies in fact overworks in optimal working conditions, at the expense of their private, social, and public lives. Villiers de L’Isle-Adam’s famous remark—“As for living, our servants will do that for us”—would make an appropriate motto for many of them.
The high-tech campus is the setting of Dave Eggers’s The Circle, which aspires to be the great dystopian novel of Silicon Valley and its dream of total connectivity. Reading this book makes one wonder whether Silicon Valley could ever inspire a good novel. It can inspire good comedy, as in Mike Judge’s HBO series Silicon Valley, whose caricatures are highly effective. People who work in Silicon Valley tend to love this show precisely because its over-the-top portrayals of the most infantile and socially dysfunctional aspects of the tech start-up culture are eerily on the mark. Silicon Valley captures a truth that masquerades as farce, yet farce and truth in this case are almost indistinguishable.
Eggers’s transpicuous allegories in The Circle have no such cutting edge. As one perceptive employee at Google remarked to me, it is hard to tell whether the novel wants to parody Silicon Valley or the clichés of its critics. Eggers is otherwise an excellent writer, which makes one wonder why this particular novel is so flat. From a literary point of view it seems colonized by the totalitarianism of transparency that its fictional high-tech company, with its presumptions of a higher moral mission, seeks to impose on its workers, and on the world at large, which of course it wants to change. Eggers’s story suffers from a similar syndrome as its protagonist, Mae Holland, a young college graduate who lands a desirable job at The Circle. She believes that her life is full of excitement, yet in truth the more engrossed she is in her work the more vapid she gets. When Mae’s childhood friend Mercer chides her at a family gathering for not being able to tear herself away from her cell phone, he infuriates her by pointing out something she refuses to believe: “Mae, do you realize how incredibly boring you’ve become?”
It’s not Mae’s fault. Becoming a boring human being is the fate of most people who keep the tech economy’s lights burning deep into the night. These industries may be among the most vibrant and dynamic in the world, yet those inside the hive are among the most tedious people in the room, endlessly plugging into their prosthetic devices. The bad news is that their employers excel at finding ways to make those devices, in their continuously updating versions, universally available.
You shall know them by their fruits, Jesus says in Matthew 7:16. From the point of view of the world we share in common, the fruits in question are altogether tasteless. I have seen young teenagers who just yesterday were ebullient, verbal, interactive, and full of personality turn into aphasic zombies within three months of getting a smart phone or an iPad. The new wine is dying on the vine, and Dionysos, the telluric god of ecstasy, is nowhere in sight. It is unlikely that the next big digital innovation will lure him back.

14/10/13

Bauman a Milano: La felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli.




"Devo deludervi, non sono un guru", ha esordito Zygmunt Bauman, aprendo il suo intervento milanese a Meet The Media Guru: "non vi dirò come condurre la vostra vita". La conferenza di Bauman, uno dei maggiori pensatori viventi, ha toccato molti aspetti centrali della nostra condizione di esseri umani, a cominciare dal rapporto con la vita digitale. Secondo il sociologo, la nostra esistenza ha conosciuto, con la rivoluzione digitale, l'impatto con una divisione, quella tra online e offline, che ci ha imposto di vivere allo stesso tempo in due differenti dimensioni. In questo contesto, i bambini incontrano Internet ormai già a 4 anni e crescono senza nemmeno poter immaginare che la connessione al Web possa non esserci, tanto il nostro rapporto con la vita online è diventato stretto. La Rete, per Bauman, è parte del progresso, ma porta con sé anche un numero di "perdite collaterali". L'automatizzazione del lavoro, ad esempio, causa diminuzione di posti di lavoro "umani" sia nell'industria pesante che nel lavoro intellettuale, ha puntualizzato Bauman: "i server stanno immagazzinando la nostra conoscenza e la nostra capacità di memorizzare sta scomparendo".

Per esemplificare questa dicotomia tra guadagno e perdita dovuta al progresso, Bauman ha citato Mark Zuckerberg e l'incredibile successo di Facebook: il social network ha intercettato la nostra paura di non essere visti ed essere soli e ha fondato il suo successo sull'allontanamento di questa paura: "il fondamento delle relazioni online è la soddisfazione", ha specificato Bauman, "e le relazioni diventano estremamente fragili". Facebook ci dà un "gadget" che ci fa credere di poter incontrare 500 amici in un giorno stesso, "io non sono riuscito a farne altrettanti in 80 anni di vita", ha scherzato Bauman. "Il problema con Facebook e gli altri social network è che promettono esattamente quello che il progresso promette: rendere la nostra vita più semplice". Questo meccanismo si presenta anche nella gestione delle relazioni umane e sentimentali. Per Bauman, i social media servono, ad esempio, a rendere semplice la conclusione della relazione con un'altra persona, superando le dinamiche del mondo "offline". Ma siamo davvero felici di questa possibilità? Per Bauman la risposta è no: "la felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli".

La Rete, però, nella visione di Bauman porta con sé anche vantaggi, come la disponibilità quasi infinita di conoscenza: "con un click, Google ci presenta due milioni di risposte, un numero che non potremmo consultare nemmeno in tutta la nostra vita". Anche questo aspetto, però, ha un prezzo: l'impazienza e la perdita della capacità di conservare conoscenza "dentro di noi". Sono i server a conservare il nostro sapere, noi possiamo solo consultarlo e questo "avrà un effetto negativo sulla nostra creatività".

Per Zygmunt Bauman, Internet ci fa vivere "senza rischi", consentendoci di relazionarci solo con persone che la pensano come noi e condividono il nostro punto di vista: "le persone diventano così nostri specchi", ha spiegato Bauman; in caso contrario, "clicchiamo il tasto 'delete' e passiamo a un altro sito". Ma come uscire da questa condizione? Per l'autore della "vita liquida" una risposta è piuttosto ovvia: "parlando gli uni con gli altri e dimostrando interesse nel dialogo" per mantenere vivo l'interesse nei confronti di chi la pensa in modo diverso, evitando opinioni preconcette. La seconda soluzione è "essere aperti", dando inizio a un dialogo tenendo viva la possibilità che le nostre opinioni possano essere sbagliate. La terza possibilità è la cooperazione: "il dialogo non deve servire a far prevalere il nostro ego", ha spiegato Bauman, "perché nel dialogo con il diverso non devono esserci né vincitori, né vinti". Queste "arti" sono messe a repentaglio da Internet, nella visione di Bauman. Allo stato delle cose, riscoprire queste capacità di dialogo nei confronti del diverso è una questione "di vita o di morte" per il nostro futuro perché, ha chiosato Bauman, "Il futuro non esiste, il futuro va creato".

23/09/13

Cosa diciamo quando diciamo 'Mi piace' (o 'Non mi piace) ?





Sento spesso dire, ultimamente: questo Papa mi piace (o non mi piace);  eppoi sento dire Matteo Renzi ? Non mi piace (o mi piace);  E ancora: Napolitano ? mi piace, Balotelli ? Non mi piace. La Kyenge ? Non mi piace. 

Ecco ma mi viene da chiedere: ma cosa è questa cosa che ci fa dire 'mi piace'?

Mi sembra fin troppo facile dire che il  format di un social network a diffusione planetaria sta condizionando pesantemente anche il nostro modo di pensare.

Cosa diciamo esattamente quando diciamo mi piace ? Cosa vogliamo dire ? Cosa vogliamo comunicare ?

Il mi piace è il compito ordinativo, fondativo cui siamo chiamati oggi. Un rituale dell'interrogazione -monocorde, vieto - che sembrerebbe l'unico modo per vestirci di una personalità.

Attraverso i mi piace e i non mi piace, possiamo illuderci di vestire una identità precisa, o più o meno precisa che ci differenzi - si spera - dagli altri. O ci uniformi, il che va bene lo stesso.

Ma il piacere o non piacere deriva appunto e soltanto dal piacere: puro godimento esteriore. Diciamo mi piace se qualcosa o qualcuno ci dà una sensazione di piacere, di soddisfazione.  Diciamo non mi piace, se ci disturba, o non ci soddisfa o non ci gratifica. 

E spesso, sempre più spesso, non abbiamo nemmeno il bisogno, non sentiamo nemmeno l'esigenza di dover giustificare (non parliamo poi di argomentare) questo mi piace o non mi piace: è così è basta.  Cosa vuoi spiegare. Puro istinto, pura formulazione transitiva o non transitiva. La mia epidermide me lo dice, non mi star a chiedere perché.

Ma davvero il pensiero, il pensiero umano può ridursi a questo ?

Dovremmo forse interrogarci cosa (ci) dice questo mi piace e questo non mi piace.
Le cose che non ci piacciono nascondono mondi che nemmeno immaginiamo, quelle che ci piacciono, forse, paludi delle quali non siamo nemmeno consapevoli. 
E come sempre, è tutto dentro di noi (e non sulla superficie).
Solo che, come sempre, non vogliamo vederlo.


Fabrizio Falconi