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08/07/14

Per dirmi che sei fuoco (Fabrizio Falconi).





    Riesce a visitare suo padre soltanto il giorno prima. Il giorno prima che sia troppo tardi.
    Per tutta la settimana Nico ha vissuto in una sorta di stagnazione, come sospeso.  Al reparto è diventato uno di casa.  Ci ha trascorso almeno sei, sette ore al giorno.  Familiarizzando con altre facce e altre storie così diverse dalle sue. Non ha potuto fare a meno di ascoltare i racconti, le sofferenze, le speranze, i rancori sopiti di chi condivide con lui il gelido limbo della sala d’aspetto.  Uomini e donne, ragazzi e vecchi appesi al filo di una notizia, di una mezza parola detta o non detta, di un miglioramento intravisto, di un giorno intero senza buone nuove.  Non ha potuto fare a meno di sentire vicino a lui il pianto sommesso, i risolini isterici di sollievo, le domande senza risposta, ribattute come un rintocco di una campana.  C’è anche un ragazzo nel reparto, un ragazzo di tredici anni, un kossovaro caduto dal cantiere abusivo nel quale lavorava.  I medici ottimisti fanno fatica ad arginare il senso fatalistico della tragedia che incombe sulla sterminata famiglia che si avvicenda al capezzale.  Sono tutti immigrati senza passaporto, la polizia ha fatto a meno di convocarli in commissariato, loro si danno il cambio giorno e notte, interrogano i medici senza capire cosa gli viene detto, si ingozzano di panini e caramelle, condividono il dolore dei parenti degli altri ricoverati senza mai dare in escandescenze, senza farsi mai notare. 
        Fanno parte del piccolo universo dolente al quale Nico era del tutto estraneo prima dell’incidente di Michele. Anche lui vi appartiene adesso, separato dal resto del mondo dalla fragile porta a vetri del reparto.    Anche Nico, e tutte le poche o tante persone con le quali la vita di Michele si è intrecciata.  Alcune di queste, ne è convinto Nico, sono venute senza nemmeno farsi riconoscere, hanno spiato dai vetri, forse hanno chiesto qualcosa al medico di turno, e se ne sono andate.  Altri sono apparsi soltanto una volta, come l’avvocato Andò, che non si è più fatto vivo. (...)
         Con il passare dei giorni, e l’assenza di notizie significative, Nico è riuscito anche, durante le ore trascorse all’ospedale, a studiare un po’.  Ha trovato un paio di libri giusti. Una nuova chiarezza gli si è fatta piano piano spazio nella mente, riguardo alla sua tesi: ha deciso, scriverà soltanto a riguardo del rapporto con Bruna, con la giovane poetessa.  Partirà da lì.  L’energia dell’amore che rimette in moto, per l’ennesima volta – per l’ultima volta – il cuore del poeta.  Tutte le lontananze, tutti i distacchi, tutta la polvere, tutto ciò che è passato, è passato. L’esilio finisce con gli occhi di Bruna. Gli occhi di Bruna, e i suoi versi, il suo canto di poeta, il suo essere poeta, restituiscono la vita al poeta.

Hai visto spegnersi negli occhi miei
L’accumularsi di tanti ricordi,
Ogni giorno più di struggitori,
E un unico ricordo
Formarsi d’improvviso.


       Ha passato molte ore da solo, Nico.  Molte ore a leggere, ad alzare gli occhi dal libro per sorvegliare il passaggio di medici e infermieri, per accorgersi di un rumore, un segnale significativo. 

08/02/13

8 febbraio - 125 anni fa nasceva Giuseppe Ungaretti.




Ma Nico ha altro per la testa. È distratto. Forse per autodifesa, la sua mente se ne va dietro ad Ungaretti, e alle cose che ha scoperto nell’ultimo libro che ha letto, e non ha mai saputo. Finora, per esempio, si è concentrato solo sugli anni brasiliani. Un pericolo, l’aveva ammonito il relatore, Silli, è quello di perdere di vista l’intero percorso. Ha ragione. Così da un po’ di giorni ha cominciato a leggere di tutto, anche cose non attinenti il periodo brasiliano. E si è imbattuto in quel nomignolo che Ungaretti si era dato quando da Alessandria d’Egitto collaborava con la rivista Risorgete! : GIUNGA, utilizzando le prime due lettere del nome e le prime quattro del cognome. Giunga: esortazione poetica rivolta a chi, a cosa? Comunque Geniale.

Nico non saprebbe spiegare perché ha scelto proprio Ungaretti per la tesi di laurea. All’inizio non gli piaceva. Poi, ha cominciato a leggerlo, prima in maniera disordinata e distratta, e alla fine sempre più seriamente.

La laurea in lettere non gli interessa, in fondo. C’è arrivato un po’ per caso. Sua madre non l’ha spinto, l’ha lasciato fare. E lui si è iscritto, alla fine del liceo, forse solo perché la materia che insegnano la ritiene inutile. Inutile alla società, in questo senso. Studiare i poeti gli ha consentito di crescere senza prendersi responsabilità. Se non di fronte a loro, i poeti, appunto. Ma loro, non possono recriminare. Almeno così crede Nico.

Ungaretti invece, gli interessa. È l’unica cosa che gli interessi ora, veramente. Da quando ha avuto accesso ai vecchi filmati conservati dalle Teche della RAI, che ha potuto visionare grazie alla lettera firmata dal professore. Da quando si è imbattuto in quegli occhi cinesi, e in quella barba da sciamano, è rimasto folgorato. È come se gli occhi e la barba, e le parole, e la faccia chiusa e allegra, libera e triste, lo aspettassero da tempo.

Da: Fabrizio Falconi, Per dirmi che sei fuoco, Gaffi,  pag.6. 

03/05/12

'Prima di Andare', 1983.




Era molto tempo fa.

Nel 1983 l'occasione di un esordio importante per me che davvero ero molto molto giovane.  Dell'occasione devo ancora oggi ringraziare Maria Cristina Beccattelli, che insieme a un ristretto gruppo di amici, sognatori, realizzò il progetto dell'Editoriale Sette, a Firenze. 

La nuova casa editrice esordì proprio quell'anno con due collane - Racconti per una notte e Poesie per una notte -  e una originale proposta di distribuzione, oltre che nelle librerie, nelle catene alberghiere italiane,  presso le quali i libri venivano offerti come cadeau in segno di ospitalità. 

Il catalogo fu subito di alta qualità, con proposte raffinate:  Elin Pelin, Restif de la Bretonne,  Yuri Tynjanov...

La collana dei Racconti per una notte era diretta da Milena Milani (qui sotto nella celebre foto di Gianni Berengo Gardin, a Venezia durante la Biennale del 1968 insieme a Giuseppe Ungaretti).

Il privilegio fu per me di far parte, come autore, di quella ristretta schiera di autori scelti per aprire una nuova avventura editoriale.

Erano altri tempi: tempi nei quali, forse, il coraggio e la passione (e perfino l'incoscienza), l'amore per la parola scritta, in questo Paese, erano in grado di sovvertire le regole non scritte dell'editoria e della distribuzione e di compiere piccoli miracoli come questo.  




30/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 3


In qualche caso l’Epitaffio è qualcosa di ancora ulteriore. Le parole usate come iscrizione funebre sono quelle pronunciate dallo stesso morente. Questo è avvenuto, avviene ancora oggi quando quelle parole rimandano ad un segno particolare, significativo.

Sembra ad esempio che le ultime parole pronunciate da Karl Barth il 10 dicembre del 1968 poco prima di morire, e incise quindi sulla sua lapide siano state queste:

Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi. Essi vivono tutti per Lui. Dagli apostoli fino ai padri dell’altro ieri, e di ieri.

Straordinario. Barth cita l’evangelo di Luca ( 20,38 ): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui.

E sceglie proprio un passo cruciale: un passo dove il Cristo sembra quasi ‘penalizzare’ i morti, in favore dei vivi. Ma poi, appena si prova a rileggere la frase, a farne fermentare il senso, si capisce invece che questa frase spiega invece proprio quel senso di ‘soglia’ di cui parla anche la De Monticelli: i morti, secondo il Cristo, sono vivi, attraverso la morte sono vivi, e vivono per Dio.

I vivi diventeranno morti e devono vivere per Dio, seguendo proprio l’esempio dei morti, di coloro che hanno oltrepassato la soglia.

In questo senso l’epitaffio di Karl Barth, le ultime parole pronunciate prima di morire, rappresentano una sorta di testamento esemplare, per uno dei più grandi e tormentati teologi dell’era moderna.

08/05/11

Lessico dei Poeti 2 - 'Fuoco'.


Fuoco.

Per molto tempo ancora la critica di tutto il mondo continuerà a speculare sui meravigliosi Four Quartets di Thomas Stearn Eliot ( 1888 – 1965 ), caposaldo della letteratura poetica di tutti i tempi. E a ragione, perché se è vero – con tutti i limiti delle semplificazioni – che Eliot è ritenuto il poeta metafisico per eccellenza, i suoi densi versi dei Quattro Quartetti, scritti a cavallo della seconda guerra mondiale, rappresentano un testo capitale anche per le infinite implicazioni che vi si possono riscontrare su questioni umane e filosofiche: il senso del tempo, la speranza e la fede, la terra e il cielo, memoria e oblio.

Una delle parole chiave dei Quattro Quartetti è, indubbiamente Fuoco. A questa parola, Eliot ritorna più e più volte con diversi accenti, a tratti con una specie di meditazione, o come una invocazione. E’ quel che accade negli ultimissimi versi del poema, l’epilogo di Little Gidding, il quarto quartetto:

Non dovremmo smettere di esplorare/ E alla fine delle nostre esplorazioni/ Arriveremo là donde partimmo/ Come a un luogo sconosciuto…. Dove le lingue di fiamma si attorcigliano/ Dentro il coronato nodo di fuoco / E il fuoco e la rosa sono la stessa cosa.

In Inglese, e in modo molto più suggestivo:

When the tongues of flame are in-folded
Into the crowned knot of fire
And the fire and the rose are one
.

Molto si è scritto intorno a questa ‘unione’ quasi alchemica di fuoco e rosa. Due simboli così densi ed eloquenti. Non vi è dubbio che è la bellezza la meta ultima di questo viaggio a ritroso, la sintesi di apparenti antinomie, complementari. E il fuoco al quale ritorna spesso Eliot dovrebbe essere inteso appunto come il fuoco divino, che scaturisce, come scriveva Duns Scoto, il filosofo medievale irlandese, dal rapporto tra Dio e l’individualità delle cose.

La bellezza è il prodotto della fusione tra l’individualità umana e la potenza divina. Il fuoco è il motore di questo prodotto. Un fuoco miracoloso, che costa sofferenza. Anche il poeta vi partecipa, partecipa a questa sofferenza. Anche il poeta, i poeti, debbono consumare la propria voce nel fuoco divino della poesia. E’ per questo, forse, che la parola e il sentimento del fuoco ricorrono così spesso nelle lingue dei poeti, e dei poeti italiani.

Sei comparsa al portone

In un vestito rosso

Per dirmi che sei fuoco

Che consuma e riaccende

Giuseppe Ungaretti scrive questa poesia – 12 Settembre 1966 - al termine della sua lunghissima parabola artistica. Questo fuoco che “ consuma e riaccende “ non è solo il fuoco di una passione femminile venuta a rallegrare i giorni di un vecchio che ha molto vissuto e molto sofferto, ma anche un fuoco al quale arde il senso stesso della vita. Come nella poesia di qualche anno prima ( Canto a due voci, 1959 ) , in quei due meravigliosi primi versi:

Il cuore mi è crudele:

Ama né altrove troveresti fuoco

E’ così, dunque, amare è il fuoco che divora, e che ‘eliotianamente’ porta chi lo vive, in un ‘luogo ‘sconosciuto’, in prossimità di quella bellezza che per gli umani è perenne chimera.

Con toni simili, altri poeti hanno raccontato questa ansia di sciogliersi nel fuoco che brucia e trasforma. Come Sergio Solmi ( 1899 – 1981 ) che in Preghiera alla vita ( in Poesia, meditazione e ricordi, 1983) scrive:

Perché più bruci, per meglio sentirti,

perché sempre il cuor mi divida

…….

Perché più bruci, per meglio sentire

Questo tuo bacio che torce e scolora,

ogni fibra consuma al tuo fuoco,

ogni pensiero soggioga ed annulla,

ogni tuo dolce, la pace e la gioia,

negami ancora.

L’invocazione, qui, è in un senso di appropriazione totale della vita, che brucia al suo sacro fuoco l’essere, avvicinandolo al trascendente, una forma di consunzione che è condiviso da religioni diametralmente opposte, e che rimanda, eccome, ad echi orientali.

Ancora più chiaramente, e curiosamente negli stessi anni di Solmi, Biagio Marin ( 1891 – 1985 ) intitola una sua poesia ( Bruciare ! Bruciare ! E farsi solo fiamma ) contenuta in La vita xe fiama, Torino, 1982. E qui, Marin assolutizza il fuoco della vita in una specie di grande rogo cosmico:

Tutto il mondo è un fuoco

Che crea e dissolve i soli e le galassie,

la fiamma sola genera le grazie

e le frescure e i fiori d’ogni luogo.

Come non ricordarci subito del fuoco e della rosa di Eliot ? La fiamma genera il fiore. La fiamma e il fiore, come dice Eliot, e conferma Marin, sono la stessa cosa. E ancora:

Non temere di bruciare e consumarti,

di sparire nei silenzi dell’Eterno,

che la gloria di Dio si faccia inferno

quando l’albe s’annuncian delicate.

Lasciamo da parte le implicazioni metafisiche che su questi versi, pure, si potrebbero esercitare, con la ‘gloria di Dio che si fa inferno’ e giungiamo fino a Roberto Mussapi, uno dei migliori poeti di questa nostra generazione che al fuoco, e alla polvere ha dedicato una intera raccolta (La polvere e il fuoco, 1997 ). In uno dei componimenti, Lo sguardo del poeta, Mussapi spiega cosa è il mestiere di poeta: ascoltare, farsi tramite di quella voce che brucia e consuma e trasforma.

Lì, ascoltami, cadde lo sguardo,

ma non fu a caso, nulla accade per nulla,
fu la tua voce, la voce che sale dalle sponde abitate,
questo è il nostro unico margine,
confine e fuoco,
questa è la direzione dello sguardo.

Fabrizio Falconi