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16/04/22

Ingeborg Bachmann e Roma, un destino tragico

 


Sto leggendo in questi giorni l'epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, meritoriamente pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui parlerò più avanti, e mi torna alla mente il tragico destino della grande scrittrice austriaca, innamorata del nostro paese e di Roma, in particolare, dove finì i suoi giorni nel modo più tragico. 

Dopo diversi soggiorni, in gioventù e nell'età matura, la Bachmann era tornata nel 1965 a Roma, a trentanove anni. Era una autrice ormai affermata, anche se il suo stile raffinatissimo, le sue poesie rarefatte e i racconti e i romanzi densi e magici, non potevano essere destinati a un grande pubblico. 

In quel periodo poi, la scrittrice soffriva per la dipendenza da pillole e alcol e scriveva assai poco. 

Nel 1967 aveva lasciato il suo editore, la Piper Verlag in segno di protesta per aver incaricato l'ex leader dell'HJ (la gioventù nazista) Hans Baumann di tradurre il Requiem di Anna Achmatowa, sebbene la Bachmann avesse caldamente raccomandato l'amico Paul Celan, passando alla Suhrkamp Verlag. 

Nella sua ultima lettera a Bachmann del 30 luglio 1967, Celan la ringraziava per aver preso parte all'"Affare Achmatowa". 

Quattro anni dopo, nel 1971 la Bachmann pubblicò Malina, il romanzo considerato il primo volume di una prevista trilogia intitolata Tipi di morte

L'ultimo lavoro di Bachmann è oggi considerato un "paradigma della scrittura femminile". 

Ancora due anni dopo, la fine improvvisa di uno spirito geniale e tormentato: nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1973, Ingeborg Bachmann subì gravi ferite nel suo appartamento romano, in Via Giulia, a causa di un incendio appiccato da una sigaretta accesa mentre si stava addormentando. 

Oggi  si sa che la sua dipendenza dalle pillole fu considerata una delle ragioni dell'incendio. 

Alfred Grisel, un amico intimo, riferì di una visita a Bachmann a Roma all'inizio di agosto 1973: “Sono rimasto profondamente scioccato dall'entità della sua dipendenza dalle pillole. Dovevano esserci circa 100 pezzi al giorno, il cestino traboccava di scatole vuote. Aveva un aspetto brutto, era pallida come la cera. E su tutto il corpo coperto di macchie. Mi chiedevo cosa potesse essere. Poi, quando ho visto la Gauloise che stava fumando scivolare dalla sua mano e bruciarsi sul braccio, l'ho capito: ustioni causate dalla caduta delle sigarette. Le tante pillole avevano reso il suo corpo insensibile al dolore.”

Dopo il grave incidente, la Bachmann fu portato all'ospedale Sant'Eugenio. La sua forte dipendenza dai sedativi (barbiturici), di cui i medici curanti inizialmente non erano a conoscenza, innescarono convulsioni simili a crisi epilettiche. 

Il 17 ottobre 1973 morì di sintomi di astinenza fatali all'età di 47 anni. 

Fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. 

Le indagini su un possibile sospetto di omicidio furono chiuse dalle autorità italiane il 15 luglio 1974. 

In un necrologio in Der Spiegel, Heinrich Böll descrisse la scrittrice come una dei pochi "intellettuali brillanti" che "non hanno perso la sensualità né trascurato l'astrazione nella loro poesia". 

Il suo patrimonio di 6.000 pagine si trova nella Biblioteca nazionale austriaca dal 1979 e può essere visualizzato nell'archivio della letteratura . Dal 2018 esiste anche un patrimonio parziale di quasi 1000 pagine con scritti e lettere dei suoi giorni da studente. 

Nel febbraio 2021 è stata decisa la vendita della casa dei genitori di Ingeborg Bachmann in Henselstraße 26 a Klagenfurt, alla fondazione privata carinziana.

I beni privati ​​di Bachmann, che Heinz Bachmann, fratello di Ingeborg Bachmann, riportò qui dall'appartamento romano dopo la sua morte, sono ancora conservati nella casa. 

Si prevede di aprire la casa al pubblico sotto la direzione del Klagenfurt Musil Museum.

Fabrizio Falconi - 2022

24/11/20

Domani 50 anni dalla morte eclatante di Yukio Mishima

Yukio Mishima si fa fotografare nei panni di San Sebastiano dipinto da Guido Reni


Come tutti coloro che, in una sorta di astratta fusione tra sentimento e vita, anelano idealisticamente all'assoluto anche Yukio Mishima (pseudonimo di Kimitake Hiraoka), scrittore giapponese morto giusto 50 anni fa, il 25 novembre 1970 a 45 anni, con un suicidio eclatante e drammatico, era in quel periodo di contestazione globale e di vogliamo tutto, che e' una forma di assoluto, una figura riconosciuta a livello internazionale, un modello, anche se lontano. 

Solo per capire, potremmo dire che fu un po' come per noi Pasolini, artista con la sua nostalgia di una societa' precapitalista e la denuncia del potere presente. 

Oggi, ricordato in particolare dalla destra, visto che la sua parabola esistenziale e ideologica potremmo facilmente etichettarla secondo i nostri riferimenti come di tipo fascista, Mishima si cerca di rileggerlo reinserendolo nella realta' nipponica cui profondamente apparteneva e in un'idea culturale quasi metafisica. 

Per intendere la sua estraneita' a una realta' concreta e contingente basti ricordare l'interesse che dimostro' per gli studenti sessantottini di sinistra e la loro lotta idealista di contestazione al sistema capitalista, che per Mishima riduceva l'uomo a una dimensione calpestando dignita' e valori tradizionali, che pero' per lui erano incarnati nella figura trascendentale, assoluta dell'imperatore

E' quindi nel nome dell'imperatore e in difesa della bellezza e autenticità del mondo ucciso dalla fine della guerra (Hiroshima) , che lo scrittore da inizio anni '60 avvia il proprio processo di radicalizzazione nazionalista e militarista secondo il principio che "sapere senza agire equivale a non sapere", arrivando nel 1968 a costituire una sua associazione paramilitare, Tate no kai (Societa dello scudo). 

Una decina di anni dopo, appena consegnato all'editore l'ultimo romanzo, "Il mare della fertilita'", finira' cosi' la propria vita con un Suppoku, l'harakiri dei samurai con una spada nel ventre, dopo aver cercato di far scattare la scintilla di una sorta di colpo di stato, irrompendo con i suoi seguaci nel ministero della difesa e arringando i militari affinche' si ribellino per restaurare i valori spirituali del Giappone imperiale

E il suo inneggiare all'Imperatore era, appunto, simbolico, qualcosa di metafisico e idealistico e col suo suicidio si lega alla dichiarata fede nell' "Hagakure", libro del XVII secolo sull'etica dei samurai. 

Mishima, che nonostante la sua omosessualità si era sposato e aveva avuto due figli, era un personaggio pubblico gia' prima, scrittore di successo, fautore di arti marziali come il Kendo, protagonista del film "Patriottismo", su di un ufficiale che decide di uccidersi col suppoku con la moglie: sua sceneggiatura profetica poi anche diretta e interpretata, e con sue foto che appaiono sui giornali popolari. 

Il fatto e' che l'azione, e la produzione letteraria da "La spada" del 1963 sino ai testi ultimi lancinanti come il dramma "Madame De Sade" del 1963 e la narrazione e personale rilettura storica "Il mio amico Hitler" del 1968, hanno finto per mettere in ombra le qualita' dello scrittore e in particolare dei suoi primi libri di analisi psicologica a sfondo piu' o meno autobiografico, come il sofferto "Confessioni di una maschera" del 1949 sui problemi con la propria omosessualita', e poi "Colori proibiti", "La voce delle onde" (scritto dopo un lungo viaggio in Grecia e ispirato al mito di Dafni e Cloe), "Il padiglione d'oro" del 1962, nato da un fatto di cronaca, l'incendio di un tempio tradizionale da parte di un giovane handicappato, e considerato il suo romanzo migliore, sino a "Dopo il banchetto" e "La stella meravigliosa" del 1961, con spunti fantascientifici. 

Sono romanzi strutturati, ricchi di riferimenti culturali e notazioni filosofiche, che riflettono letture occidentali ma restano ben inseriti in quella tradizione letteraria giapponese confermata dall'amicizia che Mishima ebbe con uno scrittore quale il premio Nobel per la letteratura Kawabata. In occasione di questo cinquantenario escono in Italia due saggi: "Mishima martire della bellezza" di Alez Pietrogiacomi (Alcatraz, pp. 160 - 12,00 euro) che raccoglie "le frasi tratte dalle sue opere e dai suoi discorsi, per creare una sorta di manuale per moderni guerrieri, per uomini e donne dallo spirito indomito e poetico, capaci di riflettere e agire al tempo stesso"; e "Yukio Mishima. Enigma in cinque atti" di Danilo Breschi (Luni, pp. 258 - 20,00 euro), saggio che ne vuol restituirne l'originale figura artistica, comparandola con autori che vanno da Kierkegaard a Pirandello, da Camus a Cioran, e affrontandone, tra vita e pensiero, "quel corto circuito tra il medioevo piu' feudale, gerarchico e guerriero, ed una modernita' tanto avanzata da anticipare il postmoderno". 

Segnalo anche un bellissimo saggio su Mishima, il Giappone e l'arte del Sumo, contenuto nel libro "Civette impossibili" di Brian Philipps uscito da poco per Adelphi. 

28/03/15

Germanwings / Lubitz. Eugenio Borgna: "Non è depressione, è odio per il mondo".





Tentare di spiegare il gesto estremo del copilota della Germanwings attribuendolo alla depressione è sbagliato. 

È più corretto parlare invece di una forma di odio e risentimento verso il mondo, da parte di chi non si sente compreso e vittima di un'umiliazione profonda. 

Eugenio Borgna, fra i più autorevoli psichiatri italiani, noto per la sensibilità e la competenza con cui si avvicina alla psiche umana, spiega che non è corretto chiamare in causa la depressione a proposito di Andreas Lubitz, come stanno invece facendo in molti nel dibattito sui giornali e i social media.


«Premettiamo che ogni suicidio resta un mistero profondo, rispetto al quale solo lettere o documenti del suicida posso gettare qualche luce. Detto questo, può essere stata la depressione a indurre quel giovane di 28 anni a un gesto di una tale, inaudita violenza? Non mi sembra possibile. Nel suicidio dovuto a depressione si sceglie la morte come soluzione alla propria angoscia: accade ad esempio alla madre colpita da depressione post partum, che elimina se stessa e i figli nella convinzione che sia l'unico modo per cancellare una sofferenza insostenibile».

 Come possiamo spiegare allora l'accaduto? 

«Sicuramente siamo in presenza di uno sconvolgimento psichico che sconfina in una forma di delirio, nel quale ogni legame con la realtà è rescisso. Oppure si può pensare a un'esperienza di profonda umiliazione, che si traduce in una forma di ritorsione contro il mondo, con il quale ci si sente in conflitto. Possiamo immaginare che quel ragazzo, nonostante gli attestati di eccellenza tecnica, nutrisse sentimenti di vendetta verso gli altri, verso il mondo intero, da cui non si sentiva compreso. Quando si è devastati dall'idea delirante di non essere riconosciuti, il sentimento di odio cresce e diventa un tumore». 

Quindi Lubitz era consapevole di uccidere altre vite, oltre alla sua? 

«Ne era perfettamente consapevole. Ai suoi occhi la gente a bordo dell'aereo conduceva una vita serena e dotata di senso - ciò che a lui era negato. Quindi, il sacrificio della sua vita gli appariva accettabile per distruggere la gioia altrui». 

Un'altra ipotesi può essere la paranoia, «percepire il mondo come un'entità da cui ci sentiamo aggrediti», spiega lo psichiatra. 

Oppure ancora, si può pensare a «una persona sconvolta da disturbi psichici nella quale è scattato il desiderio di imitazione: compio un gesto clamoroso per passare alla storia, come i kamikaze, come chi si dà fuoco». 

Certo, conclude Borgna, «in tutte queste ipotesi c'è più verità psichiatrica che in quella della depressione. Sostenere questa tesi, tra l'altro, può gettare nel panico le famiglie che vivono accanto a una persona affetta da depressione».

17/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (1./)






Pubblico come ogni mese, il profilo di una grande anima da me riscritto.  Oggi la prima puntata e a seguire nei prossimi giorni le altre. 


(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (1./)


     

Signore tu lo senti
ch’io non ho voce più
per ridire
il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi
ch’io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue
consolatrici.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te
ch’io riviva.

Perché tu sai, Signore,
che in un tempo lontano
anch’io tenni nel cuore
tutto un lago, un gran lago,
specchio di Te.
Ma tutta l’acqua mi fu bevuta,
o Dio,
ed ora dentro il cuore
ho una caverna vuota,
cieca di Te.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch’io riviva.

   E’ una poesia – Preghiera -  che Antonia Pozzi scrisse il 20 Ottobre del 1932. Antonia è all’epoca una studentessa universitaria, all’Università Statale di Milano, ha appena vent’anni. La sua giovane vita sta per spezzarsi. Succederà appena sei anni dopo, alla periferia di Milano, in un prato innevato di fronte all’Abbazia di Chiaravalle.  E’ il 3 dicembre del 1938, poche settimane prima Hitler ha iniziato l’occupazione dei Sudeti e in Italia sono state promulgate le leggi razziali. Antonia ha ingerito barbiturici.  Il suo corpo viene ritrovato da un passante.  Nella borsetta, c’è un messaggio di addio indirizzato alla mamma e al papà. Si conclude con queste parole: Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete perché sono in pace.
   Il suicidio viene subito archiviato come uno dei molti di quegli anni bui, in cui la guerra torna a gravare ancora più spaventosamente sul mondo: è soltanto una studentessa che ha deciso di farla finita, Antonia del resto non ha pubblicato fino a quel giorno nemmeno un rigo delle sue poesie. 
   Eppure, proprio a partire da quella morte, avvertita come una vergogna dalla famiglia – il padre, stravolto dal dolore incenerisce perfino il biglietto di addio, ricostruendolo solo più tardi, a memoria – e da un ambiente -  quello della cultura fascista - che non ha molto in simpatia chi sceglie di suicidarsi,  l’opera di Antonia, scritta in soli nove anni, diventa un classico del Novecento poetico italiano, con continue pubblicazioni e studi critici, fino ai giorni nostri. 
   Non è difficile comprendere perché.  Già il testo che abbiamo riportato qui - la Preghiera - dice molto sullo spirito di questa donna, e forse bisognerebbe leggerla più volte, per apprezzarne le sottili sfumature. 
   Che Antonia fosse dotata di una sensibilità fuori dal comune era stato chiaro sin dall’inizio, sin dai suoi anni giovanili.
   Nata in una famiglia di antico lignaggio -  il padre è un’importante avvocato milanese e la madre è la contessa Lina Cavagna Sangiuliani – trascorre l’infanzia e l’adolescenza dapprima nelle grandi ville della nonna materna, a Bereguardo e a Carate Urio, poi nella splendida casa milanese di via Mascheroni.  I periodi di vacanza l’intera famiglia si trasferisce invece a Pasturo, in Valsassina, dove i Pozzi hanno comperato una dimora del Settecento,  Villa Marchiondi, ai piedi delle Grigne, in provincia di Lecco.
   Ad Antonia viene assicurata l’educazione migliore di una famiglia benestante: pianoforte, lo sport - sci, nuoto, equitazione-  l’arte applicata - il disegno e la scultura – le scuole migliori. 
   Ma questa perfezione non si addice o non completa comunque una personalità già teneramente inquieta, già alla ricerca di qualcosa di indefinito, che preme, che vuole uscire, che non si accontenta.
   Si iscrive al Liceo classico Manzoni, di Milano, uno dei più prestigiosi, studia con profitto – imparandole alla perfezione – tre lingue straniere: tedesco, francese, inglese.  Ha la fortuna di avere un brillante professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi.  L’uomo è molto più grande di lei.  Eppure nasce un intenso, profondo e drammatico legame.   Un legame che verrà bruscamente spezzato per lo scandalo che ne consegue e che segnerà profondamente tutta la sua esistenza fino alla morte.
 E’  terribile essere una donna e avere diciassette anni, scrive Antonia in una lettera al professore, all’inizio della loro relazione, il 13 luglio del 1929, al ritorno di un viaggio, dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi.  Che cosa è un ritorno ? Una cosa che per qualche ora  scioglie i duri groppi che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo. (1) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.     I brani delle lettere citati in questo capitolo sono tratti dal volume: Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita – Lettere 1927-1938  Rosellina Archinto Editore, Milano, 1989. 

30/11/10

La morte di un grande Maestro: Mario Monicelli.



'Beat' a iss..' : è la magnifica 'chiosa' del povero ignorante alla morte di 'Abacucco', uno degli straordinari personaggi inventati da Mario Monicelli in quel capolavoro assoluto che è 'L'armata Brancaleone,' del 1966, scritto insieme ad Age e Scarpelli (che vale da solo più di un centinaio di pesantissimi saggi di politica culturale, per comprendere l'antropologia storica dell'homo italicus) uno dei moltissimi film che il grande maestro viareggino ha lasciato in eredità al cinema e alla cultura italiana.

In questa scena c'è tutta la filosofia di vita del 'pessimista' Monicelli (la vita come una condanna, una croce da portare): sembrava anzi, nel suo consolidato scetticismo toscano, che nessun altro approccio che il pessimismo fosse consentito di fronte alla vita.

Eppure, tutto il suo cinema è uno straordinario inno alla vita. La vita in tutti i suoi aspetti più folgoranti e grotteschi, in tutte le sue misere e grandi esaltazioni e in tutte le sue rovinose cadute.

Se c'è stato un innamorato della vita, questi era Monicelli. Che nel suo cinema non si è limitato a descrivere - forse come meglio non si poteva - l'italia e gli italiani (ai quali era legato da un sentimento di amore/odio che 'Brancaleone' massimamente esprime), ma ha fornito una visione autentica dei fatti della vita, dei contenuti della vita per quello che è. Non a caso i suoi film, privilegio della vera arte, si sono rivolti e sono stati compresi da ogni tipo di pubblico, di ogni età, di ogni censo, di ogni nazionalità.

Il suicidio del novantacinquenne Monicelli è l'ultimo disperato atto di appropriazione del proprio destino: la vita, anche nel distacco finale, ha voluto come sempre dirigerla lui, fino all'ultimo.