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06/10/20

L'amore di Kierkagaard (sfortunato)

 


L'AMORE DI KIERKEGAARD

Una delle vicende d'amore che hanno caratterizzato maggiormente la storia della filosofia è sicuramente quella tra Soren Kierkegaard e Regine Olsen.
Quando aveva 27 anni, nel 1840 Kierkegaard si fidanzò con la diciottenne Regine Olsen (nata nel 1822, quindi diciottenne, anche lei ultima di sette figli), ma, dopo circa un anno, pur essendo innamorato, ruppe il fidanzamento.
Un mistero rimasto insoluto. Forse Kierkegaard non voleva ingannare la ragazza, avendo il timore ossessivo che la maledizione divina potesse gravare anche sulla famiglia che avrebbe formato insieme a lei, o forse pensava che la serietà della fede cristiana gli impedisse di "sistemarsi" nei panni di un tranquillo uomo sposato.
Come è noto, il padre di Kierkegaard era fermamente convinto di essere stato maledetto da Dio quando, giovane pastore nella valle dello Jutland, aveva bestemmiato Dio durante una terribile tempesta. L’uomo dopo aver patito la fame, riuscì a diventare un abile mercante benestante. Il Signore, credeva l’uomo, non aveva deciso di punire lui direttamente, ma di condannarlo a vedere morire i propri figli, uno dopo l’altro, tutti in giovane età, dopo che li aveva amati.

Søren le conosceva la convinzioni paterne, e certamente ne fu condizionato. Sentiva che mai sarebbe stato felice nella vita, credeva di doversi aspettare in qualsiasi momento qualche funesta sciagura che si sarebbe abbattuta su di lui, su chi gli era vicino, su chi amava: anche sulla dolce Regine.
Regine si disse pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fece il possibile per apparirle disgustoso, in modo che cadesse su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che peraltro gli procurò rimpianto per tutta la vita.
Lei voleva sposarlo ad ogni costo, nonostante tutto e gli chiese il permesso di rimanere con lui “anche se avesse dovuto starsene chiusa in un piccolo armadio”. Lui quasi impazzì dal dolore. Una straziante angoscia. Lei tentò il suicidio ma poi, dopo alcuni anni si rassegnò e si rifece una vita.

Sposò il suo vecchio precettore Johan Frederik Schlegel, Søren ne rimase addolorato. L’incubo che temeva da giovane si era concretizzato.
Pare che i due si siano incontrati per l'ultima volta il 17 marzo del 1855, pochi mesi prima della morte del filosofo.
Regine doveva seguire il marito alla volta delle Indie occidentali, per fare ritorno chissà quando. A ridosso della partenza si appostò nel centro cittadino, nella speranza di scorgere il suo vecchio fidanzato.
Non appena lo vide, gli sussurrò con un filo di voce: "Dio ti benedica - Possa andarti tutto bene!". Kierkegaard rimase quasi impietrito e riuscì a sollevare un po' il cappello in segno di saluto. Non si sarebbero rivisti mai più.
Regine tornò nel 1860 dai Caraibi. Søren però non c’era. Il suo cuore aveva ceduto per il dolore: un giorno si accasciò improvvisamente a terra, mentre stava passeggiando in quella che era stata la città teatro del loro amore.
Regine, quando scoprì che il suo antico fidanzato era morto, si sentì mancare. Dopo poco scoprì che Søren le aveva lasciato in eredità tutti i suoi averi: i suoi risparmi, i libri, la casa. Come se fosse stata realmente sua moglie.
Perché per Søren Regine era l’amore, l’unico barlume di felicità.

Così si legge in una delle lettere che le scrisse: “Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi?[…]”
Quando Regine rimase vedova accettò di rilasciare alcune interviste sul suo rapporto col filosofo e si rese conto del dono più prezioso che lui le aveva fatto .

Era vero che non l’aveva sposata ma aveva consegnato il loro amore puro all’immortalità, poiché nessuno oggi può capire il pensiero filosofico di Søren Kierkegaard ,se non conosce l’amore che ha provato per lei.

Fabrizio Falconi - 2020

27/05/16

I tre tipi di disperazione dell'uomo contemporaneo secondo KIerkegaard.


Secondo Kierkegaard la disperazione è un difetto nella comunicazione e nella "convivenza" con se stesso dell'uomo, e presenta - nel mondo contemporaneo - tre modalità. 

1. La prima, la più grave è quella di chi ritiene e dice di non avere alcun problema di disperazione:  tale "serenità" infatti, discende dalla sua tragica inconsapevolezza di essere spirito, di avere la dignità di uno spirito che ha in sé qualcosa di eterno. Questo tipo di uomo che ignora di essere disperato, ma in realtà sta confitto nella disperazione più buia, potrà anche compere imprese insigni nella sua vita, ma rischia di attraversarla senza mai arrivare a rendersi conto della propria natura, senza sapere nemmeno per un giorno, chi è veramente. 

2 e 3. Ci sono poi uomini la cui disperazione consiste nella loro incapacità di "gestire" con equilibrio il rapporto che sono. Tale rapporto consiste in una delicata interazione di finito e infinito, così come di possibilità e necessità; ebbene questi uomini sbagliano il "dosaggio" dei suoi fattori, che non sanno conciliare armonicamente, e vivono sbilanciati dalla parte di uno, a radicale discapito dell'altro. E' così che alcuni di loro soffrono della disperazione del finito o di quella piuttosto affine della necessità, mentre altri sono affetti della disperazione dell'infinito o da quella non dissimile della possibilità. 

2. Il primo è incapace di qualunque "volo" che lo sollevi da terra, dove se ne sta abbarbicato a qualche particolare bene o risorsa mondana, e soprattutto, si accoda come un pecorone alle tendenze dominanti, facendo di se stesso una grottesca scimmiottatura nella quale non è difficile scorgere l'antenato dell'uomo-massa, prono alla dittatura dell'opinione pubblica imposta dai mass-media; oppure resta quasi paralizzato dall'idea ossessiva che ogni singolo segmento dell'accadere sia posto sotto l'egida della necessità, che esercita su di lui un effetto di soffocamento depredandolo di ogni speranza e di ogni scioltezza e levità nell'approccio della vita. 

3. Il secondo è colui che progetta e fantastica molto, si figura interi mondi di possibilità in cui si muove con sfrenata libertà, si sente di avere tanta energia da poter compiere grandi e molteplici imprese in tempi brevi fin quasi al limite dell'istantaneità; ma intanto smarrisce i contatti con la realtà, si dimentica della dura fatica implicata dal confronto-scontro con le difficoltà e i rallentamenti che essa impone ad ogni piè sospinto, e così finisce per non realizzare nulla, perché, tutto parendogli possibile, nulla gli diventa reale.


Tratto da Marco Fortunato, Focus su Kiekegaard, RCS-Milano 2014. 



01/06/13

Soren Kierkegaard e l'amore.





Cos'è che rende un uomo grande, ammirato dal creato, gradevole agli occhi di Dio? Cos'è che rende un uomo forte, più forte del mondo intero; cos'è che lo rende debole, più debole di un bambino? Cos'è che rende un uomo saldo, più saldo della roccia; cos'è che lo rende molle, più molle della cera? È l'amore! 

Cos'è che è più vecchio di tutto? È l'amore. 

Cos'è che sopravvive a tutto? È l'amore. Cos'è che non può essere tolto, ma toglie lui stesso tutto? È l'amore. Cos'è che non può essere dato, ma dà lui stesso tutto? È l'amore. Cos'è che sussiste, quando tutto frana? È l'amore. Cos'è che consola, quando ogni consolazione viene meno? È l'amore. 

Cos'è che dura, quando tutto subisce una trasformazione? È l'amore. Cos'è che rimane, quando viene abolito l'imperfetto? È l'amore. Cos'è che testimonia, quando tace la profezia? È l'amore. Cos'è che non scompare, quando cessa la visione? È l'amore. Cos'è che chiarisce, quando ha fine il discorso oscuro? È l'amore. Cos'è che dà benedizione all'abbondanza del dono? È l'amore. 

Cos'è che dà energia al discorso degli angeli? È l'amore. Cos'è che fa abbondante l'offerta della vedova? È l'amore. Cos'è che rende saggio il discorso del semplice? È l'amore. Cos'è che non muta mai, anche se tutto muta? È l'amore, e amore è solo quello che mai si muta in qualcos'altro. 

Soren Kierkegaard - Da Discorsi edificanti (1843), traduzione e cura di Dario Borso, Edizioni Piemme, 1998, pp. 81-82