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01/12/20

Ecco perché Mario Luzi non vinse mai il Nobel - Il libraio di Stoccolma


Giacomo Oreglia, titolare dell'Italica di Stoccolma, che pubblicava autori italiani, pattuiva con essi che, in caso di vincita del Nobel, avrebbero dovuto riconoscergli un contributo

Quasimodo tenne fede alla parola e gli diede 20 milioni; Montale, invece, che ne aveva promesso 50, si limito' a chiedergli se in Svezia il Premio venisse tassato dallo Stato

Lo scrive oggi sul quotidiano "Libertà'" di Piacenza, Sebastiano Grasso in un articolo dedicato all'anniversario della morte di Mario Luzi, piu' volte nella rosa dei Nobel

Secondo Grasso a Luzi rimase il rimpianto del mancato Nobel e la colpa, a suo avviso, per molti, era stata proprio di Oreglia. 

"Piemontese di Mondovi', nel 1949 Oreglia si trasferisce a Stoccolma, dove fonda l'Italica, casa editrice che traduce autori italiani

Fra essi, Quasimodo e Montale (entrambi vincitori del Nobel di letteratura: una delle condizioni per potere avere il Premio e' quella di essere tradotti in svedese). 

Oreglia, che pubblica diversi libri di Luzi e insegna all'Istituto italiano di Cultura, quando la Farnesina decide di sistemare giuridicamente il personale precario estero e a Stoccolma arriva come ambasciatore Sergio Romano, deve scegliere se fare il docente o l'editore. 

Qualcuno suggerisce una soluzione "tecnica": intestare l'«Italica» alla figlia

Oreglia non solo rifiuta, ma attacca l'ambasciatore Romano su giornali svedesi - racconta ancora Grasso - e italiani, facendo la vittima (ruolo che non gli si addice proprio), urlando che, senza l'Italica, Quasimodo e Montale non avrebbero avuto il Nobel.

Nell'operazione coinvolge la natura generosa di Luzi, che sposa le sue ragioni e interviene a suo favore. Le polemiche, pero', non piacciono agli Accademici, che accantonano definitivamente il nome del poeta toscano"

28/02/18

"Tutto ciò che ho visto, tutto ciò che ho capito", una bellissima intervista a Liv Ullmann che quest'anno compie 80 anni.


Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Giorgio Vasta e uscita sul Venerdì di Repubblica del 6 Febbraio scorso, che ringraziamo. 
Una scogliera filmata in bianco e nero, le rocce piatte e scabre, sullo sfondo un frammento di mare grigio. Dal limite basso dell’inquadratura compare una donna, indossa un lupetto e una giacca impermeabile: ci guarda, solleva una macchina fotografica, fissa nell’oculare del mirino, scatta, impercettibilmente ci sorride, si volta e si allontana verso la costa caliginosa.
È una scena brevissima di Persona, il film con cui nel 1966 Ingmar Bergman ridefinisce la grammatica della narrazione per immagini, eppure, forse proprio per questa sua fugacità, quel lampo di fotogrammi è uno dei modi in cui il volto di Liv Ullmann – il suo sguardo perentorio e disarmato – si è fatto cinematograficamente indimenticabile.
Quando l’attrice norvegese gira Persona ha ventotto anni – nata a Tokyo nel ’38 trascorre l’infanzia in Canada e poi negli Stati Uniti, dopo la fine della Seconda guerra torna in Norvegia, a Trondheim – e, sebbene prima di allora abbia già recitato in altri film, il ruolo di Elisabet Vogler – l’attrice teatrale che all’improvviso smette di parlare trasformando il silenzio in una strategia di disvelamento – è il suo vero e proprio esordio. Una nuova origine, un ennesimo inizio. Qualcosa che non se ne sta immobile alle nostre spalle bensì davanti a noi, una sostanza di cui sentiamo la mancanza e che per una vita intera continuiamo a cercare. Nel suo capolavoro del 1957, Bergman chiamava questa origine là da venire «il posto delle fragole»; per Ullmann è qualcosa di immateriale.
Rispondendo alle nostre domande da Key Largo, in Florida, dove trascorre l’inverno – la voce fluida e sottile, a tratti esitante – Liv Ullmann racconta: «La mia origine è mio padre, che è morto quando avevo sei anni e che sento sempre intorno a me, ed è mia madre, scomparsa dieci anni fa, alla quale ho domandato scusa per tutto ciò che non ho saputo capire. Ma la mia origine è soprattutto mia nonna, l’odore del suo collo quando da piccola mi prendeva sulle ginocchia per raccontarmi le storie della sua infanzia. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che avesse quello stesso odore senza trovarlo né in mia madre né nell’uomo che amo né negli uomini di cui sono stata innamorata».
Il senso del dovere e il senso di colpa sono stati un altro modo in cui l’origine si è manifestata. «In tutti i miei film ho avuto la possibilità di elaborare il mio senso del dovere e di vederlo rappresentato nei ruoli che ho interpretato. Il senso di colpa è stato invece parte integrante della mia educazione, un condizionamento determinato anche dall’essere una donna in un mondo di uomini».
Colpa e dovere sono la corazza che Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen – per Ullmann una stella polare, un ruolo così lungamente frequentato da diventare la cartina di tornasole delle sue più personali metamorfosi –, riesce infine a spezzare. «Nel tempo il mio desiderio di liberarmi da questa armatura ha combattuto contro la mia educazione, ma in realtà non sono mai riuscita a svincolarmi del tutto. Ancora adesso, ogni mattina appena mi sveglio mi dico: Oggi sarò Liv, sarò una persona perbene ma non farò quanto gli altri si aspettano da me, solo quello che io penso sia ok. Come Nora, anch’io attendo ogni giorno di percepirmi come meraviglia».
In Cambiare, l’autobiografia pubblicata nel ’77 (seguita nell’85 da un secondo libro di memorie, Scelte), Ullmann racconta che negli anni di più intensa attività – durante i quali viaggia da un continente all’altro (spesso insieme a Linn, la figlia nata nel ’66 dalla relazione con Bergman) lavorando anche con Jan Troell, Terence Young, Richard Attenborough, e in Italia con Monicelli e Bolognini – poteva trovarsi, rientrata a casa, a osservare Tasse, la sua gatta, per rubarleun’espressione da usare in scena. Tutto ciò che esisteva era un patrimonio al quale attingere. «Il mondo è stato il mio partner. Nel mio modo di essere attrice c’è la consapevolezza di possedere qualsiasi sentimento, tutto ciò che ho visto e tutto ciò che ho capito. Quel che ho fatto è stato andare dentro di me, trovare questi sentimenti e tradurli all’esterno: in ogni gesto, anche solo in un’andatura».


Senz’altro in quelle espressioni che i close-up di Bergman hanno saputo osservare come nessun altro, da quella di Jenny in L’immagine allo specchio a quella di Anna Fromm in Passione, da quella di Alma in L’ora del lupo a quella di Eva in Sinfonia d’autunno, passando per il volto di Marianne in quel trattato di anatomofisiologia di una coppia che è Scene da un matrimonio – lo sguardo che slitta dalla felicità all’indifferenza fino a una disperazione del legame da cui affiora un ultimo barlume di solidarietà. «Amo il primo piano perché in quel momento il nostro sguardo arriva vicinissimo all’animo umano. È qualcosa che in teatro non può avvenire ma nel cinema sì, e quando avviene è fantastico: in quel momento la recitazione scompare: l’unica cosa che si deve vedere è la realtà di un volto al di là della realtà».
Passando in rassegna quei ritratti-indagine ci rendiamo conto che per il regista svedese il volto della donna con cui condivise una decina di film e cinque anni di vita(in gran parte trascorsi nella tana-rifugio dell’isola di Fårö, situata tra Russia e Svezia: «un relitto dell’età della pietra», nella percezione di Ullmann) è stato un luogo inesauribile da cui non riusciva a distogliere lo sguardo, come non ci riusciamo noi, oggi, constatando la potenza di quell’ovale così saldamente morbido, ortogonale e poroso, altero e delicato, fatto di granito e di cotone: un volto esemplare, essenziale e complesso, all’apparenza imperturbato ma in realtà – in quella particolare realtà che è il cinema – timido, inquieto, profondamente vulnerabile (un volto, quello di Liv – e quindi di Elisabet Jenny Anna Alma Eva Marianne – che nei prossimi mesi verrà visto innumerevoli volte: alla fine del 2018 Ullmann compirà ottant’anni e nello stesso anno in tutto il mondo si celebra il centesimo anniversario della nascita del regista del Settimo sigillo).
«Tutte le immagini scompariranno» ha scritto Annie Ernaux in Gli anni. Tutte le immagini. Tutto ciò che abbiamo pensato, tutto ciò che abbiamo ricordato. Tutte le percezioni. Prima di allora abbiamo però ancora modo di recuperare qualcosa. E dunque, quando la nostra conversazione sta per concludersi, c’è ancora il tempo per contraddire una certezza. «Trent’anni fa ero sull’isola di Macao. Davanti a me un recinto con un cartello che vietava l’ingresso, oltre il recinto decine di persone con la lebbra. Non intendevo entrare ma un prete cattolico mi si era avvicinato e mi aveva condotto all’interno. Addossata al recinto giaceva una donna molto vecchia: il volto deturpato, i moncherini, un pianto da neonata. Quando mi sono chinata e l’ho abbracciata ho sentito che il suo collo aveva lo stesso odore di quello di mia nonna».
Ciò che sparisce – chi sparisce – diventa di colpo reale: diventa l’origine davanti a noi, il nostro posto delle fragole. Un fantasma che prende la forma di un odore o si concentra in un balenare di fotogrammi: la scogliera, la donna, lo scatto della foto: Liv Ullmann che per un istante – dunque, in quella forma di memoria che è il cinema, per sempre – ci guarda, ci sorride, diventa indimenticabile.
Giorgio Vasta per il Venerdì di Repubblica

18/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./) 


  Questo sogno abitato divenne ben presto per il piccolo Bergman quello della immaginazione e dell’immagine, quando, a dodici anni, gli fu regalato un piccolo e rudimentale proiettore: la scoperta di una potenzialità nuova che permetteva di rielaborare magicamente il vissuto, ordinarlo e provare a dargli un senso.
   
  Non appena Ingmar fu capace di usare la sua arte, dopo averne imparato i fondamenti nella leggendaria Svensk Filmindustri dove il ragazzo cominciò a lavorare quando aveva soltanto ventiquattro anni, fu questo l’imperativo: ritrovare  in una stagione perduta ma viva ancora nella memoria, le sue idiosincrasie ma anche le sue passioni, e con esse la rielaborazione di una interpretazione complessiva sul senso dell’esistenza.

  Una attività infaticabile: ben 44 film, che possono tranquillamente leggersi come i capitoli di una profonda e consapevole vicenda umana, innumerevoli allestimenti in teatro,  con i migliori attori disponibili per reinterpretare Shakespeare, cinque diversi mogli e compagni di vita e di lavoro, come Liv Ullmann, una moltitudine di discepoli presunti o reali, e nessun vero erede.
    
   Titoli indimenticabili che hanno segnato come pietre miliari la storia stessa del cinema, dal primo vero successo,  Sorrisi di una notte d’estate, girato nel 1955,  al Settimo Sigillo, dell’anno seguente,  al Posto delle Fragole,  a Persona, negli anni ’60, Sussurri e Grida, Scene da un Matrimonio,  Il  Flauto Magico, L’uovo del Serpente, Sinfonia d’Autunno e Fanny & Alexander, una collezione di capolavori con i quali Bergman ha scandagliato con la precisione e la pazienza di  un entomologo il cuore umano.
   
   A partire da quel senso religioso e da quel silenzio di Dio  che il regista aveva ereditato – come tematiche costanti – dalla figura paterna.  La sua era una teologia della domanda bruciante, ha scritto Gianfranco Ravasi (4) dopo la morte di Bergman, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste.  Egli forse non scopriva mai una risposta che fosse suggello alla sua interrogazione insonne; a noi invece  - e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che cercano il senso dell’esistenza con un cuore che batte – gli squarci di luce erano emozionanti come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. 
   
   E sostanzialmente, il suo cinema era fatto essenzialmente di questo: “dubbi esistenziali, anticlericalismo, disperata ricerca d’amore, di un Dio che non è burocrazia, ma appunto amore.” (5)

    L’imprinting di questa rivolta radicale nei confronti di una religione di facciata, che può diventare strumento di oppressione e di persecuzione, e della ricerca di un senso più autentico del segreto trascendente insito nell’animo umano, è per Bergman pienamente rappresentato nel dato biografico: i temi del suo cinema in qualche modo non fanno che ripercorrere lo strappo con quel forte modello famigliare, messo in discussione violentemente da giovane: già dopo la maturità, come abbiamo visto, e dopo il servizio militare, Ingmar si iscrisse all’Università cominciando a occuparsi sistematicamente di teatro.  Intanto, aveva cominciato a convivere con una giovane attrice a Stoccolma.  Quando i genitori si accorsero che il giovane non dormiva a casa la notte, scoppiò una crisi furibonda.  Il padre lo picchiò, il ragazzo reagì con violenza, abbandonò la canonica e ruppe completamente i ponti con la famiglia per quattro anni, spostandosi al seguito di diverse compagnie, che giravano in lungo e in largo la Svezia.

   
    Questa cesura radicale con la famiglia – una famiglia che vantava una lunghissima tradizione di contadini e preti – segnò anche la svolta personale di Bergman, verso la consapevolezza, alla ricerca di una strada personale al termine della quale qualcuno arrivò a definirlo un ‘ateo cristiano’. (6)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


4.   Gianfranco Ravasi,  Come un  Getsemani del ‘900: domande brucianti di film in film,  pubblicato su: Avvenire,  31 luglio 2007.
5.  Così Sergio Trasatti, Ingmar Bergman,  Editrice Il Castoro cinema, collana diretta da Fernaldo Di Giammatteo, Milano, 1976.  pag. 3.
6. La definizione è di S. Trasatti, I. Bergman, op. cit. pag.3

17/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./)


autore sconosciuto, Ingmar Bergman fotografato sul divano di casa, 1960.  


Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./) 

Per un uomo del Nord, i conti con la solitudine si fanno in fretta.  Non è un caso se il tema della solitudine impregni la cultura scandinava dai suoi primordi. Bergman,  uomo del Nord, lo è stato fino in fondo, come Kierkegaard, August Strindberg e Carl Theodor Dreyer .  Un destino segnato già dal fatto di nascere nella colta Uppsala – patria di Celsius e di Linneo, ma anche di Dag Hammarskjold – e di nascervi da un padre severo pastore luterano (Erik Bergman) e da una madre ambigua e temuta (Karin Akerblom, discendente di una famiglia benestante olandese), in una famiglia costruita – secondo il racconto stesso che ne ha fatto il regista nei suoi film e nella sua autobiografia (1) -  su principi rigidi e oppressivi.  Un clima di freddezza, nel quale sin da piccolo Bergman fu chiamato a sperimentare la solitudine e le difficoltà di comunicazione tra le coscienze degli uomini, che furono due tra i temi dominanti della sua filmografia.
       La solitudine di un uomo consapevole del suo stato è assoluta, disse una volta (2), ma il desiderio di una intesa con gli altri non cessa mai di alimentare una grande speranza. C’è sempre, nella giornata di un uomo, un’ora o un minuto o appena un momento in cui si viene a trovare a contatto con il prossimo. L’arte è un mezzo meraviglioso e forse unico di creare questo magico contatto, di avvicinare gli uomini. 

C’è molto di Bergman, in questa frase.  La solitudine, che pure fu una costante della sua vita - fino agli ultimi anni di totale eremitaggio nell’isola di Faro, immersa nella calma glaciale del Mar Baltico, dove il regista è morto nel 2007 – non gli impedì di ricercare a tutti i costi, e con ogni mezzo che il suo genio gli mise a disposizione,  una forma di comunicazione alta e personale – quasi a cuore aperto -  con ogni uomo che si ponesse di fronte ad un suo nuovo film.

I temi prediletti di Bergman, della sua opera,  la difficoltà della coppia, le insufficienze dell’amore, la morte, la presenza o l’assenza di Dio, il nostro posto nel mondo, sono già tutti scritti nella biografia del grande regista.  Nato  il 14 luglio del 1918,  a pochi mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, con la madre ammalata di febbre spagnola, al piccolo Ingmar fu subito impartita l’estrema unzione, perché si riteneva improbabile potesse sopravvivere. “Morirà di denutrizione” decretò il medico.  Invece il bambino sopravvisse, sufficientemente temprato anche per cavarsela negli anni seguenti, quando in famiglia dovette affrontare l’irritabilità paterna – il padre, valente predicatore luterano si spostava nelle chiese di paese, fino a far carriera e divenire addirittura cappellano della Corte Reale – le ansie della madre, e le punizioni che venivano inflitte a lui, al fratello maggiore e alla sorella minore, dalla cuoca Alma, che sadicamente lo rinchiudeva in un oscuro ripostiglio dove viveva “un mostriciattolo che si nutriva mangiando le dita dei bambini cattivi”.   

L’atmosfera familiare vissuta in quegli anni era fu resa in modo magistrale in quel grande affresco che è Fanny & Alexander, il suo film testamento realizzato nel 1982 e vincitore di premi in tutto il mondo – compreso l’Oscar  -  nel quale Bergman descrisse minuziosamente l’ambiente della grande casa di Uppsala, i volti e le presenze dell’infanzia, e in particolar modo il devastante rapporto con la figura paterna, sdoppiata nella immagine mefistofelica del vescovo Vergerus (che nel film è il secondo marito della madre) e in quella di Oscar Ekdahl, il padre buono  e umano che Bergman avrebbe voluto avere.

      
L’infanzia fu per Bergman una esperienza totalizzante. Tutto il suo mondo di adulto è edificato nei o sui primi anni di vita.  Ed è normale, per un artista, ritornarvi continuamente.  In realtà, scrive il regista nella sua autobiografia, io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà. (3)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1. L’autobiografia di Ingmar Bergman, Lanterna Magica, è pubblicata in Italia da Garzanti, prima edizione ottobre 1987, Milano.
2. La frase attribuita a Bergman è riportata nell’articolo L’arte, unico antidoto alla nostra solitudine,  firmato da Massimo di Forti per il Messaggero, 31 luglio 2007.
3.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit.