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28/05/22

Quella volta che Gigi Proietti recitò insieme a Gassman in un film di Robert Altman

 


Ho sempre pensato che un attore come Gigi Proietti, sia stato largamente sottovalutato, soprattutto dal cinema. Le sue apparizioni sono state poche e sempre in prodotti di qualità media o bassa.

Hanno contato diversi fattori: il primo, quello generazionale. Se Proietti fosse nato vent'anni prima, sicuramente sarebbe diventato anche lui un "mattatore" della cosiddetta commedia all'italiana o del cinema neorealistico, come furono Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi. 

Il secondo fattore è stato quello della lingua: Proietti non parlava una parola di inglese, e questo sicuramente lo penalizzò, anche quando qualcuno, come vedremo, oltreoceano, si accorse del suo talento. 

Il terzo fattore era certamente la sua indole piuttosto pigra (da vero romano) e la ritrosia - autarchica - di staccarsi dal suo teatro e dagli spettacoli one-man-show nei quali poteva dare il meglio di se stesso. 

Una bellissima eccezione fu comunque il film "Un matrimonio", "A Wedding", diretto da Robert Altman nel 1978, in cui un giovane Proietti si ritrovò insieme all'amico complice, Vittorio Gassman, in un duetto tutto italiano. 

Fu lo stesso Proietti a raccontare parecchi anni più tardi quella strana esperienza.

«Il mio mio inglese era anche peggio di quello di adesso. E al cinema non avevo mai fatto granché. Quella mia partecipazione, una particina, rimane il mio più importante exploit su grande schermo». 

Autoironico come sempre, Gigi Proietti si prendeva in giro, diminuendo i suoi meriti, nell'evocare, durante quella intervista che gli fece Gianni Amelio, l'incontro con Robert Altman.

«È un film del 1978: puro medioevo», rincarava l'attore «È cominciato tutto per caso, quando Altman è venuto a Roma dove dirigevo il doppiaggio del suo film "Tre Donne". Con mia grande apprensione vi ha voluto assistere, ma poi mi ha invitato in trattoria dove mi ha chiesto che cosa ne pensassi. Mi dà l'impressione di un film sognato, era stata la mia risposta, di cui lui è stato molto contento, perché, mi ha poi spiegato, molti dei suoi film sono nati così: da un suo sogno». 

Ed ecco l' attore qualche mese dopo interpretare il fratello minore di Gassman a Milwaukee, sulle rive del Michigan («un mare più che un lago»), ultimo arrivato alla festa di nozze, sempre più lugubre, in cui il cineasta esercita con ferocia la critica impietosa della middle class Usa. 

«La mia fortuna è stata che Altman lasciava molta libertà d' improvvisazione, per me abituale in teatro. Tanto più che non ho mai visto la sceneggiatura, ma solo l' elenco dei vari "characters", tra cui il mio. Le battute ci venivano date giorno per giorno. Perciò il mio primo dialogo con Gassman è stato un guazzabuglio in italiano, poi rimasto tale e quale nel film: "E Angelina come sta? - L'ho messa incinta - Stai sempre a scopà...". E così di seguito». 

Girare con Altman ricorda a Proietti i primi film di Tinto Brass, tipo "Drop Out": «Tanta tanta improvvisazione». 

Ma il regista Usa curava al millimetro la tessitura musicale: «Sul set si circondava di musicisti. Anche in "A Wedding" la musica ha un' importanza fondamentale. Per questo il suono, che nel nostro cinema spesso lascia a desiderare, in lui comportava un' attenzione maniacale, al punto che nei totali faceva ripetere con i soli gesti la stessa scena dai personaggi, che potevano essere una cinquantina».




24/06/21

Tilda Swinton: "Pasolini un poeta politico senza tempo"






















"Un poeta politico senza tempo e per questo moderno". "Un artista sociale, senza legami". Ma anche, con un sorriso, "supersonico e intergalattico"

Il volto chiarissimo, gli occhi cerulei, l'attrice Premio Oscar Tilda Swinton, non lesina aggettivi per raccontare chi e' per lei Pier Paolo Pasolini, il regista e scrittore al quale dedica "Embodying Pasolini", performance realizzata insieme allo storico della moda, ex direttore del Museo Galliera di Parigi e fashion curator di fama mondiale Olivier Saillard, presentata in anteprima assoluta negli spazi del Mattatoio di Roma per il cartellone di Romaison. 

Cuore della performance, gli abiti capolavoro che Danilo Donati realizzo' per i film diretti da Pasolini e che ora la Swinton, semplice kimono bianco indosso, quasi fosse una seconda pelle, estrae da un grande scatolone e pezzo dopo pezzo indossa, in un gesto che e' molto piu' significante: e' quasi un incarnare su di se' cio' che tutte quelle creazioni raccontano, rappresentano, evocano, da pellicole come Il vangelo secondo Matteo, Uccellacci uccellini, Edipo re, Porcile, ma anche Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore dei Mille e una notte, fino a Salo' o le 120 giornate di Sodoma. 

Un omaggio non casuale. "Scoprii Pasolini girando il mio primo film, Caravaggio di Derek Jarman - racconta l'attrice - Lui ne era ispirato, come gran parte degli artisti intelligenti. E da allora Pasolini e' stato alla base di tutta la mia carriera. Oggi quando qualche studente mi dice di non conoscerlo rispondo: siete fortunati, perche' potete vederlo per la prima volta e andare a esplorarlo"

La performance debutta anche alla vigilia del centenario della nascita del regista, festeggiata il prossimo anno. 

05/11/20

Le strade del cuore di Gigi Proietti a Roma, la sua Roma.


Una città che e' tutto il mondo.
Gigi Proietti, figlio della capitale e del teatro, a cui la città oggi ha tributato l'ultimo saluto,  veva quel senso della romanità che mischia e rigenera, unisce e riassume tenendo insieme il verso piu' aulico e la battuta fulminante. 

La sua Roma era popolare ma gia' nobile come del resto le sue origini, nomadi tra la strada piu' rinascimentale della citta' e i quartieri piu' lontani dal centro. 

"Sono nato in una traversa di via Giulia, una strada bellissima, un tempo era il corso papale, ma a 10 mesi gia' avevo cambiato casa: ci trasferimmo dietro villa Celimontana, a via dei Santi Quattro. Poi sono finito in periferia, al Tufello, in una casa popolare", scrive lui stesso in una mini guida di Roma e dei suoi posti del cuore

Poi il Liceo Augusto a via Appia, dopo le elementari e le medie alla Vittorino da Feltre, e la Capitale notturna dei locali dove, ad adolescenza conclusa, tentava gia' la strada istrionica e l'urgenza dello spettacolo sebbene iscritto a Giurisprudenza alla Sapienza. 

Di quei night dove cantava , anche, con malinconia ricordava "non ne e' rimasto neanche uno, sono spariti tutti" ma la voce allenata in quei locali fumosi era gia' un ferro del mestiere affidabile che lo fara' essere persino chansonnier scanzonato e sentimentale all'occorrenza, perche' essere attore e' tutto, un po' come essere romano. 

E tra i posti del rimpianto giovanile, dell'eta' in cui sperimentava cosa sarebbe stato da Grande, Proietti ci mette non solo le serate con i "fagotti" e la famiglia nelle trattorie dell'Appio Latino ma anche il Tevere, ci mancherebbe. Ma quel fiume non e' quello di adesso, il fiume di allora viveva con Roma ora invece sembra una ferita che stenta

"Ora sopravvivono, invece, alcuni barconi sul Tevere: mi ricordo quanto erano affollati, ai romani piacevano molto, andavano, prendevano il sole e facevano il bagno. Oggi ce ne sono alcuni che cercano di rivitalizzare quella tradizione, ristoranti e locali anche molto carini, ma un tuffo non si puo' piu' fare, chi nuoterebbe mai in quello che un tempo era il "biondo fiume"? , chiede ricordando poi l'isola dei romani, cioe' Ponza dove aveva casa e li si' che andava a farsi tuffi e bagni, spingendosi col suo gommone fino a Palmarola "per alcuni ancora piu' bella". 

Ma poi, siccome e' un attore, la topografia personale inizia a confondersi con quella artistica, entrambe mappe sentimentali pero' e sempre, sempre, con la citta' policentrica e mai rilegata dentro le mura. 

E cosi' e' dal Flaminio che nasce Proietti, dal Teatro Tenda di piazza Mancini nel '76, da quel A me gli occhi, please dove si riversa mezza Roma, ma anche Eduardo, Fellini e l'allora sindaco Argan

E' il teatro, vero, popolare ma anche colto, da Shakespeare a Petrolini. Perche', artista e artigiano, Proietti mescola anche il romanesco con i versi, anzi ne fa poesia e proprio nella sua lingua madre che omaggia un altro immenso romano, Alberto Sordi che non era piu'. 

E sulla linea del tempo il Teatro Tenda, dopo il Brancaccio e il Brancaccino, porta dritto al Globe, fatto dopo la folgorazione del fratello londinese, che sboccia a Villa Borgese (dove da bimbo andava al Cinema dei Piccoli) e voluto sulla pianta del tempio shakesperiano: tutto in legno, prezzi pop e chi non sta nei palchetti "si deve portare i cuscini". 

Una visione, anzi "una mandrakata", come disse lui stesso (altro posto iconico l'ippodromo di Tor di Valle in Febbre da cavallo), che registra sempre il tutto esaurito e si affida a nidiate di attor e attrici giovani. 

Ma Proietti voleva ancora dare, i suoi progetti non si erano esauriti al Globe. 

In un'intervista a Gloria Satta al Messaggero confessa la sua inesauribile urgenza di dire e fare partendo sempre dalla romanita' universale: l'allestimento di Tosca e la riduzione teatrale di Casotto, il film di Sergio Citti. E non finisce qui. Pensava anche, e come sempre, ai giovani romani. 

"Voglio mettere in piedi Radio Raccordo Anulare, un progetto che mi frulla in testa da anni. Un'emittente gestita da giovani per tenere collegate e informate tutte le zone della citta', specie le periferie: il problema, in una metropoli come la nostra, e' la comunicazione. I romani devono conoscersi, non rimanere distanti come isole", diceva nella stessa intervista. 

E ancora per lo strano compleanno in lockdown della Capitale, 21 aprile 2020 in piena clausura causa covid, torno' sulla citta' stigmatizzando chi descriveva Roma vuota e chiusa come "spettrale". "Roma e' stanca e ha diritto di riposarsi", scolpi' lapidario con quella voce, vissuta ma granitica, che e' gia' un monumento ai Fori Imperiali. 

La voce di uno di Roma, figlio del mondo. 

02/11/20

E' morto Gigi Proietti - Perché è stato grande e lascia un vuoto non colmabile


Definire Gigi Proietti un "comico", come stanno facendo molti in questi ore, è come definire Nabokov un "cacciatore di farfalle", ed è il più grande sgarbo che si può fare in mortem, a questo grande attore.

Proietti è stato un gigante e ha segnato le nostre vite in modo indimenticabile. Personalmente, non so davvero quante volte sono corso a vederlo a teatro, sin da quando avevo 16 o 17 anni, per "A me gli occhi, please", che recitava al mitico Teatro Tenda di Piazza Mancini per mesi interi di repliche continuamente super-esaurite. Il pubblico sembrava non averne mai abbastanza. Rideva a crepapelle, piangeva quando c'era da piangere (quando declamava "questo amore") soprattutto si interrogava, si indignava, si faceva domande sul testo che il grande Roberto Lerici gli aveva cucito addosso e che lui ogni sera trasformava, plasmava, ri-creava ex novo, grazie alle sue stupefacenti doti tecniche d'attore e al suo cuore grande, senza risparmiarsi.
In più Proietti è stato anche l'ultima incarnazione dello spirito popolare romano - quello vero - che affonda nel tormento e nel disincanto dei secoli, arrivando fino a Fregoli e a Petrolini (suo vero riferimento sempre).
Per fortuna, dunque, Proietti è nato a Roma e resterà un tesoro di questa città, di quel che ne rimane, ancora a lungo.
Se soltanto il destino gli avesse concesso di nascere a Londra, egli senza dubbio sarebbe stato riconosciuto come uno dei grandi attori di teatro (mattatori o non) della scena mondiale. Anche perché il suo enorme talento gli consentiva di passare senza fatica dalle mandrakate al Sogno di Una notte di Mezza Estate di Shakespeare con la stessa eccellente bravura.
La sua grandezza era anche - certamente - come quella dei veri grandi, di non avere un ego auto-riferito. Chiunque lo ha conosciuto, conserva ricordi nitidi della sua generosità e della sua disponibilità all'ascolto, sempre.
Proietti lascia un vuoto non colmabile, a Roma (ma non solo a Roma, naturalmente) e la più stupida crudeltà mi sembra quella che, a causa di questa contingenza sanitaria globale, la sua città non potrà nemmeno accoglierlo a braccia aperte, con un funerale degno, di grande e calorosa folla e un interminabile ringraziamento, come avrebbe meritato.

Fabrizio Falconi - 2 novembre 2020

05/06/20

A vent'anni dalla morte di Vittorio Gassman ecco la commovente lettera aperta scritta da Alessandro, suo figlio



Riporto qui la lettera aperta scritta da Alessandro Gassman a suo padre, Vittorio, nel ventesimo anniversario della sua scomparsa e pubblicata su IO Donna - Corriere della Sera .

E' molto bella e forte, priva di retorica, e traccia un ritratto veritiero e partecipato di uno dei più grandi attori italiani di sempre. 

Tua madre, piccola donna, giovane vedova, ebrea e con due figli minori a carico, fu straordinaria durante il fascismo a portare avanti una famiglia da sola. Dicevi sempre che il funerale di tuo padre, nonno Heinrich, un gigante tedesco di quasi due metri, fu il primo momento della tua vita nel quale ti sentisti al centro dell’attenzione. E scopristi che starci non ti dispiaceva, anzi. 

A quattordici anni perdere un padre è dura ma, con una madre come Luisa accanto, sicuramente avrete avuto un sostegno incredibile e anche per questo sei diventato quello che tutti conoscono. Con il susseguirsi degli anni, dei figli, delle mogli, dei premi, dei trionfi, forse ti sei accorto che quel bambino che si sentì importante durante il funerale del papà, in realtà non avrebbe dovuto starci lì al centro, ma che magari una collocazione più “laterale” ti avrebbe regalato una vita forse meno esplosiva e divertente ma più felice, più a te consona

Certo avremmo tutti perso tonnellate di risate ed emozioni, molte donne non si sarebbero innamorate, il termine “mattatore” avrebbe assunto altri significati, molti registi non avrebbero trovato il loro straordinario protagonista… Ma tu, forse, avresti vissuto

 Non hai mai una sola volta viaggiato per diletto, ma solo per lavoro. Mai ti sei fatto un regalo, tranne qualche macchina sportiva. Che, peraltro, guidavi male. Ricordo viaggi da Roma alle Alpi, schiacciato nel sedile posteriore pieghevole della tua Porsche verde pisello, con la quale raggiungevi velocità estreme per poi inchiodare immotivatamente; il frastuono assordante del motore dietro la mia testa; quell’odore di pelle che mi dava il voltastomaco. Molte pipì silenti sul ciglio della strada, molte sigarette scroccate, centinaia di pacche inaspettate dietro le spalle, che ti spostavano e che erano sempre seguite da una risata infantile e coinvolgente, e che ora inspiegabilmente mi mancano.

Cosa ti sia perduto in questi venti anni da quando sei andato “altrove”, è difficile da raccontare. Difficile perché molto è accaduto, molto è cambiato il Paese e profondamente lo sono gli italiani, tanto che se esistesse oggi il tuo Bruno Cortona del Sorpasso probabilmente sarebbe considerato dai più uno sfigato. In questo momento storico poi – dove le cose dovranno cambiare per davvero, con una epidemia che ha stravolto e stravolgerà la società, gente impreparata, rammollita da sessanta anni di ozio e perdita di riferimenti culturali – manca la voce della tua generazione, la voce di chi una “guerra” l’ha vissuta e le è sopravvissuto. 

Siete in molti lì, sei in buona compagnia: Ugo, Luciano, Dino, Ettore, Mario, Adolfo, Paolo, Ennio, Suso, Franco (Tognazzi, Salce, Risi, Scola, Monicelli, Celi, Flaiano, Cecchi D’Amico, Zeffirelli, ndr). Sempre se esiste un lì… Se nella frase che ripetevi (penso fosse del tuo amico grande sceneggiatore, Sergio Amidei) «Solo gli stronzi muoiono!» ci fosse verità, lì, dove ti trovi, sarebbe molto meno frequentato

Dell’oggi probabilmente avresti apprezzato l’accelerazione della vita, tu che eri come me iperaccelerato: ti innervosivi, come me, per lungaggini o inceppi di qualunque sorta. Avresti probabilmente fatto un utilizzo puramente letterario dei social, avresti mandato a quel paese tutti coloro – e sono tanti – che parlano sempre, che si occupano della distruzione sistematica della nostra sublime lingua, della perdita dei congiuntivi, della semantica, del fatto che nessuno più sappia cosa sia l’anacoluto. Non possono parlare meglio, perché i pensieri sono piccoli, veloci, furbeschi, corrotti, interessati. 

Avresti tifato tuo nipote Leo a Sanremo (ha vinto il Festival nella categoria “Nuove proposte”, ndr), ti sarebbe piaciuto per la sua voce, il suo coraggio e la sua umiltà. Avresti tifato per Geko (il calciatore della Roma Edin Džeko, ndr). Forse avresti anche apprezzato il mio lavoro. Avresti apprezzato alcuni nuovi registi e attori, detestato il populismo, perché vi avresti riconosciuto avvisaglie di un passato per te spaventoso. Mi avresti visto invecchiare, somigliarti di più, osservare la mia lunga schiena piegarsi leggermente in avanti per la classica lordosi di famiglia che ci accomuna, ma avrei continuato a farti ridere come nessun altro è mai riuscito. Ecco, quello che mi manca di te, soprattutto, è uno spettatore al quale fare da “buffone”. Invecchiando e avendo responsabilità, non lo faccio più spesso, nessuno ride quanto ridevi tu, nessuno adora essere preso in giro da me quanto piaceva a te, eppure penso che invece, quella rimanga la mia dote migliore. Ti abbraccio senza mascherina, e ti bacio anche sulle labbra, cosa che ti avrebbe fatto schifo. Ma con te posso farlo, come faccio da venti anni e come – rassegnati – farò per sempre. Ti voglio bene. 
A.

23/05/20

Domani, 24 maggio, 120 anni dalla Nascita di Eduardo de Filippo



"Ogni anno di guerra ha contato come un secolo della nostra vita di prima. Davvero non è più il caso di tornare a quelle vecchie storie" disse al pubblico romano Eduardo De Filippo tornando a recitare nel 1945 subito dopo la Liberazione, annunciando di aver abbandonato le vecchie farse e il sodalizio col fratello Peppino. 

E aggiunse che "Questi fantasmi" novita' che debuttava quella sera, "ha un primo atto che si riallaccia a quel genere: le conseguenze della guerra viste attraverso la lente della farsa. Ma dopo statevi attenti, e' il dopo che conta!" 

Oggi, in questi giorni di pandemia mondiale, quelle parole ci risuonano con un loro rinnovato senso. 

Per Eduardo, nato il 24 maggio 1900, esattamente 120 anni fa, e quindi naturalmente chiamato a rappresentare commedie, tragedie e prese di coscienza di quel tormentato XX secolo, era finita l'epoca delle "Cantate dei giorni pari", dei giorni che "ci illudevamo fossero sereni', e iniziava quella delle "Cantate dei giorni dispari" (come ha intitolato le raccolte dei suoi testi drammaturgici). 

Del resto, tra lavori comici come "Chi e' piu' felice di me" o "Natale in casa Cupiello" e "Napoli Milionaria" e tutta la nuova produzione sino a "Gli esami non finiscono mai" c'era stato l'incontro fondamentale con Pirandello, come grande interprete del "berretto a sonagli" e col quale scrisse anche a quattro mani "L'abito nuovo", cosi' che quel mondo di illusioni, di dolorosa comicita', di scarto tra illusioni e realta', di molteplicita' di punti di vista e il ragionare dell'autore dei "Sei personaggi", viene decantato a suo modo in quella concretezza dei fatti, dei problemi e del vivere quotidiano propria del teatro di Eduardo. 

Certe risate finali di Eduardo sono la capacita' del personaggio di vivere il paradossale assieme e dentro la propria infelicita', mentre per i personaggi di Pirandello sono risate di chi si sente mancare la terra sotto i piedi davanti al grottesco rivelarsi della propria tragedia esistenziale. 

 Autore certo Eduardo, ma anche attore e regista e questa triade trova in lui un'unita' particolare che e' quella che lo rende interprete naturalissimo, quasi non recitasse, di quel che fa e dice, sin dal suo entrare in scena, come casualmente, con un gesto, uno sbadiglio un colpo di tosse o uno stupore che gli danno una vicinanza allo spettatore e propongono un gioco che sembra nascondere la finzione dietro, dentro la realta'

E tutto sempre aspettando un po', puntando sulle sue celebri pause, i suoi silenzi vivi, silenzi interiori che trasudano tutto attorno a lui, creando un'atmosfera inquietante, allusiva, e che hanno fatto un grandissimo artista di questo signore magro, alto, col sopracciglio pronto a inarcarsi, ora ironico, ora stupito, ora sofferente e l'occhio interrogativo, curioso, come cercasse di capire il mistero del mondo contraddittorio che lo circonda. 

Questo ottenere il massimo col minimo era la sua grandezza di interprete che, per chi lo ha conosciuto, legano a lui in modo particolarissimo e assolutamente poetico i suoi testi, cosa che si capisce anche e persino dalle registrazioni televisive di alcune sue commedie, riandate in onda e proposte su Raiplay in questo periodo. 

Ma queste, nei quasi quarant'anni dalla sua scomparsa, hanno dimostrato di avere una forza e una verita' propria che supera il tempo e certe letture tradizionali. 

Gia' suo figlio Luca, scomparso improvvisamente a 67 anni nel 2015, aveva cominciato a permettere che altri registi vi ci si avvicinassero a modo loro

Ora tutto e' in mano ai suoi figli e alla moglie, l'attrice Carolina Rosi, che gestisce questa eredita' con serieta' e coraggio proprio nell'aprire Eduardo a chi sa scavarlo e trovare semi nuovi nelle sue storie di vita, nella verita' delle sue situazioni esemplari e comuni assieme, senza mai un filo di retorica o una parola superflua

La sua e' una drammaturgia dell'essenziale che sembra andare dritta al finale, che puo' anche apparire ambiguo perche' cosi' e', ma sempre nel nome di una morale, della giustizia e del valore dell'essere umano. 

Figlio naturale di un grande attore e autore napoletano, Eduardo Scarpetta, come i fratelli Titina e Peppino, con loro crea negli anni Trenta la Compagnia del Teatro Umoristico. 

Dopo la guerra da solo ecco invece il nuovo Teatro di Eduardo con una serie di titoli che divengono subito popolari, specchio dell'Italia disastrata e che rinasce, da "Filumena Marturano" a "Questi fantasmi" o "Il sindaco del Rione Sanita'". 

Negli anni Cinquanta riapre a Napoli il Teatro San Ferdinando e il successo e' continuo, internazionale e con tanti i riconoscimenti come il prestigioso Premio Accademia dei Lincei, due lauree Honoris causa e la nomina a Senatore a vita (fu nel gruppo Sinistra indipendente) nel 1981 da parte del Presidente Pertini. 

 Del resto, accanto alla sua corda pazza artistica e' stata sempre viva la corda civile e il suo impegno sociale, come dimostrano negli anni le sue nette prese di posizione politiche pubbliche, anche se alla fine non nascondeva una certa disillusione. 

"Questi partiti politici lontani dalla nostra vita, divenuti fantasmi anche loro - disse con bella preveggenza un anno prima di morire nel 1984, parlando di "Questi fantasmi" - e chissa' che non siano riusciti a convertire anche tutti noi in fantasmi". 

07/01/18

"Fanny e Alexander" - il discorso finale. Il Testamento spirituale di Ingmar Bergman.


Nel suo ultimo grande film pensato per il cinema,  Fanny e Alexander (1982), uno dei suoi più belli e completi, Ingmar Bergman ci ha lasciato una sorta di testamento spirituale
Ciò in cui credeva, ciò che credeva di aver capito, sul finire della sua meravigliosa parabola artistica e della sua vita, del mistero dell'esistenza.  
Alla fine del film, Bergman mette queste parole in bocca allo Zio Gustaf, il più epicureo e materialista della famiglia Ekdahl, il meno sovrastrutturato potremmo dire.  Sono appena nati due bambini, e alla festa per il battesimo, superata la tremenda crisi seguita alla morte di Oscar Ekdahl e al seguente matrimonio della vedova con il diabolico vescovo Vergerus, con conseguenti vessazioni dei due piccoli Fanny e Alexander da parte del patrigno, lo Zio Gustaf brinda alla pace ritrovata, all'unità della famiglia, nonostante tutto, alla speranza nel futuro, pur con la profonda consapevolezza delle profonde avversità - spaventose - che la vita può offrire. E' una lezione che anche per noi, oggi, resta memorabile. Questo il testo integrale del discorso. 

L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore.

Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo, no davvero. Noi non siamo preparati, attrezzati, per questo tipo, per certe indagini. La cosa migliore è mandare all'inferno i grandi contesti. Noi vivremo in piccolo, nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello. Lo coltiveremo e lo useremo nel modo migliore. La morte colpisce all'improvviso e all'improvviso si spalanca l'abisso. All'improvviso infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli... Attori, attrici, abbiamo un grande bisogno di voi perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni. Il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare. Il male strappa le catene e vaga nel mondo come un cane impazzito, e tutti ne siamo contaminati: noi Ekdahl come qualsiasi altra persona. Nessuno vi sfugge. 
Per questo dobbiamo essere felici quando siamo felici ed essere gentili, generosi, teneri, buoni. Proprio per questo motivo è necessario e tutt'altro che vergognoso essere felici, gioire di questo piccolo mondo: della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore, o anche di un valzer. Tengo in braccio una piccola, dolce imperatrice. E' una cosa tangibile eppure incommensurabile. Un giorno mi dimostrerà che ho avuto torto in tutto quello che ho detto ora. Dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su ogni cosa. 

Qui sotto la sequenza del film nell'originale svedese con sottotitoli in inglese. 


26/11/17

I Fantasmi di Roma: Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito.



Storia infelice di Berenice, l’amante dell’imperatore Tito, e del suo fantasma

      Un fantasma romano molto popolare è quello di Berenice.
      E il suo luogo di elezione sembra essere il Portico d’Ottavia, a Roma, in quello stretto dedalo di vicoli e strade che si snodano tra il quartiere del vecchio Ghetto ebraico – il più antico d’Europa – e la Via del Teatro Marcello, alle spalle.  In particolare, il fantasma di Berenice pare scelga di manifestarsi proprio tra i ruderi romani sparsi in terra nello spazio antistante il teatro che fu dedicato nell’anno 13 a.C.  al generale Marco Claudio Marcello, nipote di Augusto (era infatti il figlio della sorella, Ottavia).

      Ma chi era Berenice ?
   
     La fortuna letteraria di questo personaggio è legata soprattutto, ovviamente, alla storia del teatro, e in specie al testo che a lei dedicò, nel 1670, Jean Racine, uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi.
      Di Berenice, della vera Berenice, sappiamo che nacque nel 28 d.C. in Asia Minore,  e che era la figlia di Erode Agrippa, detto il Grande, che fu quel membro della dinastia dei re di Giudea che più ebbe contatti con il mondo romano, visto che fin da giovanissimo fu inviato nella capitale dell’Impero e divenne intimo dello stesso imperatore (Tiberio). 
      
     Berenice doveva essere davvero bellissima se è vero che a vent’anni era già stata sposata due volte, e alla morte del secondo marito – che era nientemeno che lo zio paterno -  si trasferì in Grecia, alla corte del fratello Agrippa II.   Ma anche in questo nuovo ambiente, decisamente più sofisticato del precedente, Berenice trovò il modo di ritrovarsi al centro di un nuovo scandalo, e per mettere fine alle voci di un incesto con il fratello, accettò di sposare il Re di Cilicia Polemone, molto più anziano di lei,  che la riportò in Asia Minore. 
      Ma il temperamento irrequieto di Berenice la portò ben presto a stancarsi di Polemone e della sua noiosa corte: riuscì a fuggire, e tornò nuovamente dal fratello.
      
      Ed è a questo punto della storia che nel cuore di quella che già era definita una meretrice si fece largo addirittura il nuovo imperatore di Roma, Tito, salito al potere nel 79 d.C. alla morte del predecessore, il padre Vespasiano.

     In realtà la tresca amorosa tra Tito e Berenice era cominciata ben prima della morte di Vespasiano,  allorquando l’imperatore aveva mandato proprio il suo prediletto figlio, Tito, che era stato allevato ai più nobili principi ed era un esempio di moderazione, in Palestina, per sedare le rivolte che erano scoppiate. Tito diede alle fiamme Gerusalemme, dove si erano asserragliati gli ebrei, distruggendo completamente il Tempio, e ottenne una vittoria completa.
     
      Quando tornò in patria, trovò che suo padre gli aveva preparato un tributo eccezionale (con l’erezione del celebre Arco che ancora fa mostra di sé nel foro Romano), ma l’anziano genitore rimase interdetto quando si accorse che il valoroso figlio attraversava l’Arco, tra le grida osannanti del Popolo Romano, portando al braccio una preda bellica imprevista, e cioè proprio quella bellissima principessa ebrea – Berenice -  che già numerosi cuori aveva infranto dall’altro lato del Mediterraneo, ma che aveva ben ventuno anni più di suo figlio.
      
       
Uno scandalo in realtà non v’era, perché questa di presentare le proprie conquiste amorose – specie se di rango regale – non era inconsueto per un comandante militare.  Il problema sorse però quando Tito comunicò al padre che non intendeva semplicemente inserire la nuova fiamma nell’elenco delle concubine, ma voleva addirittura sposarla, cioè inserire un’estranea nella linea di successione imperiale.  La vicenda divenne esemplare quando Vespasiano – ripetendo un copione consueto dei padri – cercò in ogni modo di convincere il figlio, adducendo anche la propria esperienza personale: anche lui, rimasto vedovo, aveva ceduto alle grazie di una concubina, ma s’era ben guardato dall’idea di sposarla. In questo caso poi, si trattava di un ebrea e la faccenda era ancora più grave.
           
          I dubbi e le insinuazioni paterne si unirono alle malelingue di corte, alle calunnie interessate, ma per qualche tempo non ottennero risultati e Berenice rimase al suo posto.  Soltanto, però, fino alla morte dell’imperatore Vespasiano: forse in un rigurgito di riconoscenza filiale, Tito, divenuto imperatore, trovò la forza di sottrarsi alla schiavitù amorosa impostole dalla bella e appassionata Berenice, e la cacciò – in omaggio alla ragion di stato – da Roma.  L’infelice, a quanto pare, stremata dai suoi tiramolla per sposarla, aveva finito anch’essa per disamorarsi del suo compagno, e come sintetizza eloquentemente Svetonio, Berenice statim ab urbe dimisit, invitus, invitam, ovvero Tito una volta diventato imperatore, controvoglia allontanò da Roma Berenice che anch’essa non lo voleva.    
      
      La vicenda di questo amore contrastato, che ripercorre l’antico tema del conflitto tra sentimento e doveri,  trovò come abbiamo detto in Racine un cantore memorabile, il quale rovesciò completamente gli stereotipi su Berenice, omettendo del tutto i suoi trascorsi scandalosi e incestuosi, trasformandola in un personaggio totalmente virtuoso, inventando un triangolo amoroso con il principe Antioco, re di Comagene (regione meridionale dell’Anatolia),  e facendone una vittima della bruta ragion di stato.   Nelle memorabili scene finali del dramma scritto da Racine, le reciproche minaccie di suicidio di Tito, di Antioco e di Berenice, finiscono in un nulla di fatto, e i tre decidono di accettare la volontà superiore e di separarsi, sacrificando totalmente l’amore, o quel che ne resta.
      
        È dunque senza alcun dubbio questo elemento romantico ante litteram, ad aver alimentato la leggenda dell’esistenza del fantasma di Berenice che ancora aleggerebbe sulla città di Roma: perché se quella dolorosa separazione fu accettata obtorto collo in vita,  essa brucerebbe ancora nell’intreccio delle anime.  E questo spiega perché la caratteristica attribuita al fantasma di Berenice sia proprio quella di manifestarsi nella zona del Portico d’Ottavia – non è un caso che la tradizione popolare abbia scelto questa zona, dunque,  ricordando le origini ebree della principessa -  per cercare di incontrare nuovamente il suo amante, l’imperatore Tito, e ottenere un tardivo risarcimento a quella inopinata cacciata.

       Il Portico d’Ottavia però, è legato strettamente anche al simbolo del potere esercitato da Tito, e quindi è davvero lo scenario perfetto per le ansie notturne del fantasma di Berenice:  è proprio in questo luogo infatti,  raccontano le cronache dell’epoca, che nel 71 d.C.  Tito e suo padre si presentarono dei tradizionali vestiti di seta color porpora, e con la corona d’alloro sul capo, circondati dai membri del senato e dai più alti magistrati, per ricevere l’omaggio delle truppe prima di iniziare il sacrificio  e la processione trionfale davanti a tutto il popolo di Roma festante.
      Per questo, sembra dire il fantasma di Berenice, per questo potere, oggi divenuto rovina,  tu mi hai sacrificato.











12/09/17

Ritrovare lo "sguardo bambino" - Dal 21 al 25 settembre "Torino Spiritualità"




Cinque giorni di incontri, dialoghi, lezioni, letture e spettacoli per mettere a confronto coscienze, fedi, culture e religioni. È Torino Spiritualità, che – dal 2005 – è il luogo in cui cercare il significato profondo del nostro tempo e del nostro agire. Con il tema della XIII edizione (21-25 settembre)PICCOLO ME, il festival propone di indagare le tracce d’infanzia presenti ancora nell’età adulta, da recuperare per vivere pienamente. È un invito a “diventare bambini”, come dice il sottotitolo, per ritrovare una dimensione mai perduta bensì sempre presente come tensione che attraversa l’essere umano. C’è uno sguardo da recuperare nella memoria, in cui si intrecciano sorpresacuriositàtimidezzafragilitàpaurapassionemeravigliasperanzatenerezza. Un modo per farlo è ascoltare le storie raccontate nei reading e spettacoli in programma.

Lo sguardo appassionato di chi si lascia coinvolgere con mente e corpo.
Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, eccellenza del teatro internazionale, porta al festival Open Program con due performance capaci di far “diventare bambini”: sonoIncontro Cantato / Open Choirmartedì 19 settembre, 18.30 al Circolo dei lettori e Le Parole Nascoste / The Hidden Sayings mercoledì 20 settembreore 18.30 alla Chiesa di San Filippo Neri.
(È Aspettando Torino Spiritualità, l’antemprima del festival a ingresso libero)

Dell’occhio sorpreso di un bambino.
È Momo, protagonista di La vita davanti a sé di Romain Gary, capace di catturare la complessità del mondo. Questo romanzo, toccato dalla grazia, diventa un reading con protagonista l’attoreSilvio Orlandogiovedì 21 settembre ore 21 al Teatro Carignano. Insieme al Belleville Quartet di Simone Campa, prende vita sul palco la variopinta e vitalissima sarabanda del quartiere parigino dove la storia è ambientata. (Ingresso € 18, Ridotto Amici di Torino Spiritualità € 12)

Di speranza quando tutto crolla.
Luigi Lo Cascio porta in scena il romanzo del premio Pulitzer Cormac McCarthy, La stradaVenerdì 22 settembre, ore 21 al Teatro Carignano, la storia di un mondo esausto in cui solo i più piccoli sanno ancora portare un po’ di luce. Le sonorizzazioni sono di G.U.P. Alcaro, la produzione di il Circolo dei lettori(Ingresso € 15, Ridotto Amici di Torino Spiritualità € 10)

La speranza è anche al centro di Non ci è concesso lasciare il mondo così com’è, il reading che racconta la coraggiosa storia di Janusz Korczak, medico ed educatore dalla parte dei bambini, vissuto in una Varsavia densa di presagi nazisti. Con Gabriella CaramoreSax Nicosia e l’Orchestra Beethoven della Scuola Popolare di Musica sul palco del Teatro Carignanosabato 23 settembreore 18.30(Ingresso € 5)

Di sguardi fragili e spaventati.
In Il mare è un grembo, l’inviato di “La Stampa” Domenico Quirico – insieme all’attrice e regista Elena Ruzza – racconta il viaggio di chi cerca di raggiungere una riva sicura e lo spaesamento di chi si trova depositato in una terra che non conosce e deve scoprire e decifrare tutto. Lo spettacolo è sabato 23 settembre, ore 21 al Teatro Gobetti(Intero € 8, Ridotto Amici di Torino Spiritualità € 5)

Dello sguardo capace di creare.
L’infanzia sa inventare passaggi verso mondi altrimenti impensabili. È il caso della Piccola liturgia Errante dei ragazzi dell’Atelier dell’Errore, laboratorio di arti visive progettato nel 2002 per il servizio della neuropsichiatria infantile di Reggio Emilia, dell’artista Luca Santiago Mora che li guida, e delle loro creature zoomorfe, disegni, performance, oracoli e profezie. Al Teatro Gobettidomenica 24 settembreore 15.30, una creazione teatrale straordinaria.

A noi vivi! Il Paradisodomenica 24 settembreore 16.30 al Teatro Astra, un’esperienza ludico-formativa per i piccoli, una ricerca del paradiso perduto (eppure riconquistabile) per gli adulti.

Fudendaiko, i tamburi del Monastero di Fudenji. E migliaia di bodhisattva emersero dalle viscere è invece la performance che celebra i cinquant’anni dello Zen Soto in Europa. Domenica 24 settembreore 18.30 al Teatro Gobetti suonano i tamburi che rappresentano la voce del Buddha che chiama i fedeli ad ascoltare il Dharma. (Ingresso € 5)

E ancora, in programma, lo spettacolo tratto da Qualcosa (Longanesi) di e con Chiara Gamberale, sull’incapacità tutta adulta di non accettare i propri limiti. Insieme alla scrittrice, ancheEmanuele Trevi e l’attore Marcello Spinetta, mentre Luciana Littizzetto è presente “in voce”, domenica 24 settembreore 18.30 al Teatro Carignano(Ingresso € 8, Ridotto Carte Plus del Circolo dei lettori € 5, Gratuito per gli Amici di Torino Spiritualità)

Infine, di tenerezza e commozione.
Un altro immaginario da scoprire è quello delle ninne nanne, romanze e cantigas della tradizione ebraica orientale proposte dal soprano Natalie Lithwick e dal musicista Adel Salameh. È lo spettacolo Mia figlia, mia cara, amen amenlunedì 25 settembreore 21 al Circolo dei lettori.

La biglietteria è al Circolo dei lettori (Via Bogino 9), dalle 9.30 alle 21.30 tutti i giorni eccetto la domenica. I biglietti anche sono acquistabili online su Vivaticket.



Programma completo: www.torinospiritualita.org

27/04/16

400 anni dalla morte di Shakespeare: l'attore Ian Mc Kellan lancia una app dedicata al Bardo .




Rendere William Shakespeare più accessibile a tutti, anche alle giovani generazioni, con la tecnologia. 

Tra le varie iniziative organizzate per i 400 anni dalla morte del Bardo, c'è anche questa, lanciata dall'attore inglese Ian McKellen, il Gandalf della saga de "Il Signore degli anelli" e dal regista Richard Loncraine

Un'app per iPad chiamata "Heuristic Shakespeare", in cui l'attore inglese 76enne, e come lui molti altri, recita "La tempesta" mentre sotto la sua immagine scorre il testo. 

L'idea è di fare la stessa cosa con tutte le opere dello scrittore. 

Una performance privata per gli utenti, non su un palcoscenico e senza costumi e si può mettere in pausa ogni volta che si vuole. "Ne ho parlato con gli altri attori e ne sono rimasti affascinati - spiega McKellen - magari averla avuta quando ho dovuto imparare il ruolo di Prospero, mi sarebbe stata di grande aiuto. Gli attori la useranno, credo, si possono anche prendere annotazioni, sottolineare, si prende confidenza con il testo, perché leggi mentre ascolti"

Per lui, uno dei maggiori interpreti di Shakespeare a teatro, la difficoltà è stata sempre prendere il ritmo. 

Il ritmo del verso shakespeariano, dice, è particolare e difficile da imparare. "Perché è il ritmo del cuore umano: di dum, di dum, di dum...". 

Con questa app si vogliono aiutare i giovani a capire drammi e commedie scritte centinaia di anni fa e spesso non più studiati. Anche agli adulti però potrebbe essere utile, per entrare nel clima shakespeariano prima di andare a teatro. "E' pensato per guidare le persone alla visione live - sottolinea Loncraine - non vuole certo sostituire il teatro".



26/09/12

Giochiamo insieme: racconta il libro, lo spettacolo, il film che ti ha cambiato la vita.





  Ieri su  questo Blog ho raccontato la mia prima esperienza di shock - nella fattispecie uno spettacolo teatrale al quale ho assistito quando avevo 15 anni - che cambiò il mio modo di vedere le cose della vita.

  Mi piacerebbe che anche voi partecipaste a questo giochino, dicendo quale è il libro, o il film, o lo spettacolo (una rappresentazione d'opera, uno spettacolo teatrale) e spiegando, in poche (o molte) parole perché. 

  Vi pregherei soltanto di utilizzare il form per i commenti qui sotto, predisposto da Fb (per chi ha l'utenza Facebook) oppure i commenti al blog tradizionali. 

  Alla fine avremo, credo, un bel catalogo  !

  Grazie a tutti. 

Fabrizio 

25/09/12

Dostoevskij - il primo shock emotivo/culturale della mia (giovane) vita.




Voglio raccontarvi la prima vera illuminazione della mia vita. Avevo 15 anni, ero un ragazzo qualsiasi, proveniente da una famiglia operaia, frequentavo il secondo Liceo scientifico.  

Una professoressa particolarmente illuminata, o forse solo il caso - non ricordo bene i dettagli - decise di portare una scolaresca di immaturi foruncolosi a teatro. 

Fu scelto il Teatro Centrale, a Roma, vicino Piazza del Gesù.  Giorgio Albertazzi metteva in scena 'Uomo del sottosuolo', tratto da Ricordi dal sottosuolo romanzo scritto da Fedor Dostoevskij nel 1864.

Non era la prima volta che vedevo un nudo femminile integrale a teatro. L'anno prima, nella palestra del Liceo Castelnuovo, che frequentavo all'epoca, si erano esibiti, durante la settimana autogestita degli studenti, i ballerini del Living Theatre.

Poco o nulla accadde su quella scena, abitata semplicemente da un grande letto matrimoniale disfatto, dal protagonista avvolto in un camicione bianco e da Liza, la prostituta sedotta - con la illusione di cambiarle la vita - dal protagonista, che successivamente la umilierà nel peggiore dei modi.

Non so ricostruire il perché e il come, ma l'assistere a quello spettacolo fu per me - che ne parlo a tanti anni di distanza - una iniziazione, l'entrare cioè in un mondo sconosciuto: che era appunto me stesso.

Tornato a casa, provai una sensazione di malessere fisico. Una crisi profonda che mi impedì anche solo di parlare per tre giorni.  L'unica cosa che mi riuscì di fare fu di riempire un vecchio diario di pensieri sconnessi, quelli che sentivo emergere da una profondità remota e forse preesistente che mi abitava e della quale non ero mai stato cosciente.

Visto a ritroso, posso dire oggi che quello fu ufficialmente il mio ingresso nell'età adulta: un ingresso doloroso, fatto di consapevolezza e di dolore (soprattutto di dolore fisico, in ogni angolo del mio corpo), di raggiungimento di nuovi strati sconosciuti interiori che mi attraevano e mi spaventavano.

Fu l'ispirazione per prendere in mano Delitto e Castigo. E poi, uno dopo l'altro, tutti i grandi romanzi di D. che nella lettura e rilettura hanno segnato i momenti significativi della mia vita e della mia crescita.

Dostoevskij mi insegnò la brutalità e la sublime bellezza della profondità umana, di ogni profondità umana, anche della più apparentemente meschina. Mi insegnò che in ogni uomo vi è un abisso, popolato di tetri fantasmi che neanche lui conosce e che spesso decidono della sua vita, e mi insegnò che la bellezza salva, o può salvare, se si è capaci di affrontare con pienezza la vita, attraversandone l'ombra e non lasciandosene travolgere e sopraffare per sempre.

E' quello che ho cercato di fare, faticosamente,  nel mio percorso di vita, fin qua.



foto originale di Uomo del Sottosuolo di e con Giorgio Albertazzi - foto l'Unità.

08/04/12

Raoul Precht a Roma con "I viaggi dell'Ofiuco".





Segnalo l'unica rappresentazione romana de  I Viaggi dell'Ofiuco, uno spettacolo teatrale costruito sull'ultima raccolta del poeta romano -  ma residente a Lussemburgo - Raoul Precht,  con Teo Bellia e voce recitante di Angiola Baggi.

Lo spettacolo andrà in scena domani, Lunedì 9 aprile 2012 alle 21:00 al



Via Romolo Gessi, 8 - Roma

(Prenotazione raccomandata al  347 2319450 (posti limitati)

E' un appuntamento da non mancare. 

19/01/12

Bergonzoni: La pista di Atterraggio - un pensiero nuovo.



Conosco Alessandro Bergonzoni da molti anni. Mi vanto, anzi, di averlo in un certo senso "tenuto a battesimo", nei tempi lontani (1985) di una epica radio romana, della quale insieme a Giorgio Iacoboni, curavo la programmazione.

Alessandro era, all'epoca, all'inizio della sua folgorante carriera, un brillantissimo ragazzone bolognese 'in trasferta'  per presentare il suo spettacolo d'esordio (a Roma) al Teatro dell'Orologio, La saliera e l'ape Piera. 


Non era difficile, già da allora percepire la genialità di Alessandro e la sua capacità di creare - con gli apparenti nonsense e calembour dei suoi testi - una specie di pirotecnico spettacolo scenico, travolgente.

Con ancora maggior piacere dunque, riscopro oggi che Bergonzoni (ormai artista a tutto campo) si muove e percepisce quelle stesse istanze di rinnovamento personale sulle quali spesso in questo blog insistiamo e che sono l'unico presupposto - a mio avviso - per una effettiva ri-nascita globale, dopo la catastrofe delle ideologie, delle economie, delle filosofie, a cui stiamo assistendo in questi anni.

Non è un caso che questo magnifico monologo di Alessandro sia stato pubblicato sul sito di Beppe Grillo suscitando molti commenti acidi e di totale dissenso. Naturale, visto che i contenuti che qui propone Bergonzoni sono in totale anti-tesi con il pensiero massimalista, superficialmente omogeneo che oggi sembra aver depredato le menti.

Buona visione e ascolto.


22/09/11

Carnage, il nuovo film di Roman Polanski. La recensione.


Carnage, il film di Roman Polanski (tratto dall'opera teatrale di Yasmina Reza) è quella che una volta si sarebbe chiamata operetta morale.

Bastano poco più di 70 minuti per mettere in scena, con una efficacia tragica e comica insieme, la disperazione della condizione umana, di occidentali all'alba del terzo millennio.

Il pretesto narrativo è noto: in una lite al parco, un ragazzino di 11 anni colpisce un coetaneo al volto con un bastone. I genitori, due coppie di Brooklyn, decidono di incontrarsi per discutere del fatto e risolvere la cosa da persone civili. Gli iniziali convenevoli si trasformano però subito in battibecchi velenosi e il comportamento delle due coppie degenera in situazioni paradossali.

Quel che qui interessa - a parte l'inaudita bravura dei 4 interpreti claustrofobicamente chiusi nell'appartamento middle class newyorchese, Jodie Foster/Penelope, Kate Winslet/Nancy, John C.Reilly/Michael, Christoph Waltz/Alan) è quello che quest'opera ci racconta, a noi, disincantati e spersi viaggiatori di questi tempi fragili.

Credo che davvero ci sia molto da riflettere. E questo film parli da molto vicino di noi.

Penelope, Nancy, Michael e Alan partono con tutte le migliori intenzioni (riparare una brutta cosa, la violenza dei figli, nel modo più civile).

Ma come scrisse quel tale, delle migliori intenzioni è lastricato l'inferno.

Ed ecco così che in quei 70 minuti quello che si spalanca davanti agli occhi di ciascuno dei 4 'operatori di pace' sarà proprio l'inferno: il personale inferno e quello degli altri tre. Tanto è vero che: questa è la giornata più infelice della mia vita, ripeteranno uno dopo l'altro, a conclusione dello spettacolo osceno che metteranno  in scena, dando generosamente ciascuno il peggio di sé 


Ecco, ma perché l'operazione di pace fallisce così clamorosamente ? Perché i 4, incapaci di trovare un minimo di accordo su ciò che è giusto fare, o al limite anche solamente ciò che è giusto dire, finiscono con l'assecondare i loro peggiori istinti ?

L'operetta morale di Reza/Polanski è particolarmente preziosa, perché ci illumina su una delle caratteristiche primarie del nostro tempo e - ahimè - della generazione dei 50enni che oggi questo tempo dovrebbe illuminare di senso, dirigere, orientare: l'inautenticità. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, non sono persone autentiche.

Non è autentico il cinismo adulto di Alan, alle prese con la sua dipendenza dal gioco degli affari e dalla tecnologia del telefonino; non è autentico il nichilismo di Michael, fragile come un bambino; non è autentica la disperazione di Nancy, borghese annoiata e viziata, non è autentico il volontarismo altruistico di Penelope, fatto di stereotipi. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, alle prese con una questione morale piuttosto semplice:  di chi è la colpa di ciò che è successo ? Perché due ragazzini si sono picchiati selvaggiamente ? come si può riparare il danno ? vanno nel pallone più totale.

Non sono in grado di stabilire risposte morali, perché in realtà non conoscono cosa è la morale. E non conoscono (più) la morale, perché ormai da troppo tempo vivono come bambini, senza la più piccola consapevolezza di cosa sono diventati, di quel che sono come persone. Non sanno nulla delle proprie anime. Dunque, non sono in grado di dire nulla di sensato su ciò che è il mondo, su ciò che bisognerebbe o non bisognerebbe fare. Sono allo sbando. 


Le frasi che ripetono ossessivamente sono soltanto formule senza significato, che tentano penosamente di riempire il vuoto delle loro vite.  Il cinismo (Alan), il nichilismo (Michael), il capriccio (Nancy), il volontarismo (Penelope) sono soltanto le figure e i nomi che hanno saputo dare, in mancanza di meglio, a un vuoto esistenziale spaventoso.

E' piuttosto eloquente - e geniale - il fatto che l'epilogo del film (chi ancora non l'ha visto può astenersi dal leggere ulteriormente)  sia l'immagine dei due bambini - che all'inizio abbiamo visto all'inizio picchiarsi - riconciliati. Naturalmente riconciliati.

Può essere anche una chiave di lettura generazionale.  Le nuove generazioni - forse - sapranno fare a meno di queste orrende sovrastrutture mentali (inautentiche) che hanno ucciso il pensiero delle generazioni precedenti, dei quarantenni/cinquantenni, partiti con le migliori intenzioni per cambiare il mondo e finiti ad annegare la loro disperazione nell'alcol, nei sigari e nel vomito incontrollato. 

La riappropriazione della vita, comincia da piccoli gesti. Come quello di perdonare e di comprendersi.  E soprattutto di non spaccare ogni pretesa di verità  in infinite piccole derive personali senza spessore, senza sofferenza vera, senza dolore vero, senza pathos vero, che avvelenano la vita rendendola, per l'appunto, un inferno.  

Fabrizio Falconi