14/03/24
Domenica 17 Marzo alle 17,30 alla Libreria Eli "Roma nel Seicento" , sesto incontro con la magia di Roma
28/09/23
"STORIE DI ROMA" - Un nuovo ciclo di incontri tematici su Roma e le sue infinite storie presso la Libreria Eli - Domenica 1 ottobre ore 11
Il ciclo d’incontri:
Il corso/seminario da tenersi da ottobre 2023 a maggio 2024 affronterà in percorsi di circa due ore ciascuno, le tappe significative della storia trimillenaria di Roma mediante l’attraversamento dei luoghi conosciuti e meno conosciuti e degli aneddoti, curiosità, letture, citazioni, ecc.. con l’uso di slides e il coinvolgimento totale dei partecipanti, alla conoscenza dei molti segreti e misteri della Città Eterna.
In ogni incontro la Passeggiata virtuale consentirà di conoscere meglio i luoghi, la storia le infinite curiosità su Roma, come di solito non si vedono mai.
Quando:
MERCOLEDI' 1 ottobre 2023 Ore 11:00
Il piano degli incontri:
- Ottobre: Le origini della Città – I Luoghi e le leggende della Fondazione, i Re di Roma.
- Novembre: L’età antica – La Roma Repubblicana
- Dicembre: L’età antica – La Roma Imperiale
- Gennaio: Dalla Caduta dell’Impero Romano d’Occidente all’Anno Mille
- Febbraio: La Roma Medievale
- Marzo: Il Rinascimento a Roma
- Aprile: Il Risorgimento a Roma e l’Ottocento
- Maggio: Dai primi del Novecento ai giorni nostri
06/06/23
L'oscura Via del Mandrione, a Roma, amata da Pasolini
Fa una certa impressione immaginare che dalla costruzione dell’ultimo dei grandi maestosi acquedotti romani (i cui resti ancora giganteggiano per l’Italia) trascorsero ben tredici secoli prima che si sentisse la necessità a Roma di realizzarne uno nuovo.
24/02/23
Presentazione de "Le Basiliche di Roma" di Fabrizio Falconi a Via Panisperna, il 3 marzo !
28/01/23
L'intervista a RadioUno: Le Basiliche di Roma, Il nuovo libro di Fabrizio Falconi
Un viaggio avventuroso nella storia bimillenaria delle meravigliose Basiliche di Roma. Dalle Basiliche antiche del Foro Romano, ancora superstiti, alle quattro patriarcali, alle tre minori, alle oltre venti paleocristiane, piene di storia.
Questo è Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi, appena uscito in tutte le librerie.
E ordinabile su Amazon e su tutte le librerie online.
Del Libro e delle Basiliche di Roma ho parlato nella intervista a Alessandra Rauti di Radio Rai nella intervista andata in onda a Incontri d'Autore su RadioUno domenica 23 gennaio 2023.
18/12/22
Un Libro per il Vostro Natale, appena uscito in Libreria : "Le Basiliche di Roma" - INTRODUZIONE
05/11/22
Esce il 25 novembre "Le Basiliche di Roma", il nuovo Libro di Fabrizio Falconi
Sinossi
Dalle costruzioni pagane e paleocristiane fino a San Pietro e San Giovanni in Laterano
La storia bimillenaria di Roma è indissolubilmente legata a quella delle numerose basiliche che punteggiano la città. Che si tratti delle grandi chiese della cristianità o degli edifici pubblici pagani superstiti, questi luoghi sono diventati iconici della grandezza di Roma, e non mancano mai di stupire e affascinare i milioni di turisti che visitano la Città Eterna. In questo prezioso libro, Fabrizio Falconi illustra la nascita e il significato originale delle basiliche, per poi condurre il lettore in un percorso che tocca tutte quelle presenti nell’Urbe. Si raccontano aneddoti e curiosità sulla costruzione e la storia di questi magnifici luoghi, spaziando dalle quattro basiliche apostoliche ai ruderi di quelle di Roma antica, fino ad arrivare alle basiliche minori e a numerose chiese di fondazione paleocristiana. Da San Pietro in Vaticano alla Ulpia, da San Giovanni in Laterano a Santa Croce in Gerusalemme fino a Santa Cecilia in Trastevere e San Martino ai Monti: uno straordinario viaggio all’interno della storia della Capitale.
La storia di intere generazioni racchiusa in monumenti eterni
La basilica di San Paolo fuori le mura
Santa Maria Maggiore
Santa Croce in Gerusalemme
San Sebastiano fuori le mura
San Lorenzo fuori le mura
Santa Prassede
Santa Maria degli Angeli e dei Martiri
Santi Dodici Apostoli
Santa Maria sopra Minerva
Santa Maria in Domnica
San Clemente
e tante altre...
- ISBN: 8822767179
- Casa Editrice: Newton Compton
- Pagine: 288
- Data di uscita: 25-11-2022
03/05/22
A Roma esisteva una "Via Tiradiavoli" - una storia di apparizioni e bizzarrie
Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.
Del resto questa consolare fu una
delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e
come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo
scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura
al XII secolo a.C.
L’Aurelia Vetus – questo
primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del
Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava
sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno,
che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna,
Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine
con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone
paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano
durante la costruzione (come i temibili Apuani).
Una costruzione che durò per tre
secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta
che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle
popolazioni alpine.
Ma a noi interessa qui il circuito
cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio,
anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le
altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene
anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui
resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera
del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via
Aurelia, intorno al 241 a.C.
La Via Aurelia poi, si inerpicava
sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa
Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di
Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare
dal litorale.
Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato,
rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere
Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.
E proprio lungo questo itinerario
c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata
da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la
celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla
villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia
Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a
sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via
Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica
romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa
nell’Aurelia Antica.
Come nacque la leggenda è opportuno
brevemente narrare.
A Donna Olimpia Maldaichini, che il
popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta
dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a
Roma una importante via e una piazza.
La gente di Roma la chiamava anche Papessa, per le sue frequentazioni importanti
oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il
Cardinal padrone.
Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta
che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa
sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia », che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta) pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).
Nata a Viterbo nel 1592 da una
famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista
Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di
Innocenzo X.
Grazie alla sua sottile
intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed
in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua
morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro,
contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj.
Innocenzo X, avvalendosi dell’opera
dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando
Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano, edificando la sontuosa Villa Pamphilj,
organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali,
dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.
Dopo la morte di Panfilio, il
fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più
vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera dall’assolvere i doveri
coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato,
alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio
dalle pasquinate) secondo le quali i due erano stati amanti, ed
era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli
nel sonno un potente veleno.
Cinque anni dopo, l’ascesa di
Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il
trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il
cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare
importante che a Roma potesse essere
deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere
ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo
avallo. Al figlio della nobildonna,
Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e
delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale,
ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio
paterno.
Questo potere smisurato attirò però
su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la
proliferazione di rumorosi scandali, che
ne aumentarono la fama controversa.
Un ultimo
episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di
Innocenzo X, che morì il 7 gennaio del
1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora
caldo del Pontefice, Olimpia non si
fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli
fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper
nulla, né di esequie, né di sepoltura o
dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice
morto: con il risultato che la salma di
Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne
vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il
cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima
bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era
stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale
dell’austera Olimpia.
Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al
Cimino, nel viterbese, Olimpia
sopravvisse due anni, prima di morire.
Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per
molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu
cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale
la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre
fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano
portare con loro l’anima avida della signora.
Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha
cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto,
esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013
19/04/22
La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943
San
Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.
Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.
La pioggia di bombe del 19 luglio
smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e
ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le
braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo,
scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura,
gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.
Oltre ad
aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva
anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San
Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino
Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la
supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri
cristiani.
E anche
se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma,
martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa
custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa
cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il
26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano,
tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di
Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al
36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione
sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.
A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni
anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato
che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme, assiste anche Paolo, che ancora non si è
convertito (dunque prima del 40 d.C.).
.
In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.
Essendo
poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che
riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in
disparati angoli d'Europa.
L'episodio
più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda
Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono
solennemente portate dal vescovo Giovanni II.
Qualche
anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide,
dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il
pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da
Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei
Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le
Mura.
La
reliquia della testa di Santo Stefano, invece, si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le
mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III
(1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a
S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del
cardinale Scipione Cobelluzi.
29/03/22
Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma
Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di
specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul
declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa
in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in
quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla
divinità di Flora, dea romana delle piante.
La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi.
La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia
piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi
visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme
distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe. Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il
cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più
anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava
all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando
furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e
spostato proprio nell’area dell’Aventino.
Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto
seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti. In questi tre spazi contigui, per circa 250
anni gli ebrei seppellirono i loro morti.
L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle
autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica. Falliti i primi tentativi di esproprio, per
la opposizione della comunità israelitica, nel
Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte
dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via
della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi
sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.
Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran
fretta traslate al Verano.
I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato
dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i
combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra. E soltanto nel 1950 il comune decise di
trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle
bombe.
La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed
il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a
tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della
originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti
che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate,
formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.
Ancora oggi, i kohanim, i
sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il
divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013
30/12/21
Torna in libreria, in una nuova edizione, "I Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi
Nato a Roma, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell'Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell'anima, In Hoc vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questo, Per dirmi che sei fuoco, Porpora e Nero. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato I fantasmi di Roma, I monumenti esoterici d'Italia, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Roma esoterica e misteriosa, 501 domande e risposte sulla storia di Roma.
29/10/21
Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?
Quando
fu costruito il primo teatro a Roma?
Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana.
Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C.
Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio.
Il
teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri
– e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo
Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della
città di Roma.
Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020
27/10/21
Il Palazzo del Monte di Pietà a Roma e l’orologio dalle ore matte
Il Palazzo del Monte di Pietà e
l’orologio dalle ore matte
E’ davvero molto lunga la storia del Palazzo del Monte di Pietà che
affaccia sulla piazza omonima, nel cuore del rione di Regola. Il Palazzo fu
costruito nel 1588 come nobile residenza di un Cardinale, Prospero Santacroce.
E’ soltanto quindici anni più tardi, nel 1603, dopo la morte del Cardinale, che
divenne la sede del Monte dei Pegni fondato nel 1527 da un padre minorita,
Giovanni da Calvi e che era originariamente ospitato in Via dei Coronari.
Per destinarlo alla nuova funzione – che era quella del Monte dei Pegni,
istituita da un gruppo di nobili romani papalini per combattere la piaga
dell’usura – furono necessari lavori di ampliamento del Palazzo Santacroce,
affidati ai più geniali architetti dell’epoca, Carlo Maderno e Francesco
Borromini: il Palazzo fu ingrandito e diviso in due parti, una destinata a
conservare il denaro, e l’altro i pegni che da quel periodo in poi i Romani in
difficoltà economica andavano a piazzare
al Monte.
Tra i numerosi abbellimenti e ornamenti del Palazzo, si provvide nel
Settecento anche a dotare il Palazzo di un grande orologio – uno dei più grandi
di quelli pubblici a Roma – al di sotto del campanile a vela sul frontone.
A quanto pare però, questo orologio monumentale, sin dalla sua
installazione, cominciò a mostrare difetti di funzionamento, con gli orari che
quasi mai coincidevano con gli altri orologi romani.
Una leggenda – probabilmente basata su un fondamento di verità – allora,
spiegò questo malfunzionamento con l’ira di un orologiaio, quello che si era
dedicato alla costruzione del meccanismo, il quale indignato per la somma
ricevuta, ben più bassa rispetto a quanto pattuito, aveva deciso di sabotare il congegno lasciando perfino
la firma del suo dispetto, con una iscrizione incisa sull’orologio stesso: Per non esser state a nostre patte/ orologio
del Monte sempre matte. E cioè, in
pratica: accordi saltati, orario impazzito. Più verità che leggenda visto che
l’iscrizione pare vi fosse realmente e fu cancellata dalle autorità cittadine
in tempi relativamente recenti.
Resta la singolare circostanza che proprio una comune, quotidiana
questione di soldi finì per condizionare e per restare ad emblema – visto che
l’orologio anche ai tempi nostri continua a seguire un suo orario – del Palazzo
che più di ogni altro a Roma è stato ed è il simbolo del denaro.
11/05/21
La Ruota degli Esposti medievale, all'Ospedale Santo Spirito di Roma
05/04/21
Una Pasquetta a Roma di tanti anni fa - 1944: Il Gobbo del Quarticciolo, eroe e bandito tra realtà e leggenda
Il quartiere Alessandrino, alla
estrema periferia est di Roma, che prende il nome dall’acquedotto fatto
costruire dall’imperatore Alessandro Severo,
si è sviluppato a partire da un nucleo originario conosciuto come Quarticciolo,
una borgata costruita al quarto miglio della Via Prenestina, proprio lì dove
sorgeva una grande tenuta agricola di proprietà della famiglia Santini, durante
gli anni trenta e quaranta del Novecento, per accogliervi soprattutto gli
immigrati del sud d’Italia che in quel periodo venivano a cercare lavoro a Roma
e gli sfollati delle zone del centro città interessati dai vari sventramenti
urbanistici che furono attuati durante il Ventennio per la realizzazione delle
vie imperiali.
Il Quarticciolo fu realizzato con
criteri di architettura razionalista – gli stessi utilizzati per l’edificazione
delle nuove città dell’Agro pontino – con vie lineari, edifici a quadrilateri
compresi in giardini, la piazza rettangolare, con la chiesa, polo di attrazione
del complesso.
Questa stessa struttura si può
vedere ancora oggi, nonostante i grossi cambiamenti esteriori ed un certo
degrado, causato dallo sviluppo della metropoli e dalla urbanizzazione
massiccia della zona.
Il Quarticciolo, negli anni della
occupazione nazista, della resistenza romana e del dopoguerra, ospitò una delle
figure più note e controverse della storia recente della città: quella di
Giuseppe Albano, un partigiano nato in provincia di Reggio Calabria, giunto a
Roma con la sua famiglia all’età di dieci anni, nel 1936, divenuto noto per
tutti con il soprannome di Gobbo del
Quarticciolo: a capo di una banda di
piccoli malfattori, a partire dagli anni Quaranta, Giuseppe Albano si rese
protagonista di una serie di episodi e imprese che lo fecero identificare, agli
occhi della popolazione di allora, come una sorta di Robin Hood, le cui
finalità erano quelle in primis di combattere gli odiati invasori tedeschi e
poi quella di punire gli italiani che approfittando della situazione avevano,
in tempo di guerra, malversato i loro concittadini, con il mercato nero e
l’usura.
Le avventure di Giuseppe Albano e
della sua banda divennero così note in quegli anni che anni dopo, nel 1960, il
regista Carlo Lizzani, recentemente scomparso, pensò bene di realizzarvi un
film, cui prese parte, tra i vari protagonisti, anche Pier Paolo Pasolini.
Il Quarticciolo, con le sue vie
nascoste, con i suoi sentieri che sbucavano nell’aperta campagna, divenne per
Albano, una sorta di Quartier Generale. All’età di sedici anni cominciò a
mostrare le sue doti di coraggio nelle lotte partigiane che si svolsero dopo
l’8 settembre nella zona di Porta San Paolo.
Seguirono numerose azioni di
sabotaggio ai danni delle truppe naziste compiute insieme ad una piccola banda,
che rispondeva principalmente agli ordini di un altro partigiano, Franco
Napoli, detto Felice. Se Napoli era la mente, Albano era però il braccio: in breve tempo tutta Roma
cominciò a parlare delle sue imprese, che rinfrancavano il popolo soggiogato
dalla occupazione tedesca. Riusciva
sempre a farla franca, dopo ogni azione di sabotaggio, durante la quale veniva
ucciso uno o più soldati nemici, o veniva fatta saltare in aria una garitta o
un mezzo blindato. Albano appariva e
scompariva senza lasciare traccia, nonostante la sua evidente malformazione
dovesse rendergli più facile l’essere identificato dai nemici. Eppure l’efficiente polizia tedesca non
riusciva a catturarlo. I primi mesi del
1944 registrarono una vera e propria escalation di azioni della banda del Gobbo del Quarticciolo. Centocelle e
Quarticciolo, le borgate dove Albano e i suoi si nascondevano, divennero zona
off-limits da parte dei nazisti che avevano timore ad entrarvi per la paura di
imboscate. Fu perfino emanato un ordine
di arresto che riguardava tutti i gobbi di Roma. E lo stesso Albano fu preso, al seguito di un
sanguinoso episodio accaduto il lunedì di Pasqua del 1944, quando in una
osteria del Quadraro furono uccisi a sangue freddo tre soldati tedeschi. Herbert Kappler, al comando delle truppe di
occupazione, decise che si era passato il segno e fece rastrellare Quadraro e
Quarticciolo. Albano fu preso tra gli
altri, ma incredibilmente riuscì a farla franca anche stavolta, e poco dopo fu
liberato.
Terminata la guerra, Albano non rinunciò al suo ruolo di vendicatore. Con l’arrivo degli alleati,
il Gobbo fu assoldato dalla questura per rintracciare i responsabili delle
torture di Via Tasso. Albano andò oltre il compito che gli era stato assegnato,
mettendosi personalmente alla ricerca di tutti quelli che si erano resi
colpevoli, negli anni dell’occupazione di usura e borsa nera.
Per mettere fine alle scorribande
del Gobbo fu organizzata una vera e propria operazione militare che riguardò il
Quarticciolo. Albano riuscì in un primo momento a fuggire, ma poco tempo dopo, il 16 gennaio del 1945,
fu rintracciato e ucciso in una casa del quartiere Prati, in Via Fornovo 12,
dopo uno scontro a fuoco con i carabinieri.
Albano non aveva ancora compiuto vent’anni.
Le circostanze della sua morte non
furono mai chiarite del tutto: sono state ipotizzate trame più o meno oscure e
soprattutto un regolamento di conti tra diverse bande di partigiani, una delle
quali sarebbe stata strumentalizzata dai servizi segreti di allora, per creare
destabilizzazione e favorire il ritorno della
monarchia.
Resta il fatto che dopo la morte
del Gobbo, anche il resto della banda
fu presto sgominato con un’altra operazione militare concentrata nel
Quarticciolo, casa per casa.