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02/11/23

"Il Regno" di Emmanuel Carrère, l'investigazione (teologica) come forma d'arte


Con un po' di anni di ritardo, dalla sua uscita, ho letto Il Regno, di Emmanuel Carrère, che al pari degli altri suoi libri ebbe una diffusa eco alla sua pubblicazione e traduzione in Italia.

E' un libro importante e confermo che - come forse altri lettori - sono stato messo fuori strada all'inizio dalle recensioni italiane uscite all'epoca (2014), che ne sottolineavano un carattere da "pamphlet", sostanzialmente anticristiano.
Il Regno non è così: è un testo molto serio, documentato, impegnativo (più di 400 pagine), dal quale - anche per chi è cristiano o si professa tale - si imparano moltissime cose.
La seconda cosa che non è vera, è che il protagonista del libro sia Paolo di Tarso. Non è così. Il vero protagonista è Luca, il giovane medico macedone, che fu discepolo di Paolo e che è l'autore del Terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, quella "miscellanea" di eventi del dopo-morte di Gesù che racconta i primissimi anni del cristianesimo e che si ferma prima dell'Apocalisse di Giovanni.
In Luca, Carrère, palesemente finisce anche per identificarsi, in questa investigazione a tutto tondo: genere nel quale Carrère non conosce rivali. Luca arriva a scrivere il suo Vangelo, basandosi su quello - precedente - di Marco, ma - secondo Carrère - "romanzando" là dove lui stesso è in grado di riferire cose nuove, che Marco non sapeva o non ha scritto. La stessa "accusa" potrebbe essere rivolta a Carrère, il quale pur documentatissimo, deve fermarsi di fronte alle enormi lacune - e incoerenze, vuoti, piccoli e grandi misteri - di cui il racconto della Vita di Gesù è pieno. E Carrère, travestendosi da Luca, ed essendo (anche) un romanziere, riempie, ipotizza, aggiunge, interpreta, ma con grande sincerità intellettuale. E sempre con un alto grado di plausibilità e di "coerenza" di racconto.
Ne viene fuori il ritratto di Paolo, di cui Luca fu il più vicino collaboratore per molti anni: cittadino romano, prima persecutore poi convertito, uomo severo e ostinato, instancabile e appassionato. Le Lettere di Paolo sono come si sa, i documenti scritti, temporalmente più vicini alla vita di Gesù, risalendo ad appena 15-20 anni dopo la sua morte.
E lo si segue - mediante Luca - lungo i suoi avventurosi viaggi attraverso il Mediterraneo, e poi fino a Roma dove a Paolo - essendo cittadino romano - viene risparmiato il supplizio della croce (riservato ai senza patria cristiani), e comminata la "pietosa" decapitazione eseguita alle Tre Fontane (ad aquas salvias) .
Dopo la morte di Paolo, Il Regno si occupa a lungo delle vicende di Luca e della scrittura del suo Vangelo, l'unico tra i sinottici a gettare luce sulla nascita e infanzia del Maestro.
Carrère, essendo Carrère, intreccia come sempre questo dotto e avventuroso racconto - in cui si incontrano anche molti studiosi moderni del cristianesimo tra cui il grande Paul Veyne - con le sue vicende personali: la sua conversione al cristianesimo, avvenuta parecchi anni prima, e durata solo 3 anni, al termine della quale lo scrittore è tornato convintamente a essere un agnostico (e praticante di discipline orientali come lo Yoga).
E pur scritto da un agnostico, Il Regno si rivela come uno dei migliori, e più acuti, libri scritti negli ultimi anni sul cristianesimo, dal punto di vista storico, come e da quello filosofico. Carrère, pur non potendo oggi dichiararsi cristiano, ha capito meglio di molti altri lo spirito "autentico" del cristianesimo, quello delle origini, quello di Gesù e quello dei discepoli e degli apostoli, e ne ha un profondissimo rispetto.
Il suo punto debole, in un libro quasi impeccabile come questo, è forse credere, come fanno molti, che una storia "inventata a tavolino" (anche se questo non è quello che pensa Carrère) e messa in buona forma da volenterosi "segretari" come Luca (segretario di Paolo) e Marco (segretario di Pietro), possa aver rapidamente conquistato il mondo, e l'intero occidente per duemila anni (l'istituzione della chiesa cattolica cristiana è, come è noto, l'istituzione umana più antica, esistente).
Carrère sa, e lo scrive: che questo racconto pieno di buchi, incongruenze, cose inverosimili, miracoli, contraddizioni, questo racconto che ha per protagonisti un gruppo di analfabeti, umili pescatori e scappati di casa, e un presunto dio ammazzato come un capretto su una croce, delirante e pazzo nelle sue affermazioni contro ogni senso comune; questo racconto aveva ogni probabilità di essere cancellato dalla storia in qualche giorno o settimana, dopo la morte del Profeta, così come era successo a centinaia di altri racconti simili, inghiottiti dall'oblio.
Il vero mistero è, invece, come sia stato possibile che questa collezione di assurdità (Creo quia absurdum, scriveva Tertulliano), di "favola per donne, raccontata da donne" [specie la Resurrezione] quindi quanto di più inattendibile al mondo potesse esistere, di epopea degli ultimi, abbia potuto non soltanto diffondersi in pochissimo tempo capillarmente in ogni angolo di un immenso impero, ma addirittura nel giro di "appena" un paio di centinaia di anni, diventare creduta da milioni di persone, e così per duemila anni e fino ad oggi.
In questo senso Carrère, pensando "pro domo sua" attribuisce troppa importanza agli evangelisti, a quelli cioè che "scrissero" il Vangelo, immaginandoli come fossero scrittori di oggi, con gli stessi loro tic e metodi:
sembra una visione ingenua. Gli studiosi del cristianesimo sanno che i quattro Vangeli furono "messi per iscritto" per motivi pratici molto concreti che sono sostanzialmente due: 1. quando si capì che la fine del mondo non era imminente, come sembravano invece intendere le parole di Gesù (gli apostoli erano convinti che Lui sarebbe tornato con loro ancora in vita) 2. quando si capì che l'attesa - molto più lunga del previsto - metteva a serio rischio il racconto orale (orale perché "scrivere di Gesù" durante le persecuzioni anticristiane non era esattamente una buona idea) e quindi era opportuno scriverle, perché restassero.
Per questi motivi nella scrittura di questi testi non contò così tanto la personalità degli "scrittori" che furono più che altro i "redattori" chiamati a mettere per iscritto, quanto più fedelmente possibile, un racconto orale (di gruppo, di comunità) che si tramandava di bocca in bocca, e da padre a figlio.
Il mistero è dunque un altro.
Un mistero che non si spiega, e in cui anche Carrère, con la sua penna affilata e degna, evita di addentrarsi. Lo Spirito non è e non può essere materia di indagine, e Carrère è il primo a saperlo. A lui interessano i fatti. E siccome la storia, specialmente quella del primo cristianesimo, è fatta di molti, molti fatti lui si dedica con passione a quelli.
Per lo Spirito, bastano e avanzano le ultime cinque pagine de Il Regno: ho finito di leggerle con i brividi sulla schiena e mi sono reso conto che quasi mai, nella mia lunga vita di lettore, un libro mi ha procurato brividi sulla schiena, mentre lo leggevo.

Fabrizio Falconi - 2023

26/12/19

La Chiesa dedicata al protomartire cristiano: Santo Stefano Rotondo a Roma





La chiesa di Santo Stefano Rotondo, dedicata al protomartire romano, sul Celio, è una delle più antiche ed originali di Roma, nota soprattutto per la sua forma circolare che ha fatto supporre si trattasse di un edificio pagano, trasformato in chiesa nel V secolo d.C quando fu consacrata da papa Simplicio I (468-483), dedicandola a Santo Stefano il primo martire della Chiesa, martirizzato per lapidazione nel 35 d.C. In effetti scavi recenti hanno dimostrato che l’edificio di culto fu edificato sopra i resti di una caserma romana – i Castra peregrina – e di un antico mitreo.

La sua forma, in origine, era davvero misteriosa nella sua perfezione geometrica: tre anelli concentrici intersecati da quattro navate che formavano una croce greca.

Al giorno d’oggi gli anelli concentrici sono soltanto due e uno solo è il braccio della croce greca.   Anche così però l’interno dell’edificio resta molto impressionante, per la vastità dell’ambiente e la selva di colonne antiche (di diversi ordini) che sorreggono la grandiosa cupola.

L’interno è poi essenzialmente scarno, privo di altari o arredi sacri, con la sola sedia episcopale che troneggia vicino all’entrata e che sembra sia quella sulla quale sedeva San Gregorio Magno.

Ma quello che sicuramente impressiona di più nel severo vuoto dell’edificio è la serie di affreschi che ricopre l’interno sulle pareti tra le colonne. Sono ben trentaquattro. L’imponente complesso pittorico è opera di quattro mani, quelle del Pomarancio (Nicolò Circignani, 1519-1591) e di Antonio Tempesti (1555-1630). La serie – in parte danneggiata – comincia con La strage degli innocenti e prosegue di riquadro in riquadro illustrando con crescente realismo i più atroci supplizi che si possano immaginare. In modo talmente minuzioso e didascalico ( con cartigli al di sotto che forniscono ogni spiegazione ) da risultare per molti visitatori insopportabile alla vista.


Queste scene furono rappresentate proprio con intento didattico: in piena controriforma, la chiesa di Santo Stefano era infatti frequentata dai giovani gesuiti del Collegio Germanico Ungarico, custodi della Basilica, i quali sotto falso nome venivano inviati in Europa alla fine del Cinquecento con la missione di riacquistare clandestinamente fedeli per la Chiesa di Roma, pressata da una duplice minaccia: a nord il movimento riformatore di Martin Lutero, a est i turchi ottomani.

Gli affreschi di Santo Stefano fornivano dunque un compendio di quello che aspettava questi missionari, se fossero stati scoperti: come per i martiri romani, avrebbero subito terribili torture, che avrebbero fatto desiderare loro ardentemente la morte, in una sorta di Imitatio Christi.

E ancora oggi, a guardarle, queste scene atterriscono: un martire a cui sono state mozzate le mani, le quali poi legate ad una cordicella, gli sono state messe appese al collo; un uomo che viene scorticato a sangue, vivo, con un raschietto uncinato; un altro a cui viene estratta la lingua con una tenaglia e tagliata con un coltello da cucina; una doppia flagellazione con fascine di legno; due che vengono lasciati squartare da cani; un uomo appeso a due carrucole, con una palla di piombo appesa ai piedi, che viene bruciato pezzo a pezzo con le torce; un altro che viene disossato su una sorta di tavolo anatomico come una moderna scena tratta da un film horror; un uomo a cui viene infilato piombo fuso attraverso la bocca;  altri sui quali viene versato olio bollente; una donna cui viene infilato un tridente nel petto mentre uno dei torturatori muove l’argano che le tira le braccia fino a squartarla; un altro martire cui viene tagliata una mano con una scimitarra e il cui sangue molto realisticamente scorre a fiumi al di sotto del piedistallo.

Sotto ciascun riquadro gli artisti provvidero a sistemare una iscrizione in duplice lingua,  latino per i novizi e italiano per i frequentatori della chiesa, con la dettagliata spiegazione dei diversi episodi.
Insomma decapitati, mutilati, sbranati, sepolti vivi, bruciati che rimandano alle attuali persecuzioni che ancora oggi colpiscono gli infedeli in diverse parti del mondo: un vero campionario degli orrori che ancora oggi sortisce il suo effetto assai macabro.


Tratto da: Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015


05/12/19

La Culla di Gesù torna a Betlemme - Storia di una reliquia antichissima.




Ha raggiunto Betlemme, in concomitanza con le celebrazioni per l'inizio dell'Avvento, la reliquia della Sacra Culla donata da papa Francesco alla Custodia di Terrasanta

Secondo la tradizione si tratta di assi di legno prese dalla mangiatoia che fece da culla al neonato Gesu', finora custodite nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore tanto cara a Papa Bergoglio. 

Ultima tappa, la Chiesa francescana di Santa Caterina - riferisce Vatican News -, adiacente la Basilica della Nativita' a Betlemme. 

Si e' concluso qui, il viaggio della reliquia donata da san Sofronio, patriarca di Gerusalemme, a papa Teodoro I (642-649) e conservata finora in una cappella sotterranea della Basilica liberiana a Roma. 

Una piccola parte di quella che, secondo la tradizione, fu la mangiatoia di legno dove nacque il piccolo Gesu' e' tornata dunque attraverso il Mediterraneo al luogo natio, Betlemme, affidata ai frati minori della Custodia di Terra Santa. 

Tutto e' iniziato per volere del Papa, quando lo scorso 22 novembre, durante un rito presieduto a Roma dal cardinale Stanislaw Rylko, arciprete di Santa Maria Maggiore, alcuni incaricati dei Musei vaticani hanno aperto l'urna posta sull'altare della cappella ipogea dedicata alla Culla e hanno tratto un frammento inserendolo nel reliquiario.

Prima, l'arrivo a Gerusalemme, presso il Centro Notre Dame, accompagnato da una messa presieduta dal nunzio apostolico in Israele e Cipro, delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina monsignor Leopoldo Girelli, nella cappella intitolata a Nostra Signora della Pace, in cui anche i fedeli hanno potuto venerare la reliquia. 

Nel pomeriggio - secondo quanto riporta il sito della Custodia - i francescani hanno raggiunto il Centro Notre Dame per la consegna. Mons. Girelli ha tra l'altro dato lettura della lettera che il card. Rylko ha indirizzato al Custode di Terra Santa Francesco Patton, con la ricostruzione storica del valore del dono delle reliquie per la Basilica romana che papa Gregorio III fece Santuario, non solo della Madre di Dio ma anche della Nativita'. 

"Papa Francesco accompagna questo dono con la sua benedizione", recita la lettera, "e col fervido augurio che la venerazione di questa insigne reliquia apra il cuore di tanti uomini e donne, adulti e giovani, anziani e bambini, ad accogliere con rinnovato fervore di fede e di amore il mistero che ha cambiato il corso della storia". 

Il Papa augura, in particolare, "che il messaggio di pace annunciato dagli angeli la notte di Natale agli uomini amati da Dio, che da duemila anni risuona da Betlemme, porti il dono di pace e riconciliazione di cui il nostro mondo ha sempre grande bisogno". 

Dopo la lettura, la consegna della Reliquia al Padre Custode: "non ci limiteremo a Custodire questa Reliquia", ha detto, "ma faremo in modo che rappresenti la Chiesa in uscita e che essa porti la gioia del Vangelo, pellegrinando tra le varie comunita' cristiane di Terra Santa per ravvivare la fede in Gesu'". Poi il trasferimento in processione alla chiesa di San Salvatore, presso la sede centrale della Custodia di Terra Santa, per la celebrazione dei Vespri solenni.

08/10/19

Quando Costantino incontrò Silvestro sul Monte Soratte


La donazione di Costantino negli affreschi medievali alla Basilica dei Ss. Quattro Coronati a Roma

Quando Costantino incontrò Silvestro, sul Monte Soratte 
    
       
     Circa venti chilometri più a nord di Malborghetto il panorama della campagna di Roma è  dominato, lungo il tracciato della via Flaminia dalla imponente mole del monte Soratte, un massiccio calcareo di circa 700 m. dai pendii molto ripidi che si staglia in modo inconfondibile  sulla sottostante valle del Tevere .

      Visibile da grandi distanze, e addirittura anche da Roma nei giorni di cielo particolarmente limpido,  il Soratte ha, nel corso dei secoli, fornito una notevole varietà di reperti archeologici che ne attestano la frequentazione umana sin dai primordi.

      E’ stata con ogni probabilità proprio la sua peculiare morfologia a stimolarne l’utilizzo come luogo di culto da parte di antiche popolazioni come i Sabini prima,  e poi Falisci, Capenati, Etruschi, fino ai  Romani. 

      Ed è ancora oggi molto semplice constatare come – dopo aver percorso l’antico sentiero che parte dal villaggio di Sant’Oreste - dalla sua vetta si possa godere di un incredibile campo visivo a 360° che permette di spaziare nei giorni di nitidezza da un lato fino al mare, e dall’altro fino alle vicine vette dell’Appennino Sabino, alla valle del Tevere, al lago di Bracciano, e perfino ai confini di Roma.  

     Ma soprattutto il Soratte si evidenzia subito come un naturale osservatorio celeste.   Dalla sua cima, infatti, di notte è possibile ammirare la volta celeste senza ostacoli che ne limitino la visione. E di sicuro fu proprio questa peculiarità a giustificarne l’utilizzo sacrale sin dai tempi più remoti. Anche oggi, per chi visiti questo luogo, specialmente di notte,  si realizza la suggestiva sensazione di trovarsi proiettati verso il cielo, come se ci si trovasse sul vertice di una piramide.
     
       Ed è facile intuire come,  dopo l’incomparabile visuale di cui si poteva godere durante le ore di luce, al calare delle prime ombre della notte fino al sorgere di una nuova alba,  lo spettacolo del cielo stellato e dei suoi moti si prestasse in modo del tutto naturale  alla funzione di divinazione delle cose umane, in base agli eventi astronomici che si scorgevano nel cielo;  o ad accompagnare la scansione del tempo per le preghiere notturne.
      Come abbiamo detto, questa circostanza favorì l’edificazione di un certo numero di edifici sacri, sin dagli albori dell’umanità.  L’ultimo in ordine di tempo, nell’era della nostra indagine, fu un tempio dedicato a Soranus Apollo. Si trattava non di un particolare appellativo di Apollo, ma di  una divinità che in epoca imperiale ne congiungeva due diverse: Apollo, appunto, e Sorano, al quale si associava un culto pagano in quei luoghi.

       Una suggestiva ricostruzione  virtuale del Tempio di Apollo è stata realizzata dai prof. Marco e Alberto Carpiceci dell’Università di Roma, i quali, sulla base di rilievi topografici, analisi delle proporzioni architettoniche, e reperti archeologici,  hanno sostenuto che tale tempio fosse strettamente legato al culto del dio sole, proprio quel sol invictus, cioè  al quale era assai devoto il futuro – e per il momento ancora pagano - imperatore Costantino.
    
     Sulle  fondamenta di questo antico tempio di Apollo, fu poi edificato, a partire dal sesto secolo dopo Cristo, un nuovo edificio che oggi – come nell’antichità – è conosciuto come Eremo di San Silvestro, che ancora oggi fa splendida mostra di sé sulla cima della montagna sacra.  Il nome di questo eremo – oggi una Chiesa sottoposta a numerosi e recenti restauri  - ha resistito nei secoli ed è presto spiegato: all’epoca della discesa di Costantino verso Roma, viveva infatti in eremitaggio, sulla cima del monte Soratte, l’episcopo Silvestro, personaggio destinato ad avere un ruolo di primissimo piano  nella edificazione della chiesa di  Roma divenendo il trentatreesimo Papa,  e nel processo di cristianizzazione dell’Impero, voluto da Costantino.

  
L'eremo di San Silvestro sulla cima del Monte Soratte, oggi

    Ricostruire con esattezza la figura e il profilo biografico di Silvestro è impresa oggi piuttosto ardua, perché le scarne notizie su di lui sono fornite solo dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, dal Liber Pontificalis e da altre fonti apocrife o leggendarie come l’Actus Silvestri, un documento databile IV-V sec.  di paternità ignota del quale si trova menzione per la prima volta nel Decretum Gelasianum anche questo di attribuzione controversa.

     Quel che sappiamo è che Silvestro, la cui data di nascita è ignota, era figlio di un certo Rufino, romano, e probabilmente di una certa Giusta. Divenuto presbitero,  Silvestro divenne il rappresentante di quella parte dei cristiani rimasta ostile a Massenzio.  L’usurpatore  dapprima impedì per anni l’elezione del Vescovo, poi favorì l’elezione di Milziade, un presbitero nordafricano ritenuto fedele alla sua causa che però non fu riconosciuto da Silvestro e dalla sua fazione.   Il mancato sostegno a Milziade suscitò l’ira di Massenzio che minacciò a tal punto Silvestro da costringerlo a fuggire nella capitale e a nascondersi nei territori vicini.
   
     Ai fini del nostro discorso, è importante comunque sottolineare che fu proprio l’Actus Silvestri ad ispirare, parecchi secoli più tardi, e precisamente nel Duecento, uno dei capitoli di quel testo su cui torneremo molto più diffusamente in seguito, quando parleremo di Piero della Francesca e della sua versione del Sogno di Costantino, e cioè La Leggenda Aurea,  di Jacopo da Varagine.    In questa famosissima opera, destinata a segnare la storia delle credenze cristiane per molti secoli, il frate domenicano, vissuto nel Duecento descrive effettivamente un incontro tra Silvestro e Costantino, anche se lo colloca non sul Monte Soratte ma a Roma, parecchio tempo dopo la battaglia di Ponte Milvio.  Secondo Jacopo, infatti, l’incontro avvenne dopo il 313, quando Silvestro già divenuto papa, si era dovuto rifugiare sul monte Soratte con tutto il clero romano a causa delle persecuzioni iniziate da Costantino. Questi, secondo il racconto di Jacopo,  per punizione divina si era ammalato di lebbra e i suoi sacerdoti lo avevano consigliato, per guarire, di bagnarsi in un catino riempito da sangue di fanciulli. L’imperatore però si impietosì al pianto delle madri e decise di risparmiare il sacrificio di quegli innocenti ricevendo come  premio in sogno, il consiglio da parte dei santi Pietro e Paolo, di richiamare Silvestro dal suo eremitaggio. I due apostoli dissero anche a Costantino che Silvestro gli avrebbe indicato la fonte giusta nella quale immergersi tre volte per essere guarito. Suggestionato da questo sogno, al risveglio Costantino mandò dei messaggeri da Silvestro per chiedere un immediato incontro a Roma. Silvestro accettò, fu condotto al cospetto di Costantino e dopo aver mostrato all’imperatore una effige raffigurante i due apostoli (che Costantino riconobbe come quelli visti in sogno)  lo guarì, immergendolo nelle acque del Battesimo, in un fonte che una tradizione perdurante identificò nei secoli nel Battistero Lateranense, i cui resti archeologici sorgono al fianco della Basilica di San Giovanni a Roma.

      Ed è il caso di ricordare che proprio questa guarigione miracolosa ispirò intorno all’VIII sec. dopo Cristo, ad opera di un chierico romano, la cosiddetta Constitutum Constantini ovvero la Donazione di Costantino, quella formidabile invenzione medievale per giustificare il potere temporale della Chiesa , secondo la quale l’Imperatore grato per la guarigione, nella circostanza dell’incontro con il capo della chiesa cristiana di Roma,   avrebbe concesso in cambio al papa Silvestro I e ai suoi successori il primato e la sovranità su Roma, l'Italia e l'intero Impero Romano d'Occidente

Tratto da B. Carboniero, F. Falconi, In Hoc Vinces, Edizioni Mediteranee, Roma 2011



01/10/19

La millenaria storia della Basilica di San Pancrazio a Roma


La Basilica di San Pancrazio

Le storie dei martiri del primo cristianesimo romano sono sempre molto interessanti, anche perché sono quasi sempre legate con i luoghi di Roma e raccontando la storia di queste figure si finisce per raccontare anche la storia dei luoghi. E’ così anche per San Pancrazio, cui è intitolata l’antica Basilica sul  colle gianicolense.

Pancrazio, come racconta l’agiografia, tratta dalle memorie dei martiri romani, nacque da ricchi genitori di una famiglia romana nell’anno 289 d.C. a Sinnada, una cittadina della Frigia, in Asia Minore. 

Rimasto orfano all’età di otto anni (la madre era morta al momento del parto) Pancrazio fu affidato allo zio  Dionisio, al seguito del quale si trasferì a Roma, dove andò ad abitare in una splendida villa sul Celio, una zona della Città dove erano già attive numerose comunità di cristiani

Anche Pancrazio e Dionisio dunque furono battezzati e ricevettero l’Eucaristia. 


I tempi però erano molto pericolosi, visto che era scoppiata nel frattempo la feroce persecuzione di Diocleziano. Nel 303 d.C. la repressione – che causò complessivamente quindicimila vittime – si estese dalle province dell’impero fino a Roma, abbattendosi su chi si rifiutava di sacrificare agli dèi.

Questa sorte toccò anche al giovane Pancrazio – appena quattordicenne – il quale chiamato a riconoscere l’autorità dell’imperatore e rifiutandosi fermamente, fu condotto dinnanzi a Diocleziano stesso per essere giudicato.

Diocleziano.  Il sovrano, colpito dalla bellezza e dalla nobiltà del giovane, cercò perfino di convincerlo, senza risultato. La costanza sua fede gli valsero dunque l’ammirazione dei cortigiani presenti e lo sdegno dell’imperatore il quale ordinò l’esecuzione pubblica per decapitazione. 

Condotto fuori dalle mura, lungo la via Aurelia, il 12 maggio del 304, Pancrazio fu giustiziato alla presenza della matrona romana, una delle più famose del tempo, Ottavilla, la quale, sconvolta dalla sorte del ragazzo, fece raccogliere il capo e il corpo e li fece deporre in un sepolcro nuovo, lì dove sorgevano le catacombe della sua famiglia. 

Sul luogo del martirio, che è lo stesso dove oggi sorge la Basilica di San Pancrazio, si legge l’iscrizione Hic decollatus fuit Sanctus Pancratius (Qui fu decollato San Pancrazio), non lontano dall’altare dove si conservano i resti del corpo del ragazzo.


Fin qui l’agiografia ufficiale. C’è da aggiungere che la vicenda di Pancrazio si basa sostanzialmente sugli Acta - Passio sancti Pancratii - che furono scritti quasi due secoli dopo, al tempo in cui Papa Simmaco ordinò l’edificazione della grande basilica e che alcuni particolari della sua vicenda hanno generato confusione con quella di Calepodio, sacerdote romano martirizzato nel 232 d.C.

Il Martyrologium Romanum ancora oggi riporta in data 12 maggio la seguente commemorazione: A Roma, al secondo miglio lungo la Via Aurelia, memoria di S. Pancrazio, che ancora adolescente fu ucciso per la fede di Cristo; presso il luogo della sua sepoltura papa Simmaco innalzò la celebre basilica, e papa Gregorio Magno non perse occasione per invitare il popolo ad imitare un simile esempio di verace amore a Cristo. In questa data si commemora la deposizione delle sue spoglie.

Gli scavi archeologici operati nella zona hanno confermato che al di sotto dell’attuale Basilica esisteva un complesso di antiche origini, un porticato di una casa di una certa importanza, probabilmente la casa di Ottavilla, che doveva sorgere nei pressi del luogo dove fu eseguita la condanna a morte.

La fama di Pancrazio, specie dopo l’intitolazione della Basilica da parte di Simmaco, divenne enorme, si diffuse in molte parti d’Europa e a Roma condizionò i toponimi della zona al punto che anche l’antica Porta Aurelia, del circuito delle mura aureliane, cambiò il nome in Porta San Pancrazio, che mantiene anche oggi.

La Basilica fu nei secoli più volte rifatta, dapprima sotto il pontificato di Onorio I e poi nel 1609 dal cardinale Ludovico da Montereale che disseminò gli stemmi della sua casata un po’ ovunque. 

Un piccolo museo completa l’insieme della Basilica, con parte dei reperti provenienti dalle catacombe alle quali si può accedere nei pressi: vi è quella della matrona Ottavilla e quella di San Pancrazio (solo la seconda aperta al pubblico) ancora perfettamente conservate dopo duemila anni. 

13/03/19

La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Silvestro a Roma.


La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Silvestro a Roma

Destò interesse qualche tempo fa la notizia che la chiesa di San Giovanni Battista, una delle chiese cattoliche costruite all’inizio del XIX secolo in uno dei luoghi di maggiore tradizione storica in Russia era stata restituita ai cattolici a più di 50 anni di distanza dalla sua confisca ad opera del potere sovietico.

Il tempio è situato nel paese del poeta Alexander Pushkin – Tsarskoe Selo, com’era chiamato in passato – nel nord-est della Russia, a pochi chilometri da San Pietroburgo.

L’inizio della costruzione della chiesa di San Giovanni Battista risaliva al 1823 per ordine dello zar Alessandro I, poiché la chiesa di legno che esisteva a Tsarskoe Selo era diventata troppo piccola per accogliere i fedeli. Dopo l’arresto del parroco ai tempi dell’Unione Sovietica, con pressioni politiche coloro che si trovavano sotto la sua responsabilità, come in molti altri casi, vennero obbligati a firmare un documento in cui si dichiaravano impossibilitati a riparare la chiesa e a pagare allo Stato le imposte corrispondenti all’immobile.

Curiosamente, la restituzione della chiesa di San Giovanni Battista alla comunità cattolica coincideva con la visita in Russia, nel luglio del 2006, di alcune reliquie considerate, secondo la tradizione, i resti della mano destra di colui che battezzò Gesù nel Giordano.

In quella occasione, i giornali russi riferirono delle incredibili file di fedeli che si erano ammassate, per vedere le famose reliquie del Battista, che mancavano in Russia da tanto tempo.

Alla luce di queste notizie provenienti dall’Oriente Europeo, faceva ancora più impressione considerare il fatto che a Roma si veneri da tempo immemorabile – certamente non con lo stesso seguito di fedeli registrato in Russia - quella che è considerata la testa del Battista, esposta in bella mostra in una piccola chiesa centralissima: San Silvestro in Capite, in Piazza San Silvestro.

La reliquia si riferisce ovviamente ad uno degli episodi evangelici più famosi, il martirio di San Giovanni Battista, cioè del Precursore di Gesù Cristo, episodio reso immortale dalle numerose riproduzioni nella storia dell'Arte, tra i quali spicca la tela di Caravaggio conservata al Palazzo Reale di Madrid che ritrae con particolari del tutto verosimili la decapitazione voluta dalla perfida Salomè, figlia di Erode.


La tradizione dunque vuole che proprio questa stessa testa del Battista sia conservata a Roma, in una delle sue chiese più centrali.

La preziosa reliquia, la testa mummificata è custodita in un piccolo e prezioso altare nella Chiesa di S. Silvestro in capite  (il nome deriva da questo), nella cappella dell’Addoloratain un reliquiario del 1391, contenuto a sua volta in un altro, cuspidato, del 1881.

La Chiesa sorge - come altre del Rione - su un tempio più antico pagano, in questo caso il Tempio del Sole, sopra il quale fu edificata una prima chiesa paleocristiana dal papa Stefano II, chiamata inter duos hortos, perché era circondata da orti.

La reliquia, pervenuta a Roma durante il pontificato di Innocenzo II (1130-1143) era tra le più venerate in città e veniva portata ogni anno in processione da quattro arcivescovi (la tradizione durò fino al 1411), sorvegliata costantemente nella chiesa da soldati armati.

Nel 1238 papa Martino IV la ripose in un reliquiario d’argento che Bonifacio VIII decorò con una tiara preziosa andata perduta, rubata purtroppo nel corso del Sacco di Roma del 1527.

La testa del Battista si salvò e continuò a restare al suo posto, fino al 1870 quando fu temporaneamente custodita in Vaticano, per poi essere restituita alla chiesa nel 1904.

La disputa sulla veridicità della preziosa reliquia ha impegnato a lungo gli studiosi.  Ma a dimostrazione del fatto che non si tratta di pura leggenda, sono di estrema rilevanza i monumentali studi compiuti dallo Iozzi  che in una sua pubblicazione confutò una reliquia simile posseduta dalla cattedrale d'Amiens, in Francia e stabilì la veridicità di quella romana.

Nel corso poi di un’altra ricognizione  della reliquia effettuata nel 1962 si riscontrò  la presenza di stoffa risalente con ogni probabilità all'ottavo secolo e si trovarono due monete del XII secolo.


Fabrizio Falconi
tratto da:
MISTERI E SEGRETI DEI RIONI E DEI QUARTIERI DI ROMA 
Newton Compton Editore
Roma, 2014-2017

30/10/14

I numeri come archetipi e l'Anima. 7. Il numero 25 e il Quadrato Magico (Conferenza Riva del Garda, L'arte di Essere, 19 ottobre 2014).


7. IL NUMERO 25 E IL QUADRATO MAGICO.


E ora nel nostro viaggio tra i numeri, ne affrontiamo un altro, legato ad uno dei più singolari enigmi dell’antichità.  Il numero 25, che è strettamente legato al cosiddetto ‘Quadrato magico’, o  ‘Quadrato Sator’, o ‘Latercolo pompeiano’ sul quale sono stati versati veri e propri fiumi di inchiostro.
Il Quadrato è conosciuto fin dai tempi dell’antichità, perché esemplari di esso sono stati rinvenuti in luoghi di culto e in luoghi di sepoltura di mezza Europa.
Si tratta di cinque parole, disposte in 25 caselle, leggibili sia da sinistra a destra, che da destra a sinistra, ovvero cinque palindromi, che però, è questa la particolarità, possono essere lette anche verticalmente, dall’alto in basso e dal basso in alto:



Le parole centrali, i due TENET incrociantesi, e palindromi, formano fra l’altro una perfetta croce.
Su questo Quadrato dal significato misterioso – le cinque parole latine formano una frase apparentemente priva di senso – sono fiorite le teorie più bizzarre nel corso dei secoli, e non è ovviamente il caso qui di darne conto. 
Il Quadrato, per alcuni è solo un gioco enigmistico, per altri una formula alchemica, per altri ancora nientemeno che il lasciapassare, la parola d’ordine degli appartenenti all’Ordine dei Templari.
Fra l’altro il Quadrato è stato rinvenuto in diverse versioni. Con, ad esempio la prima parola SATOR, anziché ROTAS.  La difficoltà nella traduzione dipende dal termine AREPO  che non esiste in latino. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si tratta di un nome proprio. In questo caso la frase suonerebbe più o meno: “ il contadino Arepo conduce l’aratro nei campi.“ 


Questo secondo alcuni studiosi, come Margherita Guarducci, proverebbe l’origine pagana del quadrato: un semplice gioco enigmistico.
Qualcun altro ha sottolineato che leggendo invece il Quadrato in modo bustrofedico, cioè a serpentina, cambiando direzione ad ogni riga, si otterrebbe: Sator opera tenet – tenet opera Sator. Cioè: “ Il Seminatore possiede le Opere, “ ovvero “ Dio è il signore del Creato. “    Significato religioso, ispirato.
Comunque sia il  gioco delle interpretazioni si può continuare all’infinito.
Quel che ci interessa accennare è la svolta avvenuta nel 1936 a Pompei, quando, durante gli scavi,  un esemplare del Quadrato fu rinvenuto su una delle colonne della Palestra Grande.



La scoperta, vero e proprio evento per gli archeologi, ha retrodatato l’invenzione del Quadrato Magico almeno al 79 dopo Cristo, e ha rinforzato una serie di teorie riguardante la controversa presenza dei cristiani a Pompei, nell’anno dell’eruzione.
Questo perché al Quadrato si è attribuito da più parti una sicura rilevanza di simbolo cristiano, legato al culto dei morti  e alla Risurrezione.
Incredibile a credersi infatti, il Quadrato misterioso contiene al suo interno, come una fantastica scatola cinese, un ulteriore piccolo prodigio.
Tutte le parole del Quadrato, messe insieme – anagrammate - formano due Paternoster incrociati con due lettere alle estremità della croce, due A e due O, che rappresenterebbero due Alfa e Omega.



 (Esemplari del Quadrato Magico sono stati ritrovati :
-          a Verona, nell’Oratorio di Santa Maria Maddalena di Campomarzio.
-          In Gran Bretagna su in intonaco di rovine romane risalenti al III sec. a Cirencester ( l’antica Corinium ), dove fu rinvenuta anche una gran quantità di tombe.
-          A Pescarolo, in provincia di Cremona, sul pavimento della bellissima chiesa di S. Giovanni Decollato.
-          A Siena, nel Duomo di S. Maria Assunta.
-          A Fabriano, nella chiesa di S. Maria in plebis flexiae.
-          A Roma, nei locali catacombali sotto la Basilica di Santa Maria Maggiore – il quadrato fu rinvenuto durante gli scavi archeologici del 1960.
-          A Santiago de Compostela, in Spagna.
-          In Austria, nell’attuale Altofen, l’antica Buda.
-           In Ungheria, graffito su una tegola, negli scavi  dell’antica Aquincum, graffito databile al 107, 108 d.c.)

In realtà il Quadrato è molto più antico. E oggi quasi tutti gli studiosi sono concordi nel ritenerlo un’espressione ingegnosa della prima comunità cristiana stabilitasi in Italia alla fine del I secolo dopo Cristo.
In realtà ciò che appare evidente è il legame che nel tempo si è instaurato tra il Quadrato, il  rito della sepoltura e il culto dei morti.  Forse l’origine di questo legame, l’aver associato il Quadrato alla sepoltura, deriva proprio da Pompei.
Il simbolo della croce è infatti inserito due volte nel Quadrato. Con i due Paternoster incrociati come abbiamo visto, e con le due parole TENET che si intersecano formando una croce, nella lettera N che secondo alcuni starebbe appunto per NAZARENUS.
Il Quadrato Magico ‘SATOR’ è  fra l’altro inciso sulla lapide di un uomo famoso. Il compositore austriaco Anton von Webern, l’erede di Schomberg, da molti considerato l’inventore della dodecafonia.
( a.v.webern. ( 1883 – 1945 )).
 Anton von Webern ebbe, in vita, una specie di vera e propria ossessione per il Quadrato Magico. Al punto che scrisse anche un’opera musicale ispirata al Quadrato: II CANTATA OPERA 31, che fra l’altro è l’ultima opera del suo catalogo.
Webern, affascinato, ossessionato per tutta la sua vita dalle possibilità geometriche, matematiche della musica, dalla serialità e dagli enigmi, non poteva non trovare nel Quadrato una specie di ‘summa’ del suo credo filosofico, prima che musicale.
Webern, che aveva fatto della razionalità un dogma, anche in musica, finì i suoi giorni in un modo quasi incredibile. Venne ucciso per sbaglio nel 1945 da un soldato americano durante un coprifuoco. Massima irruzione del caso in una vita dominata dal calcolo.
Sulla sua casa a Mittersill figura un Quadrato posto in mezzo alle sue date di nascita e di morte. La stessa cosa sulla sua lapide.



Webern, a proposito del Quadrato scriveva:
“Variazioni sopra un tema. Questa è la forma primordiale che sta alla base di tutto. Due cose che sembrano completamente diverse fra di loro in realtà sono la stessa cosa. E così si genera la più larga coerenza."
“ Due cose che sembrano completamente diverse tra di loro e che in realtà sono la stessa cosa “: non è che Webern si sta riferendo alla croce e al quadrato ? Beh sì. Webern parla proprio del Quadrato magico: una STESSA COSA che contiene due cose completamente diverse: la Croce e il Quadrato.
Il Quadrato, simbolo della razionalità, della geometria, della costruzione, della casa, delle fondamenta.
La Croce, simbolo della spiritualità, dell’idea, dell’innalzamento verso l’alto, verso il trascendente, il divino.
Ma perché il 25 ?? 25 il numero delle caselle del Quadrato ?
Beh, non è affatto sorprendente forse scoprire che il 25 è quello che in matematica si chiama  un NUMERO QUADRATO CENTRATO, e per l’esattezza il QUARTO. Un numero quadrato centrato è infatti un numero poligonale centrato, che rappresenta un quadrato, con un punto al centro e gli altri intorno a raggiera.
I primi numeri quadrati centrati sono: 1,5,13 e 25 e possono essere rappresentati nel seguente modo.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata (7./ segue) 

14/12/13

Un incredibile piccolo luogo sconosciuto di Roma (davanti al quale si passa tutti i giorni): l'Oratorio di Sant’Andrea a Ponte Milvio e la testa dell’Apostolo.


un estratto dal Libro Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, uscito da pochi giorni in libreria. 


Un piccolo edificio, sotto l’ombra dei cipressi passa quasi del tutto inosservato sulla sponda sinistra del Tevere, proprio alla fine del tratto della Via Flaminia prima di Ponte Milvio, compresso com’è dalle due carreggiate e dai binari della linea del tram che la cingono d’assedio. Eppure si tratta di un piccolo gioiello che custodisce una lunga e nobile storia: è il cosiddetto Oratorio di Sant’Andrea, costruito accanto ad una edicola, poggiata su quattro colonne con la statua raffigurante l’apostolo Andrea.

Sia la statua che l’edicola risalgono al 1463, quando furono commissionate dal papa di allora, Pio II Piccolomini, all’architetto toscano Francesco Del Borgo, per rendere eterna memoria di un evento storico avvenuto proprio in quel luogo, l’11 aprile dell’anno precedente, il 1462. In quel giorno di primavera, a Roma, accadde qualcosa di notevole: il Cardinale Bessarione (di lui parliamo anche in un capitolo a parte, nelle pagine sul Rione di San Saba), grande erudito e umanista, mediatore e ambasciatore tra le chiese di Bisanzio e quella di Roma, arrivò nella capitale portando con sé una reliquia preziosissima: la testa dell’apostolo di Gesù, Andrea. L’arrivo nell'Urbe di questo sacro reperto assumeva in quegli anni un significato particolarmente importante, in una città che già vantava ovviamente un gran numero di insigni reliquie della cristianità: la testa dell’Apostolo Andrea era sfuggita alla massiccia operazione di recupero seguita alla occupazione da parte dei Crociati del trono imperiale di Bisanzio, nel 1204. Grazie alla riconquista della antica Costantinopoli, infatti, un gran numero di reliquie della prima cristianità, custodite nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente, erano state riprese e riportate in Occidente, non solo a Roma, ma nelle principali cattedrali e chiese di Francia, di Germania, di Spagna, d’Italia, compreso il corpo dell’Apostolo Andrea (che la tradizione vuole morto nell’anno 60 d.C. in Grecia, nella città di Patrasso, dopo il celebre martirio per crocefissione sulla cosiddetta croce decussata, cioè a forma di X).


A quel corpo – che era stato spostato, dopo la sepoltura, a Costantinopoli (città di cui Sant’Andrea divenne patrono), mancava però la testa, che continuò ad essere conservata a Patrasso e che lì resto, in mano ai bizantini, anche dopo l’ingresso dei Crociati a Bisanzio.

Dopo due secoli e mezzo da allora, la testa del santo fu dunque finalmente donata, insieme ad altre reliquie del martirio dell’Apostolo, dal re di Morea, Tommaso Paleologo a Papa Pio II. Tommaso, che era stato spodestato dai Turchi (ed era riuscito miracolosamente a mettere in salvo la reliquia) sperava in questo modo di ingraziarsi il papa cattolico visto che Bisanzio era stata nuovamente riconquistata dagli Ottomani e soltanto una nuova iniziativa da Roma, con l’indizione di una nuova Crociata poteva restituire Costantinopoli ai cristiani.

La reliquia della preziosa testa fu dunque affidata al Cardinale Bessarione, che fungeva da vero e proprio ambasciatore, il quale in un lungo viaggio per nave era giunta fino ad Ancona e di qui trasportata fino a Narni e poi, via fiume, attraverso le acque del Tevere fino a Roma, a Ponte Milvio, dove, appena disceso dal battello, il Cardinale aveva trovato ad accoglierlo il Papa in persona. Fino al Cinquecento la memoria del fausto avvenimento fu consegnato soltanto all’edicola e alle colonne. In seguito fu realizzata la chiesa di Sant’Andrea (a pianta quadrata con cilindro, che si trova nei pressi) e l’Oratorio che nel 1566 Papa Pio V concesse all’arciconfraternita della Trinità dei Pellegrini. Il luogo infatti, era una delle mete privilegiate, e delle soste obbligate dei pellegrini che percorrendo la Via Francigena, da Nord, giungevano nella Città Santa. 

L’edificio di culto fu dotato anche di un cimitero destinato proprio ad accogliere i pellegrini morti durante il loro viaggio di avvicinamento a Roma. Il cimitero, che doveva essere molto esteso, è ormai ridotto ad un piccolo recinto, nel quale restano soltanto alcune lapidi con iscrizioni e l’erma marmorea del cardinale Piccolomini, nipote del Papa.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore