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07/03/23

"L'albergo della via maestra", un magistrale racconto di Turgenev, da recuperare !

Ivan Sergeevič Turgenev

Considero Turgenev uno dei massimi nell'arte del racconto, insieme a Maupassant, Tolstoj, Henry James, Hem, Katherine Mansfield e pochi altri.
Se ne ha conferma leggendo "L'albergo della via maestra", nel quale in una sessantina di pagine, Turgenev racconta la storia di un uomo probo e amato, Akim, che con molte difficoltà riesce a diventare gestore di un Albergo su una via di comunicazione per mercanti, nel folto del bosco, proprietà di una avara vedova.
Sposatosi ad Anna, una giovane annoiata, che non lo ama, Akim manda avanti l'albergo e sale di gradino nella scala dei servitori della vedova, raggiungendo rispettabilità.
La sua vita viene però sconvolta dall'arrivo all'albergo di un mercante, e soprattutto dei suoi servitori, uno dei quali, Nuam Ivanic, ventenne bello e senza scrupoli, seduce Anna, riesce a farsi consegnare da lei i risparmi di una vita di Akim - duemila rubli nascosti nelle assi del pavimento - e con quel denaro va a comprare l'Albergo dalla vedova.
In 24 ore il povero Akim si vede derubato della moglie, dell'albergo, di tutta la sua vita.
Nuam, nel suo cinismo sfrontato, è uno dei più disinvolti cattivi della letteratura russa, che pure ne abbonda. Akim è un Giobbe, cui tocca il fardello di una rovina assoluta, che non merita in nessun modo. Anna è la sprovveduta incantata dalle piccole e maliziose seduzioni, la vedova, l'impietrito ritratto del potere.
Un ritratto ferocemente crudo - e allo stesso tempo totalmente poetico - della brutale natura umana e della pazienza santa dell'umile, della vittima innocente (viene in mente la figura biblica di Giobbe).
Superlativo.

Fabrizio Falconi - 2023

03/03/22

Guerra in Ucraina - Perché invece di censurare Dostoevskij, andrebbe letto per far rinascere la Russia

 


Sconcertato come tutti dalla folle decisione di una università italiana di annullare il corso di uno scrittore italiano tra i massimi conoscitori di Dostoevskij, decisione per fortuna subito ritrattata e frutto evidentemente di un colpo di sole, o di una scellerata concezione del politically correct, ho ritrovato questa pregevole intervista di qualche anno fa (2012) realizzata da Alessandro Zaccuri a Tat’jana Kasatkina, filologa e critica letteraria che presso l’Accademia delle scienze di Mosca ha presieduto la commissione per lo studio dell’autore di Delitto e castigo. Le sue parole, rilette oggi, suonano profetiche e spiegano perché Dostoevskij può e deve essere proprio il punto di ripartenza della Russia, arrivata a un punto di non ritorno nel suo processo di putinizzazione

«Dostoevskij – diceva la Kasatkina – è lo scrittore russo della sua epoca più vicino ai lettori di oggi, giovani compresi. Più di Tolstoj, grandissimo romanziere, certo, che però finisce per allontanarsi da noi per la sua preoccupazione di impartire precetti morali. Si presenta come un maestro, vuole insegnarci la bontà, ma davanti a questa pretesa l’essere umano si sottrae, perché intuisce l’accusa nascosta in un simile atteggiamento: “Così non va bene, pare che sostenga Tolstoj, non sei come dovresti essere, non sei abbastanza buono”. Dostoevskij, al contrario, lancia un richiamo al qual l’essere umano non può non rispondere. “Sii, dice a ciascuno di noi, diventa te stesso”. È una sfida completamente diversa, che implica il rischio, l’avventura, un totale abbandono all’inatteso».

Anche il pericolo di perdersi? Il concetto dostoevskijano di «sottosuolo» non è del tutto rassicurante, obietta Zaccuri.

«Perché viene frainteso», risponde al Kasatkina, «nei Ricordi del sottosuolo Dostoevskij rappresenta l’uomo del suo tempo, al quale non è stata neppure data la possibilità di credere in Dio. Una condizione terribile, con il mondo ripiegato su se stesso, chiuso a ogni occasione di incontro con l’Assoluto. È il momento in cui l’umanità crede di salvarsi con le sue sole forze, facendo affidamento sulla propria intelligenza. Il cosiddetto “uomo del sottosuolo” non rappresenta il nostro lato di tenebra, ma il disaccordo radicale nei confronti di questa limitazione. Sente di essere più grande di ciò che gli viene imposto, è come se dovesse sottoporsi a un intervento chirurgico che lo mutili per adeguarlo alle richieste della mentalità corrente. Ma lui sa che nella sua persona non c’è nulla di superfluo e quindi non può smettere di picchiare conto la “parete di pietra” eretta dalle leggi di natura, a causa della quale sarebbe condannato a un’esistenza solo orizzontale

Del resto, già prima di scrivere Ricordi del sottosuolo, in alcune pagine poi espunte da Memoria da una casa morta Dostoevskij aveva affermato con chiarezza che la vera pena non sta nella sofferenza e neppure nella reclusione: l’uomo soffre veramente solo quando sa di non essere più libero».

«Ho scoperto L’idiota a undici anni: allora (all'epoca della Unione Sovietica, ndr) non potevamo conoscere il Vangelo, ma potevamo conoscere il principe Myskin. È stata la mia e la nostra salvezza. Dostoevskij ci ha fatto capire che eravamo costretti a vivere sotto un cielo artificiale. Meglio, sotto una stuoia che era stata stesa al posto del cielo. Intendiamoci, anche oggi c’è qualcuno che si adatta a stare sotto una specie di ombrello che lo separa da Dio. Ma per la maggior parte di noi quella era la morte. Dostoevskij è stato più di uno scrittore: è stata la persona che ci ha aiutato a liberarci di quella stuoia, in modo da ritrovare il cielo. Andando oltre la parete di pietra, insomma».

Vale anche per la Russia di oggi?

«Dopo le scorse elezioni è accaduto qualcosa di sorprendente per la sua naturalezza. A Mosca sono scese in piazza non meno di trentamila persone (cinquantamila, secondo alcuni), non con l’intento di creare disordini, ma per guardare finalmente il potere negli occhi. “Non capiamo come sia possibile continuare a mentire così”, questa è la sostanza della ribellione, che coincide con la richiesta di essere trattati non come sudditi, bensì come esseri umani. Le proposte che hanno preso a circolare sul web non sono rivolte alle autorità, ma ai singoli cittadini, alle persone nella loro straordinaria e irripetibile singolarità. Il compito è lo stesso indicato da Dostoevskij: “Sii”, e cioè “diventa uomo in tutta la tua pienezza, lì dove ti trovi, in ciò che fai ogni giorno”. La vera rivoluzione russa sta in questo cambiamento interiore, che prescinde dai passi che il governo vorrà o non vorrà compiere».

23/06/21

"Chadzi-Murat" il capolavoro di Tolstoj sulla Guerra, che stregò Ludwig Wittgenstein


Adesso che l'ho finalmente letto - uno dei pochi Tolstoj che ancora mi mancavano - capisco pienamente perché Ludwig Wittgenstein, ai suoi studenti di Cambridge che partivano per la mattanza della Seconda Guerra Mondiale, raccomandava fortemente la lettura di questo breve romanzo e anche che lo portassero con loro in trincea.

A sua volta, Wittgenstein aveva letto e portato con sè, Chadzi-Murat quando si era arruolato volontario nelle file dell'esercito imperiale austro-ungarico all'indomani dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale.

Era stata per lui una lettura fatale.

E se a distanza di 30 anni lo raccomandava alle reclute inglesi (nel frattempo egli si era stabilito a vivere e a insegnare a Londra), era perché aveva toccato con mano la portata dirompente di quel racconto lungo, come un definitivo apologo sulle dinamiche della guerra, di chi la conduce e di chi la vive sul fronte, della sua imbecillità e della sua ambiguità sottile.

Nessuno, meglio di Tolstoj, ha potuto e saputo raccontare la guerra, non solo nei suoi orrori ma anche e soprattutto nella folle ebbrezza che provoca in chi viene mandato al macello (ebrezza che nel caso della Wermacht era amplificata dalla diffusione obbligatoria massiccia delle potentissime metanfetamine che venivano assunte a manciate dai combattenti di ogni ordine e grado).

Tolstoj aveva vissuto in prima linea per anni la guerra in Crimea, conoscendo profondamente quei sentimenti profondi di dissoluzione e esaltazione che rapiscono i soldati mobilitati da un qualche ideale patriottico o semplicemente da primari registri umani come il rancore, la rivincita, la vedetta, l'onore.

Ma in Chadzi-Murat Tolstoj allarga il suo affresco fino alle stanze dei potenti, di coloro che la guerra la decidono, la impongono, la vivono, la giocano come ambizione personale e accrescimento smisurato del proprio potere.

In un lungo capitolo, il XV, Tolstoj descrive il ritratto forse più vero e terribile che sia mai stato scolpito di un tiranno, in questo caso lo zar Nikolaj Pavlovic.

In queste pagine nulla viene risparmiato, tutto viene mostrato: della pochezza umana, della qualità miserabile di questo essere umano che la sorte ha dotato di un potere di vita e di morte immenso. Dei suoi meccanismi psicologici primari, di lui e della ridicola corte di servili parvenu che gli si muove intorno.

Il capitolo XV venne, come è ovvio, interamente cassato dalla censura zarista quando il romanzo fu pubblicato a Mosca nel 1912, due anni dopo la morte di Tolstoj.

Fabrizio Falconi - 2021

09/01/20

Libro del Giorno: "Anni con mio padre" di Tatiana Tolstoj



E' un libro che interessa e interesserà gli appassionati di cultura russa e in particolare dell'opera di Tolstoj, fornendo una prospettiva inedita e assi interessante della sua vita familiare e dei rapporti con la famiglia e con la moglie Sof'ja Tolstaja, sulla quale sono stati scritti fiumi di libri. 

Stavolta però, le memorie famigliari vengono raccontate dall'interno, e per questo motivo il racconto è tanto più prezioso, perché provengono dalla figlia secondogenita del grande scrittore, Tat'jana L'vovna Tolstàja, coniugata Suchotina, che nacque a Jasnaja Poljana il 4 ottobre 1864 e morì in Italia, a Roma il 21 settembre 1950).

Tatiana è stata un'attivista e memorialista. Da ragazza frequentò l'Accademia di belle arti a Mosca, dove fu allieva di celebri pittori russi tra cui Il'ja Repin. 

Come la madre e le due sorelle, aiutò il padre nel suo lavoro in qualità di copista. In proposito, Pietro Citati scrive: «il grande fantasma amoroso, che occupava la mente di Tat'jana, era il padre. Davanti a lui, era come una timida vergine, pronta a venire immolata. Lo riconosceva lei stessa: "Sì, papà è il più grande rivale di tutti i miei innamorati, e nessuno di loro ha potuto vincerlo".» 

Nel 1899, contro il volere di Tolstoj, sposò l'amico di famiglia Michail Suchotin (che morirà nel 1914), un vedovo di quindici anni più anziano, padre di sei bambini, da cui ebbe, dopo quattro aborti spontanei, la figlia Tania. 

Dal 1878 al 1919 tenne un diario; verso il 1913 iniziò le proprie memorie (Infanzia e Adolescenza, pubblicate postume); alla fine degli anni venti scrisse e pubblicò Su mio padre, a cui seguirono Lampi di memoria.

Appassionata ai problemi di pedagogia, conobbe Maria Montessori, s'interessò al suo metodo e ne portò in Russia tutte le pubblicazioni.

Dopo la Rivoluzione, fra il disordine generale, fondò insieme alla madre, alla sorella Aleksandra e al fratello Sergej, il Museo Tolstoj, dirigendolo dal 1923 al 1925, poi lasciò la Russia: fu ospite a Praga del presidente Tomáš Masaryk (vecchio amico di Tolstoj) e a Vienna dall'attore Alessandro Moissi (che aveva recitato come protagonista del Cadavere vivente di Tolstoj); quindi emigrò in Francia (a Neuilly aprì una piccola pensione dove accolse altri profughi russi) e infine in Italia.

Con modeste risorse (Tolstoj aveva rinunciato ai diritti d'autore e quindi la famiglia non poté trarre nessun vantaggio economico dalla sua sterminata eredità letteraria), trascorse gli ultimi vent'anni con la figlia a Roma, dove allestì una «camera tolstoiana», ovvero un piccolo museo dedicato al padre.

Nel dicembre del 1931, il Mahatma Gandhi sostò in Italia per tre giorni: durante quel soggiorno, la visita di Tat'jana Tolstaja fu l'episodio che gli fece più piacere.

Il 3 novembre 1949 scrisse a Jawaharlal Nehru per invocare la grazia verso gli uccisori del Mahatma: «in virtù di ciò che senza dubbio sarebbe stata la volontà della stessa loro vittima Gandhi. Gandhi, che teneva a proclamarsi discepolo di Leone Tolstoj, e mio padre, eleverebbero la loro voce, se potessero, per evitare che un atto di violenza succeda al delitto commesso dai due assassini...» 

Fu sempre una convinta vegetariana, contraria al tabacco e profondamente antimilitarista. Quando si ammalò, poiché desiderava morire in piena coscienza, rifiutò decisamente l'uso di narcotici.

Questo diario di Tatiana si legge dunque come una commovente confessione, che nelle intenzioni della figlia tende a ristabilire la verità sui difficili rapporti tra Tolstoj e sua moglie, Sof'ja, che pur amandosi molto avevano differenze di vedute fondamentali, riguardo al modo di vivere, alla religione, al patrimonio.   Fino alla romantica e tragica fuga da casa di Tolstoj, che nel 1910 ne accelerò la morte, che avvenne come è noto all'interno della minuscola stazione di Astapovo, senza che alla moglie fosse stato concesso di assisterlo. 

Il libro è anche corredato di splendide fotografie dell'epoca.

26/10/16

Carlo Maria Martini, "l'uomo del dialogo". Un ricordo in questi tempi di barricate.



Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta… Lo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice. (Lev Tolstoj) 

Sono parole che potrebbero essere tranquillamente attribuite al Cardinale Carlo Maria Martini, perché riassumerebbero come forse meglio non si potrebbe il sentire dell’uomo che dopo aver condotto per 33 anni l’arcidiocesi Milanese, è divenuto un punto di riferimento della spiritualità non solo cattolica, nel mondo. 

E in effetti le parole di Tolstoj, riferite all’inizio, furono scritte in una sorta di testamento spirituale – poco conosciuto – Amatevi gli uni e gli altri, poco prima della morte, dal grande scrittore. 

Carlo Maria Martini era ‘tolstojanamente’ convinto che l’amore fosse la via rivelatrice e conoscitrice di cui gli uomini dispongono, nell’attraversamento di questa vita.

 Il cristianesimo – scriveva nella risposta alla missiva di uno dei tanti lettori che si rivolsero a lui nella rubrica del Corriere della Sera che curò negli ultimi anni della sua vita – è molto di più di una religione; esso nasce dall’iniziativa divina di entrare in contatto con l’uomo e di rivelargli se stesso. 

E non è un caso se, a partire dal momento esatto della sua morte, la sera del 31 agosto scorso, la parola più usata in relazione a Martini sia stata proprio ‘dialogo’. Dia-logo: Martini era l’uomo del dialogo. 

E cioè l’uomo del logos (cioè della parola) e del dia (cioè del ‘fra’: parole fra soggetti diversi, questo è dia-logo): solo una forma di com-prensione e di amore infatti permette il reale dialogo tra le persone; solo l’amore permette il vero dialogo, solo il dialogo mi permette di uscire da me stesso e di farmi altro, farmi-con-l’altro. Che nel caso di Martini era un Altro. 

Un Altro-alto, che attraverso di me trova il suo posto nel mondo, in questo mondo. 

Tutta la vicenda umana di Martini, dunque, dai primi passi compiuti, appena adolescente, nella casa dei Gesuiti di Cuneo, fino alla mirabile carriera universitaria che lo portò fino a ricoprire il ruolo di rettore della Pontificia Università Gregoriana, fino al prestigioso incarico di Arcivescovo di Milano, nel ruolo che fu di Sant’Ambrogio prima e di San Carlo Borromeo poi, e fino ancora ad una forte candidatura a divenire Papa, è improntata, ha come sigillo questa ricerca continua di spiritualità autentica, fondata cioè non tanto e non solo sulla elaborazione dei dogmi e delle liturgie, quanto soprattutto sul dialogo umano e vivente con i diversi, con gli atei, con l’altro, con la comunità intera dei fedeli, oltre che sulla preghiera.

 E a proposito del Soglio sfiorato, chi scrive era, insieme ad altri, sul tetto del Collegio dei Padri Agostiniani, quella sera del 18 aprile 2005. Si stava tenendo il Conclave per la elezione del 265mo successore di Pietro. C’erano diversi motivi di disorientamento tra coloro che seguivano i lavori, in quei giorni. 

Il primo motivo era la morte di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, avvenuta 16 giorni prima, il tardo pomeriggio del 2 aprile, dopo una lunga e lenta agonia. Un pontefice che aveva segnato così profondamente la storia degli ultimi anni. 

Il secondo motivo era il tempo passato dalla elezione precedente: 27 anni. Essendo stato eletto il polacco, il 28 ottobre del 1978. 

Un tempo così lungo che perfino per i più esperti segnava una barriera temporale ostica: chi ricordava, tra i presenti, esattamente i riti del Conclave ? Chi poteva dirsi preparato ad affrontarli per descriverli minuziosamente, quei riti così complessi, sedimentati nei venti secoli precedenti, frutto di infinite variazioni e correzioni del cerimoniale canonico ? Una sola certezza sembrava esservi, all’inizio di quello che fu poi uno dei Conclave più veloci della storia (e su questa velocità pesò sicuramente anche proprio quella necessità di riempire il più presto possibile il vuoto lasciato da un predecessore così “ingombrante”): i due pretendenti più accreditati e più autorevoli erano Joseph Ratzinger da un lato e Carlo Maria Martini dall’altro. 

A molti - e la stampa ovviamente giocò molto su questa dicotomia - sembrava il confronto perfetto: la dogmatica contro il colloquio, la dottrina della fede contro l’umanità del confronto cristiano. Vinse Ratzinger. 

Le cronache dei retroscena del Conclave riferirono che Martini, riluttante sin dal principio, a ricoprire un compito così gravoso, sin dopo il primo scrutinio - avvenuto appunto la sera del 18 aprile - scelse esplicitamente di rinunciare, convinto dal numero non sufficiente di voti ricevuti (il vero antagonista divenne così Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, anche lui Gesuita; ma soltanto per altre due votazioni: al quarto scrutinio Ratzinger ottenne il quorum necessario) nel primo scrutinio e dalla eventuale possibilità di frammentare in due il Collegio dei Cardinali, con la prospettiva di un lungo Conclave che avrebbe potuto avere conseguenze pesanti. 

Sulla decisione pesò anche sicuramente la consapevolezza di una malattia che non perdona - Martini aveva già da sette anni quel Parkinson che quest’anno l’ha portato alla morte, consumandolo lentamente. 

Che speranza poteva darsi alla Comunità dei credenti eleggendo un nuovo Papa afflitto, per ironia del destino, dalla stessa malattia che aveva segnato e portato via l’illustre Predecessore? Martini decise, prima ancora che vi fosse il rischio di una elezione, di defilarsi. Mi sono chiesto più volte (me lo chiesi anche in quei giorni) – e in tanti sono tornati a chiederselo in questi giorni, dopo la sua scomparsa - cosa sarebbe accaduto se Martini fosse divenuto Papa, se fosse stato lui l’erede di Wojtyla, e non Ratzinger. 

Oggi che la grande anima di Carlo Maria Martini ci ha lasciato su questa terra, è inevitabile - ma forse anche profondamente inutile – domandarselo, speculare su cosa sarebbe potuto essere e non è stato. Per un cristiano, oltretutto, queste sono questioni veramente superflue, che non dovrebbero essere mai poste, perché il primo credo è quello della fiducia e dell’affidamento ad una Volontà superiore, che ne sa sicuramente più di noi. 

Anche perché probabilmente il progressivo, lento isolamento a cui la malattia ha costretto Martini - isolamento dovuto negli ultimi tempi anche alla impossibilità di parlare - ci ha regalato qualcosa di molto grande, indipendentemente dall’essere divenuto o meno il capo effettivo della Chiesa cattolica. 

Lo spirito infatti ha parlato in ogni momento, in ogni giorno, attraverso le parole di Martini pronunciate magari sottovoce, ai più stretti confratelli e negli ultimi tempi solo grazie ad un apparecchio acustico in grado di amplificare e rendere comprensibili i flebilissimi suoni della sua voce; attraverso le parole scritte per coloro - sempre più numerosi - che hanno voluto leggerle nei suoi molti libri, nei suoi Esercizi Spirituali, nelle lettere dalla Terra Santa, dove per diversi anni si era ritirato, nelle lettere ai giornali. E ha parlato anche - fortissimo - attraverso il suo silenzio sofferente. 

Forse, anzi, lì più che altrove. Non c’era modo più esplicito e più concreto, per tutta quella che è stata la sua parabola terrestre, per lasciare un segno tangibile della sua presenza che durerà a lungo, che sarà per molti incancellabile e che si racchiude forse in una sola parola: speranza. “Occorre avere una forte fiducia in Dio Padre”, scriveva negli ultimi tempi Martini, “che conosce tutta la nostra eternità e vuole il meglio per noi, e un grande amore per Gesù. Per questo non si tratta mai di una operazione astratta, ma di un dramma in cui si scopre l’amore di Dio e la nostra capacità di dono e di perdono”.

Fabrizio Falconi

08/02/16

"Guerra e Pace", la serie BBC: un prodotto di grande livello.




C'erano una volta gli italiani che sapevano fare meglio di tutti le riduzioni televisive dai grandi capolavori della letteratura. 

Fu una stagione d'oro, che passò dai cosiddetti sceneggiati - a cui lavorarono alcune tra le migliori menti e penne di quel periodo - e che oggi è morta e sepolta. 

Oggi le serie di qualità vengono dall'estero, e soprattutto dall'Inghilterra. 

La BBC, in particolare, ha deciso, dopo più di quarant’anni dall’ultimo adattamento (in quello uno dei protagonisti era Anthony Hopkins) di rimettere le mani sull'epico Guerra e Pace di Lev Tolstoj. 

La BBC ha coprodotto la serie insieme alla Weinstein Company, trovando l'accordo per la messa in onda con Lifetime, A&E Network e History

La sfida nella sfida è stata quella di una miniserie di sole 5 puntate.  Un'opera davvero improba, per ridurre il fluviale romanzo Tolstojano alla quale si è dedicato lo scrittore Andrew Davies.

Con risultati davvero sorprendenti. 

Le vicende delle cinque famiglie russe durante il periodo di guerra napoleonico sono raccontate con piena padronanza del materiale storico-narrativo e nello stesso tempo con una inevitabile brillantezza sintetica, che non umilia il romanzo. 

Splendido il cast con Lily James nei panni di Natasha, James Norton in quelli Andrei e il bravissimo Paul Dano nei panni di Pierre, oltre a Gillian Anderson, Jim Broadbent e Greta Scacchi. 

La serie è stata girata nei luoghi originari, tra la Russia e la Lituania.  La prova delle scene di Guerra, anch'essa superata con un ampio utilizzo di mezzi e di masse umane. 

Insomma, uno spettacolo per gli occhi sia per coloro che conoscono tutto e che amano questi personaggi da sempre, per essersene innamorati nella loro vita leggendoli nel capolavoro di Tolstoj, sia per il grande pubblico che non ha letto l'originale e che potrà ugualmente apprezzare.

Fabrizio Falconi

01/07/15

Beethoven, La Sonata a Kreutzer, il filo della Demonicità.

Francesco Jerace, Beethoven, Conservatorio di San Pietro a Majella, Napoli


Una volta, complice il romanzo di Tolstoj dallo stesso titolo, la Sonata a Kreutzer era una delle pagine più eseguite di Beethoven; oggi la sua fortuna è un poco calata anche rispetto ad altre Sonate per violino e pianoforte, forse proprio per quella letterarietà demoniaca imprestatole dallo scrittore russo con troppa sensibilità autobiografica.

Tolstoj infatti la prese a simbolo come potere seduttivo della musica, come rappresentazione di passioni che una persona per bene dovrebbe tenere al guinzaglio, ma che qui sono espresse con tale evidenza plastica che c'è il pericolo di abbassare i ripari, entrare in fase con quell'onda montante e divenirne complici, ahimé con tragiche conseguenze. 

Eppure quest'opera tutta slancio di sperimentalità non sembra molto adatta a sopportare pesi di natura morale; Beethoven annotò sul manoscritto, nel suo italiano approssimativo: Sonata scritta in uno stilo brillante molto concertante come d'un concerto, intendendo accentuare la componente "concertante" dove la platea, il pubblico sono necessari all'opera non meno del compositore; in realtà, come nella "Sonata patetica" per pianoforte gli premeva sopra tutto sgrossare un blocco compatto di travolgente energia, senza curarsi di dare al primo movimento un seguito coerente e conclusivo, e probabilmente è questo aspetto di forma abbozzata a grandi tratti, sdegnosa delle raffinatezze consuete alla musica da camera, che Tolstoj percepì come demonicità in atto.

Una testimonianza di queste connessione è ancora palpitante nella storica esecuzione di Adolf Busch e Rudolf Serkin riportata in vita in un cd della Naxos; il primo movimento, più che in esecuzioni recenti più "castigate", grandeggia in tutti i suoi colpi di scena, dall'introduzione lenta, quasi invocazione alla musa, alla vastità dell'Allegro, ondeggiante tra le sponde estreme della violenza e della cantabilità più seducente; Serkin e Busch s'incalzano e si aggrediscono, e con i mezzi di appena due strumenti sembrano produrre veri sollevamenti geologici di materia sonora; è come se Tolstoj li avesse sentiti anche lui, quando ha fissato il carattere passionale di questa sonata nel suo romanzo.

Giorgio Pestelli, La Stampa sabato 7 agosto 2004.




31/01/15

Simone Weil e la verità.


Non bisognerebbe mai stancarsi di rileggere quel meraviglioso libro che è Lettere a un religioso, di Simone Weil.

In questo libro, Simone Weil (1908-1943) fornisce alcune illuminazioni che restano a lungo nella mente e nel cuore. 

A un certo punto, nelle sue opere, la Weil insiste quasi con accanimento, sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità (e la veridicità) non siano subordinati all'adesione religiosa, ma siano essi stessi il principio normativo. Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore. Prosegue Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano (III, 401). 

 Pier Cesare Bori, analizzando questo passo della Weil fa notare come viene in mente un'opposizione - una delle tante, ma in questo caso non banale - tra Dostoevskij e Tolstoj. 

Dostoevskij afferma: Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e cioè starei con Cristo anche se avesse torto

Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo ). 

Un testo che riporta a Platone, al famoso sono amico di Socrate, ma più ancora della verità che nella sua forma originaria si trova in Fedro 91B-C, Socrate dice: …io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti dovrete opporvi con ogni vostro argomento

Nella sua Professione di Fede Simone Weil scriveva: V'è una realtà situata fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell'uomo questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova alcun oggetto in questo mondo. 


17/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (1./)



  Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (1./)



Quando Pavel Florenskij scriveva, nel 1914: Tutto scivola dalla memoria, passa attraverso la memoria, si dimentica. Il tempo …  divora i propri figli. L'essenza stessa della coscienza, della vita, di ogni realtà, sta nella transitorietà, cioè in una specie di dimenticanza metafisica (1) probabilmente non poteva certo immaginare che proprio la sua opera – unitamente alla parabola della sua vita – avrebbe così evidentemente contraddetto questa legge.   La nascita e la morte, aggiungeva,  sono i poli di un'unica realtà: chiamala vivere, chiamala morire, ma il nome più esatto è destino o tempo. Questo tempo uno, questo destino, consta a sua volta di nascita-morte unite polarmente, e così via fino agli ultimi elementi della vita, cioè ai minimi fenomeni di attività vitale. (2)

Il destino di Pavel Florenskij era stato quello di morire fucilato vicino Leningrado -  insieme ad altri 500 deportati dal Gulag delle isole Solovki, brandelli di terra nel nulla del Mar Bianco, dove Florenskij era stato internato dopo essere stato arrestato  il 26 febbraio del 1933 -  con questa accusa: “svolge attività controrivoluzionaria, inneggiando al nemico del popolo Trockij”.

Davvero uno strano destino, per lui, ordinato sacerdote della Chiesa Ortodossa nel 1911 finire i suoi giorni in un campo di prigionia - nell’estremo nord della Russia, esattamente sulla linea del Circolo Polare Artico -  che era in origine un antico complesso monastico, uno dei maggiori centri di spiritualità dell’ortodossia russa, trasformato dal regime bolscevico nel 1923 in SLON, ovvero Lager a destinazione speciale delle Solovki.        

Pavel ci era finito proprio perché ad ingrossare le fila dei detenuti di questo gulag erano soprattutto credenti, in particolare vescovi, preti, monaci e religiosi. 

Eppure, Florenskij non si era mai sognato di essere un controrivoluzionario militante, e pagava l’unica colpa di testimoniare la libertà di pensiero e di aver scelto l’esperienza ecclesiale al termine di un lungo percorso di consapevolezza, in un tempo in cui tutta l’intelligencija russa virava verso un forte sentimento anticlericale e antireligioso.   

Non v’è dubbio alcuno che quella che fu spenta in quel giorno d’ottobre, nel massacro di Sandormoch, fu una delle menti più brillanti dell’intero Novecento.  E la personalità, il pensiero scientifico, la filosofia di Florenskij sono sfuggite all’oblio. Non solo: oggi fioriscono ovunque saggi e studi a lui dedicati, e il suo lascito spirituale  - specialmente dopo l’apertura degli archivi del KGB -  oltre che puramente letterario continua ad apparire un luminoso esempio per le generazioni future.

Nato il 9 gennaio del 1882 nella città di Evlach, nell’Azerbaigian, Florenskij era il primogenito di sette figli nato dall’unione tra un ingegnere e la colta erede di una famiglia armena.   Su di lui, studente precoce e portato per la scienza, ebbero  una grande influenza le  opere dell’ultimo  Tolstoj:  il grande romanzo di Resurrezione,   e soprattutto La confessione. 

All’inizio del 1900, dopo molti anni passati in Georgia con la famiglia, intraprese gli studi all’Università di Mosca, dove si laureò in Matematica e Fisica quattro anni più tardi, discutendo una tesi di laurea sul principio di discontinuità che suscitò immediato interesse nel mondo accademico.   Ma lo studio della fisica e della matematica non bastavano ad una sete di conoscenza famelica: Florenskij negli stessi anni, cominciò a nutrire interesse per la filosofia antica, per la storia, per la poesia.   Infine nel 1904 la decisione di iscriversi alla Facoltà teologica di Mosca, dove come se non bastasse, cominciò ad approfondire le materie bibliche, liturgiche, insieme allo studio delle lingue antiche.  Forse più e meglio di altri Florenskij finì per incarnare un modello di aspirazione per un nuovo sapere multidisciplinare, sintesi di un modo di ri-pensare il mondo che – a cavallo del Novecento – si andava disfacendo, disgregando in una nuova (per molti aspetti spaventosa) complessità.

Nella religione Florenskij cercava il necessario complemento a quella metafisica completa capace di affrontare la lettura del mondo come un insieme.  Il cammino verso l’unità e quindi verso la verità era, per lui, fatto di passaggi attraverso i contrari, fino a congiungerli insieme, ma senza mai  fare confusione  e mantenendo le distinzioni; nella sintesi del Simbolo perfetto (Uno e Trino),  separato e inseparabile - era il pensiero di Florenskij -  c’è la formula che si può estendere a qualsiasi simbolo relativo, e a qualsiasi opera d’arte.


Cari figli miei, scriveva nel Testamento – iniziato l’11 aprile del 1917 , pochi giorni dopo lo smantellamento dell’Accademia Teologica moscovita nella quale Florenskij insegnava, e la cui redazione si protrasse per diversi anni fino al 1922 nel presagio dei drammi futuri che lo aspettavano - non permettete a voi stessi di pensare in maniera grossolana. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che si abbia cura di sé. Essere precisi e chiari nei propri pensieri è il pegno della libertà spirituale e della gioia del pensiero. (3)

(1./segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.      Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità, tr. it. di P. Modesto, Rusconi, Milano 1974, p. 54.   Questa è la prima traduzione mondiale di un’opera di Florenskij, e certamente contribuì in modo rilevante alla sua riscoperta in tutto l’occidente.
2.     Pavel A. Florenskij , Lo spazio e il tempo nell'arte, a cura di N. Misler, Adelphi, Milano 1995, p. 261
3.     Il Testamento di Pavel Florenskij è contenuto nella edizione italiana di Non dimenticatemi, a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak,  edizioni Mondadori, Milano, 2000.  Cit. pag. 418. 

18/10/13

Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (2./)





2. (Dieci grandi anime) - Andrej Tarkovskij (2) 

Il fatto di scegliere come titolo Martirologio, per questi diari, è già un segnale molto chiaro: per Tarkovskij la vita è un percorso di conoscenza che non  può essere disgiunto dal percorso terreno dell’uomo, tormentato tra la carne e lo spirito, la vita e la morte.  Ed è lo stesso figlio Andrej, curatore oggi dei Diari,  a riferire una frase che il padre gli ripeteva spesso: l’uomo non è stato creato per essere felice, vi sono cose ben più importanti della felicità. (2)

Per capire quali fossero queste cose, basta sfogliare le tormentate pagine dei diari, composte di vere illuminazioni, riflessioni profondissime, citazioni dei libri e dei maestri preferiti, preghiere, promemoria, sottolineature,  progetti, invocazioni, confessioni.  Un cahier umano, molto umano, che documenta il prezzo pagato alla creazione artistica, e soprattutto all’auto-conoscenza.

Ciò che interessa Tarkovskij è principalmente lo scopo della vita, che non può essere soltanto il soddisfacimento dei bisogni. Per l’uomo, scrive il 5 settembre del 1970, perché possa vivere senza tormentare gli altri, deve esistere un ideale.  L’ideale in quanto concezione spirituale e morale della legge.  La moralità è dentro l’uomo.  Là dove non c’è moralità, regna una misera e insignificante legge morale. Dove c’è morale, la legge morale non è più necessaria. (3)

Ma quel che vede intorno Tarkovskij, specie nella notte senza fine in cui il suo Paese appare precipitato, è un rifiuto di dare voce a questa moralità che è dentro l’uomo, e che ha a che fare con lo spirito.    Iddio a che punto arriveremo ! - scrive pochi giorni dopo, il 20 settembre del 1970 -  Mai prima d’ora l’incultura aveva raggiunto un tale livello. Questo rifiuto di ciò che è spirituale può solo generare dei mostri. Oggi come non mai bisogna difendere tutto ciò che ha anche un solo minimo rapporto con il mondo spirituale ! Quanto rapidamente l’uomo rinuncia all’immortalità, possibile che la sua condizione naturale sia quella della bestia ? (4).

Difendere tutto ciò che è spirituale. E’ quello che Tarkovskij cercherà di fare strenuamente, con i suoi film.  Il più misterioso dei quali, forse resta proprio Lo Specchio (titolo originale Zerkalo), girato nel 1975, e infarcito di immagini simboliche e di citazioni di versi del padre del regista, il poeta Arsenij. Nei Diari del periodo, Tarkovskij, riferisce anche delle critiche e degli insulti ricevuti e commenta: Lo specchio è un film antiborghese e perciò non può non avere una gran quantità di nemici.  Lo specchio è un film religioso. Naturalmente quindi, incomprensibile per la massa, abituata al cinema da quattro soldi e incapace di leggere libri, di ascoltare musica, di osservare un dipinto.  Alle masse in genere serve qualcosa di divertente, di distensivo, di spettacolare, sullo sfondo di una “storiella” edificante… il mio compito è di occuparmi di quello che Dio mi ha dato senza badare alla invettive di chicchessia. Non è che io pensi di me cose molto esaltanti, è solo che ognuno deve portare la sua croce.  E sarà il tempo a dire se è stata una meritata beffa, o se avevo ragione io.  Una persona egoista non può leggere e amare Tolstoj.  (5).

Temi che torneranno anche nel film seguente, Stalker,  nel 1979, a proposito del quale Tarkovskij scrive: Il film parla della presenza di Dio nell’uomo e della rinuncia alla spiritualità per l’acquisizione di una falsa conoscenza. (6)

E’ abbastanza semplice intuire quanto questi argomenti potessero sembrare sospetti alle autorità sovietiche dello spettacolo e ai produttori della Mosfilm.  Tarkovskij è riconosciuto come un grande regista di talento. Ma perché, invece che ad astratti sofismi di natura spirituale, non dedica il suo genio a raccontare storie di gente comune, magari esaltando il modello di vita e i sani valori della civiltà sovietica ? 

(segue -2./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

note 
2.     E’ quanto scrive il figlio di Tarkovskij, Andrej A. , nella prefazione al volume stesso, intitolata Il Martirologio (op. cit. pag.5).
3.      Op. Cit. p.37
4.      Op. cit.  pag.52
5.     Op. cit. pag. 191
6.     Op. cit. pag. 232. 

30/12/12

Le tre risposte meravigliose - Tolstoj.




Tolstoj scrisse un racconto bellissimo, che forse pochi conoscono e che è il mio modo per augurarvi un buon anno nuovo, il 2013.

In questo racconto c'è un imperatore che un giorno pensò che se avesse avuto la risposta a tre domande, avrebbe avuto la chiave per risolvere qualsiasi problema:

Qual'è il momento migliore per intraprendere qualcosa ?
Quali sono le persone più importanti con cui collaborare ?
Qual è la cosa che più conta sopra tutte ?

L'imperatore emanò un bando per tutto il regno annunciando una lauta ricompensa per chi avesse saputo rispondere alle tre domande.

Ma le risposte che i centinaia di avventori gli diedero, non lo convinsero in nessun modo.

Per la prima domanda risposero nei modi più vari. La cosa migliore era secondo alcuni la costituzione di un Consiglio di esperti, per altri era rivolgersi a maghi e indovini.

Per la seconda domanda, gli consigliarono di riporre la sua fiducia negli amministratori, un altro gli consigliò di affidarsi al clero o ai monaci.

Per la terza domanda, qualcuno disse che l'attività più importante era la scienza, altri dissero l'arte militare, o la religione.

Insoddisfatto, l'imperatore decise di rivolgersi a un eremita, un sant'uomo che si riteneva molto saggio,  che la mattina dopo decise di andare a trovare, scalando la montagna sulla quale si era ritirato a vivere.

Ma giunto al cospetto dell'eremita, questi non rispose a nessuna delle sue domande. Era intento a vangare il suo orto.  "Devi essere stanco, " disse l'imperatore, "lascia che ti aiuti".  L'eremita lo ringraziò , gli diede la vanga e si sedette per terra a riposare.

L'imperatore vangò per due ore, poi mise giù l'attrezzo, e disse all'eremita: "Sono venuto per rivolgerti tre domande. Ma se non sai darmi la risposta, ti prego di dirmelo, così me ne torno a casa mia."  

Ma l'eremita alzò la testa e disse: " Non senti qualcuno che corre verso di noi ?" L'imperatore si voltò di scatto e vide un uomo insanguinato che correva verso di loro, e che si accasciò a terra, a pochi metri.

23/12/12

Andrej Tarkovskij - "Una persona egoista non può leggere e amare Tolstoj".



Difendere tutto ciò che è spirituale. 

E’ il compito che Andrej Tarkovskij si era dato e che cercò di fare strenuamente, finché fu in grado, con i suoi film. 

Il più misterioso dei quali, forse resta proprio Lo Specchio (titolo originale Zerkalo), girato nel 1975, e infarcito di immagini simboliche e di citazioni di versi del padre del regista, il poeta Arsenij.

Nei Diari del periodo, Tarkovskij, riferisce anche delle critiche e degli insulti ricevuti (come gli capitava spesso per ogni nuovo film) e commenta: 

Lo specchio è un film antiborghese e perciò non può non avere una gran quantità di nemici. Lo specchio è un film religioso. Naturalmente quindi, incomprensibile per la massa, abituata al cinema da quattro soldi e incapace di leggere libri, di ascoltare musica, di osservare un dipinto. Alle masse in genere serve qualcosa di divertente, di distensivo, di spettacolare, sullo sfondo di una “storiella” edificante… il mio compito è di occuparmi di quello che Dio mi ha dato senza badare alla invettive di chicchessia. Non è che io pensi di me cose molto esaltanti, è solo che ognuno deve portare la sua croce. E sarà il tempo a dire se è stata una meritata beffa, o se avevo ragione io. Una persona egoista non può leggere e amare Tolstoj.


(In testa: video elaborazione di alcune immagini del film Lo Specchio). 

24/12/11

Rainer Maria Rilke - Lettera di Natale alla madre.



Accetta dunque, mia cara mamma, un bacio con tutto il cuore nella solenne ora di Natale, la più pacata dell'anno, la più misteriosa, in cui i desideri ancora ignari si tendono fino all'estremo e vengono per prodigio esauditi: trascorrila nel profondo, grande raccoglimento del tuo cuore, abbandona ogni dubbio e incomprensione: in quest'ora abbiamo un posticino dentro di noi dove siamo semplicemente bambini, che attende e sta là, fiducioso e mai confuso, nel suo diritto ad una grande gioia: questo è il Natale, avvertire dentro di sè, una volta l'anno, questa aspettativa questo fermo diritto che niente può deludere...

sentire che l'adulto che ora è sopra di noi non con meno, anzi, con molto di più, con l'infinito vuole sorprenderci,    che in fondo i nostri più grandi desideri, se solo apriamo loro il nostro cuore, non possono non essere esauditi, che mai quel che abbiamo dentro di noi è un desiderare allo stato puro ma in parte è già un essere esaudito che dobbiamo lasciare nelle mani di Dio, che coltiverà il nostro terreno, e gli darà credito.

Rainer Maria Rilke, Lettera alla Madre da Tunisi, Tunesia Palace Hotel, il 19 dicembre del 1910.

 nella foto: Lev Tolstoj con la nipote Tania Sukhotina a Iasnaia Poliana. 

16/06/11

'Considerate ciò che c'è sulla terra !'


Nei giorni scorsi il Vicariato di Roma ha diffuso due dati che, mi sembra, siano passati un po’ sotto silenzio e che invece forse vale la pena di meditare. Sono due dati piuttosto eloquenti che riguardano la città simbolo del cattolicesimo:
1. i matrimoni celebrati con rito religioso a Roma si sono, nel giro del ventennio 1990-2010 quasidimezzati (da circa 8,500 a 5000), mentre quelli civili sono rimasti invariati.
2. 1 bambino su 2 che nasce oggi a Roma, non viene battezzato (14.000 battezzati su 25.200 nel 2010).   Questi dati vanno ad aggiungersi ad un terzo, secondo il quale poco meno del 10% della popolazione partecipa più o meno saltuariamente alla messa domenicale.
I dati potrebbero essere tranquillamente allargati al resto del paese e manifestano quel che già appare evidente e cioè una scristianizzazione in atto – già piuttosto avanzata – della società italiana.
I numeri sono importanti ma di per sé non spiegano tutto. Qualcuno, analizzandoli, anzi vi troverà perfino aspetti positivi: meglio pochi cristiani ma convinti, si dirà, pochi cristiani che credono veramente e che ricominciano daccapo, piuttosto che un cristianesimo ‘di massa’, ma costruito su formalismi, non sentito, e tutto sommato dannoso perché ipocrita.
E però, comunque la si rigiri, i dati sono inequivocabili: Cristo è scomparso – anche come problema, come questione, come interrogativo – per una grande parte di persone, che stanno diventando rapidamente maggioranza.
Ecco: ma perché questo è successo ?  Certamente non è questo un luogo dove si possa tentare un’analisi seria di un fenomeno che ha radici antropologiche, culturali, sociali, complessissime.
Per quanto mi riguarda poi, non vorrei dare risposte – che non ho, ma suscitare domande.
La mia domanda è questa: ma non sarà che il mondo – il nostro mondo – sta diventando meno cristiano perché, molto semplicemente, Cristo è scomparso dalle nostre vite ?
Non sarà che sta finalmente trionfando quel sistema secondo cui la fede è sostanzialmente un fatto privato (il contrario, mi sembra di quanto è stato fondamentalmente e storicamente il cristianesimo) ?
Non sarà che la scristianizzazione dipende semplicemente che il nome di Cristo – e le parole che lui ha professato – sono scomparse dai comportamenti collettivi, pubblici, sociali ?
“Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni” – constatava amaramente Lev Tolstoj nelle sue‘Confessioni’ – “è assolutamente impossibile  capire se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi.”
Se una persona si professa ‘di fede’, e cioè cristiana, diceva in sostanza Tolstoj, ma non è intelligente, non è onesta, non è buona, non è retta, non ha sentimento etico (tutte manifestazioni che si sostanziano in comportamenti pubblici), costui, che cristiano è ?
Se il nostro cristianesimo serve a farci stare bene, a farci sentire migliori, più buoni,  ma non produce nullaper il mondo, per il resto della collettività – se addirittura lo stesso nome di Cristo è tabù (io stesso lo sento pronunciare pochissimo anche dagli stessi religiosi, fuori dai riti e dalle messe), cancellato dal consesso della vita comune – a cosa serve ?
Sono le stesse domande che si poneva Dietrich Bonhoeffer in anni cruciali, nei quali il nome di Cristo oltre ad essere tabù rischiava di generare di per sé, una condanna a morte.
Bonhoeffer la sua scelta la fece, e già nel 1932, intravvedendo che la semplice scelta di un cristianesimo timido e individuale avrebbe portato conseguenze tragiche per l’intera società in cui viveva.  Togliere Cristo di mezzo, infatti, relegarlo nei nostri spazi privati, gli sembrava una limitazione colpevole, una rinuncia che tradiva lo spirito stesso dei Vangeli, la parola più rivoluzionaria mai udita su questa terra, per l’uomo e per il mondo.
“Considerate ciò che c’è sulla terra !” scrisse “Da ciò dipendono molte cose: se noi cristiani abbiamo forza sufficiente per testimoniare al mondo che non siamo visionari o sognatori.  Che non lasciamo che le cose rimangano come sono, che la nostra fede non è veramente quell’oppio che ci rende felici in un mondo ingiusto.  Ma che noi, proprio perché tendiamo a ciò che è lassù, protestiamo tanto più ostinati e risoluti su questa terra.”
Fabrizio Falconi