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23/10/19

Libro del Giorno: "La casa di psiche" di Umberto Galimberti



Il saggio di Galimberti, uscito per la prima volta nel 2006 e più volte ristampato, è un affascinante viaggio nella storia della filosofia, dai greci a Nietzsche e Heidegger e del suo complesso rapporto con la psicologia e con le psicologie, scienze relativamente molto più giovani della filosofia, che hanno affrontato l'esplorazione della psiche, fermandosi impotenti di fronte alla ricerca di un senso per l'esistenza umana. 

Le scienze psicologiche infatti non possono oltrepassare il problema ontologico che soggetto della ricerca psicologica è proprio la psiche, che è anche oggetto del medesimo studio. 

La psicologia cioè non può andare oltre se stessa, e se si ragiona sulla sofferenza determinata dalla irreperibilità di un senso, l'unica risposta può arrivare dalla filosofia, che sin dal suo sorgere non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi è rappresentato dalla tecnica, vera dominatrice tirannica delle nostre vite contemporanee che concepisce l'uomo soltanto come mezzo e lo getta nel deserto dell'insensatezza.

Dunque, nel corso delle dense 460 pagine, Galimberti ricostruisce le origini romantiche della psicoanalisi e l'obiezione fondamentale di Nietzsche con la ragione come equilibrio delle passioni. 

Seguono capitoli incentrati su Lacan, su Nietzsche e la nostalgia dell'innocenza, su Jung e la Psicoanalisi, con lo studio della dimensione simbolica nella pratica analitica e la polisemia del simbolo nella concezione di Jung e un bellissimo capitolo dedicato al simbolismo in astrologia (Storia e destino). 

E ancora, l'approccio fenomenologico di Husserl, Bisnwanger e l'analisi esistenziale, la psicologia come arte, e un commovente capitolo dedicato a Genio e Follia, con incursioni nelle biografie e nelle psicologie di Strindberg, Van Gogh, Holderlin e Rilke

Poi, Galimberti affronta la carenza sistematica della medicina e del suo totale fraintendimento del corpo, con i due volti della malattia, e gli equivoci generati dalla concezione fondamentalista della medicina (che Galimberti chiama superstizione scientifica). 

L'apertura alla filosofia, come rimedio e oltrepassamento della psicopatologia, passa attraverso il pensiero di un gigante come Karl Jaspers che va alle radici stesse del pensiero filosofico e alla filosofia come ricerca e pratica di vita.

Nell'ultima parte infine Galimberti affronta la condizione tragica dell'esistenza e i suoi preziosi antidoti, rintracciati nella giusta misura, nel concetto di limite, nella cura  e nella conoscenza di sé, nell'arte di vivere, nella virtù: valori già contrassegnati dal pensiero dei padri greci e oggi bisognosi di un ripensamento che Galimberti fa approdare nel concetto del nomadismo dell'etica, nell'etica cioè del viandante, che non vive inconsapevolmente accumulando esperienze, ma che, al contrario, valuta con responsabilità gli accadimenti della propria vita, non oltrepassando il limite e dando una misura a se stesso.

Fabrizio Falconi

Umberto Galimberti
La casa di psiche
Feltrinelli, Milano 2006
Pagine 460
Euro 15,00

28/01/19

Depressione e creatività. Malinconia e Genio. Un saggio bellissimo.


Nel settembre del 1787, quando aveva solo sedici anni, Beethoven rivelò un tormento che lo afflisse per il resto dei suoi giorni. In una lettera scritta poco dopo la morte dell'amata madre, confessò di soffrire per il dolore e per l'asma, cui si aggiungeva la "melanconia", che era per lui "un male grave quasi come la stessa malattia". Ben prima di essere straziato dalla sordità, che lo colpì a cavallo del secolo, Beethoven era già turbato per la disarmonia tra sé e il mondo. Questa cronica insoddisfazione si manifesta di continuo nelle lettere e nei comportamenti. La stessa melanconia inquieta agì peraltro anche da ispirazione per i suoi accordi sinfonici. 



Il 29 giugno 1801, in una lettera a un amico medico, Beethoven espresse la sua caratteristica melanconia con speciale intensità. Nella sua vita, scrive, tutto sembra procedere bene, almeno a una visione superficiale: le composizioni si vendono in fretta, molti editori gli chiedono lavori, ha poche preoccupazioni finanziarie. Ma l'apparenza nasconde una crudele realtà: la diminuzione dell'udito e i disturbi intestinali lo riducono alla "disperazione". Preoccupato di non poter guarire dall'incipiente sordità e dalle coliche, scrive: "Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza". Tutto quello cui può aggrapparsi, adesso, è la "rassegnazione": giura di voler "sfidare il suo destino", pur consapevole che ci saranno momenti in cui sarà "la più infelice delle creature di Dio".
La melanconia ci riporta a come Emily Dickinson definiva la "possibilità", una "casa più bella della prosa / di finestre più adorna, / e più superba nelle sue porte". Si trasforma in musa della visione, quella percezione di uno stato in cui le polarità di colpo si uniscono in turbolenta concordia, come stimolo a creare nuovi modi di immaginare relazioni tra opposti infinitamente misteriosi. Le creature melanconiche costituiscono un'affascinante squadra di mentori: pensare a simili guide aiuta a raccogliere le forze per resistere nei tempi bui. Possiamo identificarci tutti con queste grandi personalità, una lista d'onore di uomini e donne brillanti. Pensiamo a scrittori come Ernest Hemingway e Rita Dove, musicisti come Beethoven e Mahler, pittori come Goya e van Gogh. Ma non sono solo artisti; ci vengono in mente anche politici come Lincoln e Churchill, imprenditori come J.C.Penney e Ted Turner, attori come Carrie Fisher e Jim Carrey. 
O ancora scienziati come Isaac Newton e Sigmund Freud e capi militari come Napoleone e Sherman. Potrei aggiungere altri a quest'augusto elenco di innovatori melanconici; potrei menzionare Martin Lutero e Michelangelo, Hart Crane e Francis Scott Fitzgerald, Hans Christian Andersen e Florence Nigthingale, James M. Barrie e Mary Shelley, Handel e Holst, Rossini e Schumann, Paul Gauguin e Edward Munch. E Noel Coward, Victor Hugo, Cajkovskij, Charles Ives, Lev Tolstoj, Virginia Woolf, Dylan Thomas e Kierkegaard. Questa lista non arriva neanche lontanamente a fare giustizia dello sterminato inventario di illustri melanconici creativi. Che dire di Lord Alfred Tennyson, Franz Kafka e Jackson Pollock? Oppure di Abbie Hoffman, Tennessee Williams e William Faulkner? O ancora di John Lennon? O di Ad Reinhardt? O di Cary Grant? O di Marcel Proust?
Se soffri di costante melanconia, sei incluso in questa seducente litania di uomini e donne straordinari. Sei nauseato dello status quo; vuoi qualcosa di più dalla vita di quanto ti è offerto dalle fiacche convenzioni. Sei teso, un pò intimorito. Ma in questo momento ti senti più vivo che mai. Senti che sei sul punto di immaginare mondi alternativi, forze integre. Nel tuo momento di fecondità, guardi a queste figure come guide per una terra inesplorata, che recitano mantra commoventi nel tuo orecchio tremante. 



Nel 1890 Vincent van Gogh pose fine in modo repentino e violento al suo più forsennato periodo di attività creativa. Dopo aver completato freneticamente più di duecento quadri tra il 1888 e il 1890, compresi capolavori come Notte stellata e Campo di grano con volo di corvi, profondamente depresso, si incamminò sotto lo splendido sole giallo nella campagna francese e si sparò un colpo di pistola al petto. Morì due giorni dopo per la ferita. Aveva trentasette anni. Istinti suicidi e dipendenze pericolose sono forse il prezzo da pagare per i geni melanconici? 
Non sempre, certo, ma è comunque significativo che molti di loro dovettero lottare con gravi disperazioni e abitudini sordide. Forse è facile ammirarli da lontano; ma l'egoismo e lo sconforto di questi creatori produssero una bellezza che ci nutre senza fine. Per la bellezza occorre soffrire, è un tesoro da pagare a caro prezzo. Come dice Emily Dickinson, l'arte eccelsa è il "dono del torchio". Solo in questo modo possiamo continuare ad ammirare quegli animi malinconici la cui vita è stata dedicata a creare bellezza, non importa a quale costo. La melanconia è il terreno profano da cui sgorga il sacro. Abbiamo bisogno di credere che le nostre ombre generino luce. Non è il creare a renderci infelici; è l'infelicità a renderci creativi. 



Eric G. Wilson, Contro la felicità - un elogio della melanconia (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini) 



Eric G. Wilson è professore d'inglese alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina. E' autore di cinque libri sui rapporti tra letteratura e psicologia e ha ricevuto numerosi premi.

Fonte: Luigi La Rosa 

05/09/17

Cominciate a segnare sull'agenda: Una mostra strepitosa su Van Gogh a Vicenza, ad Ottobre.



La nascita e la formazione del genio di Van Gogh attraverso 43 meravigliosi dipinti e 86 straordinari disegni: e' la grande mostra allestita dal 7 ottobre all'8 aprile negli spazi della Basilica Palladiana di Vicenza

In primo piano, un focus mai fatto prima d'ora dei cinque anni di permanenza in Olanda, quando il dolore e la disperazione del vivere diventano per l'artista le uniche modalita' dell'esistenza, da cui pero' scaturiranno le sue immagini, le sue visioni, il suo colore. 

Con il titolo 'Van Gogh. Tra il grano e il cielo',l'importante esposizione segna il ritorno di Marco Goldin aVicenza con una selezione strepitosi capolavori, resa possibile grazie all'apporto decisivo di quello scrigno vangoghiano che e' il Kroller-Muller Museum in Olanda e ai prestiti concessi da una decina di musei internazionali.

La mostra, "con un taglio del tutto diverso rispetto ad altre che ho curato su o attorno a Van Gogh negli ultimi quindici anni - sottolinea lo storico dell'arte - studia dapprincipio, e in modo approfondito, i cinque anni della permanenza olandese dell'artista, nel Brabante, da Etten nella primavera del 1881 fino all'autunno del 1885 a Nuenen. Ma anche i mesi meravigliosi trascorsi nell'autunno del 1883 nella regione del Drenthe, quella piu' amata dai paesaggisti olandesi e nella quale Van Gogh realizza alcuni fogli di squisita eleganza". 

 Il percorso espositivo ideato dal curatore punta proprio a "fare entrare nel laboratorio dell'anima di Van Gogh, in quel luogo segreto, solo a lui noto, nel quale si sono formate le sue immagini. Spesso nella condivisione dei temi in primo luogo con Jean-Francois Millet e poi con gli artisti della cosiddetta Scuola dell'Aia, una sorta di versione olandese della Scuola di Barbizon". 

Dando grande spazio al disegno, da cui Van Gogh parti' quando decise di votarsi interamente all'arte, al modo dei celebrati maestri dell'antico. 

 Ma la mostra, dopo l'inedito approfondimento sugli esordi olandesi, proseguira' con i dipinti piu' famosi del maestro, per far comprendere quanto quella lunga formazione da autodidatta sia stata in realta' l'"indispensabile grammatica, della mano e dello spirito, per accendere quel colore nuovo che Van Gogh ha fatto vibrare come luogo di un cuore turbato e di un'anima lacerata". 

Una profondita' di indagine e ricerca che si riversera' in qualunque tipo di immagine prenda corpo sulla tela, dagli interni dei ristoranti parigini ai ritratti, dalle nature morte al ponte levatoio appena fuori Arles, fino agli ulivi di Provenza o ai campi di grano ad Auvers. 

 Ecco dunque sfilare nella Basilica Palladiana i quadri piu' conosciuti del periodo parigino e di quello provenzale, tra Arles e Saint-Remy, e dei 70 giorni conclusivi della sua vita a Auvers-sur-Oise, dove morira' alla fine di luglio del 1890

Protagonista e' sempre piu' la natura, diventa il luogo della sua tormentata interiorita', uno "spazio - conclude Goldin - riempito di colori, di visioni, di sogni, di urla e di strepiti. Di sospiri e respiri singhiozzanti, di improvvise e cosi' brevi accensioni di felicita'. Quello spazio che solo Van Gogh, prima e poi, ha saputo dipingere in questo modo". 

27/05/15

La Vita è un’Opera d’Arte - Decalogo per vivere.


Se non si vuole sprecare la propria vita terrestre – dal momento che per quel che ne sappiamo, è solo una, ed è anche breve – bisogna essere consapevoli del fatto che Vivere è un’opera d’arte.

E per vivere bene, per vivere una vita degna di essere vissuta – una vita umana – bisogna trattare la propria vita come il compimento di un’opera d’arte. ‘Opera d’arte’ non vuol dire necessariamente la Gioconda, o i fiori di ciliegio di Van Gogh.

L’opera d’arte non dipende dalle dimensioni: è un’opera d’arte il Giudizio Universale, ma lo è anche il centrino fatto ad uncinetto dalla vecchia.

E’ opera d’arte anche il buon vino del vignaio ed è opera d’arte anche la poesia notturna, nascosta in un cassetto.

Ciascuno è chiamato – con la sua vita – a offrire l’opera che può, a seconda del talento che gli è stato dispensato per mistero a noi in-conoscibile, come viene eloquentemente descritto nella celebre parabola evangelica. 

Il valore non è nel talento, ma nell’uso che se ne fa. La vita è dunque secondo me un talento dato a tutti. E a tutti sta trasformare questo talento in un’opera d’arte. 

Le dieci regole d’oro per trasformare una vita in Opera d’Arte e far sì che essa sia degna di essere vissuta, e sia perciò umana, sono quelle che regolano la creazione di ogni Opera d’Arte

1. Ogni Opera d’Arte deve avere un Senso. Un’opera in-sensata – come una vita in-sensata – non serve a niente e a nessuno. 

2.Ogni Opera d’Arte deve avere un Doppio Senso: un senso per chi la realizza (la vita) e un senso per gli altri (che vedono la tua vita, perché tu vivi in una comunità di umani). 

3. Ogni Opera d’Arte necessita di una Cura . Nessuna opera d’arte – e quindi neanche nessuna vita – si realizza con la trasandatezza, con la disattenzione, con il laissez-faire. 

4. Ogni Opera d’Arte ha bisogno, per nascere, di una ispirazione. L’ispirazione – come la vita – è dentro di te, ma è necessario che tu ti identifichi in lei, la ascolti, e la lasci parlare. 

5. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di metodo. Non basta da sola l’ispirazione. La vita – come l’opera d’arte – ha bisogno che tu organizzi le cose, che tu persegui il tuo progetto. 

6. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di Tempo. Senza tempo, che vuol dire pazienza – nessuna opera d’Arte e nessuna Vita sarà mai completata. 

7. Ogni Opera d’Arte deve essere nuova. L’originalità della tua vita è la stessa di una qualsiasi opera d’arte umana, che prima di essere creata, non esisteva. 

8.Ogni Opera d’Arte deve avere un valore. Un valore per chi l’ha creata, e uno per chi l’apprezza. Una vita senza valore, come un’Opera senza valore, non interessa nessuno. 

9. Ogni Opera d’Arte deve possedere fiducia. Fiducia che qualcuno saprà apprezzare, valutare, rendere, testimoniare, la nostra vita, come la nostra Opera. 

10. Ogni Opera d’Arte, una volta creata, è eterna. Perché, anche se sarà distrutta, continuerà a vivere nella memoria e nelle opere che essa ha – a sua volta – generato. 

Fabrizio Falconi – 22 maggio 2009 (C) riproduzione riservata 2015

01/05/15

Il ritratto del Doge Loredan, uno dei 5 dipinti più belli al mondo.

Giovanni Bellini, Ritratto del Doge Loredan, 1501-2 National Gallery, London


Sottoscrivendo il mantra secondo cui il gusto estetico è quanto mai soggettivo, il quadro di Giovanni Bellini, ammirabile alla National Gallery di Londra (61,6 x 45 cm.) rientra nella mia personale cinquina dei dipinti più belli del mondo, insieme alla Veduta di Delft di Vermeer, al Cristo crocefisso di Velazquez, L'incredulità di San Tommaso di Caravaggio e La notte stellata di Van Gogh.

Firmato sul cartiglio posto sul davanzale in primo piano - Ioannes Bellinus - il quadro raffigura Leonardo Loredan, eletto doge nel 1501 e rimasto in carica fino al 1521. 

Inusualmente e con genio, il doge non è presentato di profilo - come voleva la ritrattistica in voga in quegli anni - ma di fronte, con la testa leggermente rivolta verso destra e lo sguardo fisso su un punto indefinito, verso la sorgente luminosa.

L'abito meraviglioso è in prezioso broccato bianco ed oro, il corno ducale da cerimonia rivestito dello stesso tessuto,  una fitta serie di bottoni dorati, simili a noci, il volto dai lineamenti impassibili e fieri, il dipinto sembra ammantato in una atmosfera surreale, fuori dal tempo, scolpito con ogni minuzia sullo sfondo dell'azzurro sfumato (più denso in alto, più chiaro in basso) come davanti a un maestoso cielo veneziano. 

E' difficile dire perché questo quadro susciti un magnetismo così irresistibile. E' il segreto delle più alte opere d'arte.  Il soggetto conta, ma non conta.  E' la prospettiva atemporale - eterna ? - dell'arte che (ci) consegna un frammento di vita immortale. 

Un ritratto asettico, senza compiacimento, senza empatia, freddo come lo sguardo di un entomologo. Che racconta tutto quel che esiste davanti al nostro occhio (e oltre).

Fabrizio Falconi


12/11/14

La Qualità non riconosciuta di Van Gogh e il misterioso suicidio. Una parabola sul Sacrificio.


Come è noto, in tutta la sua vita, Vincent Van Gogh riuscì a vendere UN solo quadro, questo: Ritratto del dr.Gachet, dipinto nel 1890 e venduto per una cifra modesta: 300 franchi.

Una meditazione profonda sul valore della Qualità nelle cose umane è dato proprio dalla parabola della fortuna artistica di Van Gogh. Cominciata dopo la sua morte, e progressivamente divenuta immensa. 

Fa venire le vertigini pensare che questo stesso quadro è stato venduto all'asta nel 1990 (ad un miliardario giapponese tramite Christie's) per la cifra record di 82,5 MILIONI di dollari

Ulteriore riflessione merita il dato sconcertante che di questo dipinto si siano perse definitivamente le tracce. Fino al 1991 l'opera era appartenuta al Kramarsky Found di New York, che l'aveva lasciato in prestito permanente al Metropolitan Museum of Art; quando i proprietari decisero di vendere l'opera. 

L'allora settantacinquenne Ryoei Saito (l'acquirente miliardario che si aggiudicò l'asta) dichiarò che si sarebbe fatto cremare insieme al quadro, ma appurato che si trattava di una semplice minaccia, dopo la sua morte avvenuta nel si persero comunque le tracce del dipinto. 

Secondo una pista, l'opera era stata venduta nel 1997 al finanziere austriaco Wolfgang Flöttl, il quale dichiarò che per problemi finanziari dichiarò che era stato costretto a vendere il quadro, senza però rivelare il nome dei nuovi acquirenti. 

Così oggi nessuno sa dove si trovi realmente il Ritratto del dr. Gachet. 

D'altronde il mito artistico di Van Gogh è alimentato incessantemente anche dalla sua tragica vicenda umana, piena di misteri. 

V. Van Gogh, Autoritratto, primavera 1887, olio 42 × 33.7 cm., Art Institute of Chicago.

Nonostante l'abbondante letteratura infatti e la mole di struggenti lettere lasciate al fratello Theo, nessuno sa con certezza come morì il pittore. 

Irving Stone nel romanzo Lust for Live, che servì da canovaccio al celebre film di Vincent Minnelli (1956) descrisse il suicidio, mentre Van Gogh era intento a lavorare en plein air, al suo ultimo quadro dipinto, Campo di grano con corvi (mai lascito artistico fu esplicitamente più testamentario).
Irretito ed esasperato dal volo dei corvi e dal caldo, durante il lavoro, Van Gogh lascia un ultimo biglietto e si spara un colpo di pistola (senza morire sul colpo, morendo qualche ora più tardi, tra le braccia proprio del Dottor Gachet), il 27 luglio del 1890.

L'ultima opera di Van Gogh, Campo di grano con corvi (1890)

C'è anche chi - oltrepassando la testimonianza del dr. Gachet che riferiva solo ciò che gli disse lo stesso Van Gogh prima di morire - ha avanzato altre ipotesi.

Nella biografia Van Gogh: The Life, pubblicata nel 2011, gli storici dell'arte Steven Naifeh e Gregory White Smith sostengono che il colpo mortale partì dalla pistola di uno dei due ragazzi che spesso andavano a bere insieme al pittore e si divertivano a infastidirlo. 

Secondo i due biografi, Van Gogh - ormai malato e depresso -  decise di tacere e di non raccontare la verità durante l'agonia, lasciando credere che si fosse trattato di un suicidio. 

I due studiosi avvalorano la loro ipotesi constatando che nelle ultime lettere dell’artista non c’è nessun riferimento possibile al suicidio e anche il biglietto ritrovato nei suoi vestiti (una copia della lettera inviata a Theo il giorno dell'incidente) esprime speranza, non desiderio di morte. 

Pochi giorni prima della fine, poi Van Gogh aveva fatto un grosso ordine di colori.

La teoria di Naifeh e Smith non ha convinto affatto il curatore del Van Gogh Museum di Amsterdam e il mondo accademico; si tratterebbe solo di interpretazioni diverse di fonti già note.

Queste poche note lasciano affiorare alcune domande: perché la Qualità di Van Gogh non fu riconosciuta in vita ? Cosa ne determinò il riconoscimento in seguito, e in modo così eclatante ?  Il destino di Van Gogh era non nei suoi quadri, ma nel compimento di un cammino di sofferenza personale ? O piuttosto non si trattò di sofferenza, ma di Sacrificio (come lo intese nel Novecento Andreij Tarkovskij) ? Sacrificio in nome di una causa più alta che era appunto quella del riconoscimento della sua Qualità irriconosciuta e irriconoscibile dai suoi contemporanei ? 
E' forse per via di queste irrisolte domande che ancora oggi - e sempre più - le opere di Van Gogh, pur così umiliate dalla riproducibilità massiva, dall'uso scriteriato della pubblicità, delle mode, della superficie, riescono a inquietare l'animo degli esseri umani, nel mondo.

Fabrizio Falconi


La tomba di Van Gogh e di suo fratello Theo (morto sei mesi dopo di lui), nel cimitero di Auvers-au-Oise