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13/11/14

Una intervista a Tony Harrison, in visita in Italia. Uno dei maggiori poeti viventi.





Una intervista di Alessandro Zaccuri a Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.


Mentre parla Tony Harrison continua a muovere le dita, accompagnando spesso il gesto con una smorfia come di fatica. «Perché la poesia – ripete – è uno sforzo, una lotta per dare forma alla complessità. La poesia è… è questo». E le dita riprendono ad agitarsi. Non se la prende se gli si fa notare che il movimento ricorda quello di un fornaio intento a impastare. 

«È naturale – commenta –, mio padre era un fornaio e io non me ne sono mai dimenticato». Considerato uno dei maggiori poeti inglesi viventi, Harrison è in Italia per il premio alla carriera assegnatogli dal Festival internazionale di Poesia civile Città di Vercelli (www.poesiacivile.com), che ha avuto la sua anteprima ieri all’Università Cattolica di Milano, dove è stato presentato il volume che raccoglie alcune sue composizioni inedite appositamente realizzato, come da tradizione, dalla casa editrice Interlinea (Afrodite del Mar Nero e altre nuove poesie, a cura di Giovanni Greco, testo inglese a fronte, pagine 94, euro 12). 

Nato nel 1936 a Leeds, nello Yorkshire, Harrison è del resto già noto al lettore italiano grazie alle raccolte pubblicate nel tempo da Einaudi, tra cui spicca il poemetto V. I suoi versi possono a volte colpire per durezza, ma la sua conversazione è straordinariamente cordiale.

«La poesia ha sempre una dimensione civile – sottolinea –, anche quando si occupa di vicende personali. Ho scritto spesso della mia famiglia, dei miei genitori, delle mie origini proletarie e anche della malattia di mio figlio. Sono realtà comuni a tutti, drammi che tutti possono condividere. Ecco perché, per me, è così importante usare un linguaggio diretto, che anche mio padre potrebbe comprendere».

Le sue poesie, però, sono anche molto elaborate dal punto di vista metrico. 

"Non potrebbe essere altrimenti: tanto più è drammatica la materia, tanto più le parole devono lottare per farsi strada. È uno dei motivi per cui, ancora oggi, non riesco a comporre se non usando carta e penna. So di poeti che scrivono direttamente al computer, ma io non ne sarei mai capace. C’è una fisicità nel gesto di scrivere, qualcosa di intimamente legato al battito stesso del cuore umano».

Come è avvenuto il suo incontro con la letteratura? 
«In concreto all’università, che noi figli della classe operaia abbiamo iniziato a frequentare grazie al cosiddetto Education Act degli anni Cinquanta. Ma più in profondità devo ammettere che si tratta di un mistero anche per me. I miei, in casa, erano persone di poche parole. Dei miei zii, poi, uno era balbuziente, l’altro sordomuto. Articolare un discorso mi è sempre parso un’impresa. Nel momento in cui ho avuto accesso alla letteratura, mi sono reso conto che questa articolazione era possibile e che, al suo massimo livello, coincideva con la poesia. È così che sono diventato poeta. Ho voluto che fosse la mia professione, non qualcosa a cui mi dedicavo nel tempo libero: finché è stato necessario, mi sono qualificato 'poeta' perfino sul passaporto».

Una intervista di Alessandro Zaccuri Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.