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14/06/18

1.000.000 di Visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi. Grazie !




Grazie davvero di cuore a tutti i lettori di Questo Blog !

Abbiamo raggiunto insieme il traguardo ragguardevole di 1 milione di visitatori. 

Di tempo ne è passato dal primo post pubblicato nel Blog, dieci anni fa, esattamente il 31 marzo del 2008. 

Il Blog era diverso. In questi anni è cambiato e cresciuto ma ha mantenuto, credo, il suo stile. Quello di proporre sempre argomenti che arricchiscano in conoscenza e consapevolezza, oltre ad un agile aggiornamento su quello che interessa il mondo della cultura e dell'arte e della storia e della attualità della città di Roma.

Ripropongo qui di seguito il post del primo giorno, che proponeva una pagina del Vangelo di Marco: quel Mantello che tutti noi siamo chiamati a gettare via - come fece Bartimeo - quando vogliamo andare incontro alla conoscenza.

grazie di questo bel viaggio insieme, che oggi registra un nuovo inizio.

Fabrizio Falconi






E giunsero a Gèrico. E mentre partiva da Gèrico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!".
Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!".
Allora Gesù si fermò e disse: "Chiamatelo!". E chiamarono il cieco dicendogli: "Coraggio! Alzati, ti chiama!".
Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: "Che vuoi che io ti faccia?". E il cieco a lui: "Rabbunì, che io riabbia la vista!".
E Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato". E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.
(Marco, 10 - 46,52)

22/10/13

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5./)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5)


La malattia incurabile di Tarkovskij ottiene almeno questo effetto. L’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei familiari del regista concedendo finalmente al figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.  Scrive: Se avessi incontrato Andrjusa per la strada non l’avrei riconosciuto. E’ cresciuto molto, ha raggiunto 1 metro e 80 centimetri di altezza e ha solo 15 anni ! Un dolce, buon ragazzo dai grandi denti. Tutto questo ha del miracoloso !

Gli ultimi mesi di vita di Tarkovskij trascorrono a Parigi, tra pause di momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film -  un Amleto, una pellicola su Sant’Antonio,  un progetto sul Vangelo – e ancora fitte note nei Diari, sempre più rivolte a un dialogo ultimo con Dio:  Dobbiamo abbandonare i nostri pregiudizi. Noi non sappiamo vedere. Dio solo vede e ci insegna ad amare il nostro prossimo. L’amore trionfa su tutto. E in ciò Dio si manifesta.  Senz’amore crolla tutto. (16)

L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:

Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. Ma la felicità non dipende da questo: ecco, è il Signore !

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio  sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, sul progettato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio, e di quello che gli appare come il Sacrificio del Cristo, che gli altri, tutti contiene e riassume.


L’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18) 

E ancora:  Ma perché esiste Giuda Iscariota ?  A che è servito il suo bacio ? Perché Giuda ? Evidentemente per spiegare con chi Lui aveva a che fare: cioè con gli uomini.  L’unico personaggio che porta un inimmaginabile peso psicologico. Giuda è il motivo per cui Gesù deve compiere la sua missione. Un esempio concreto per capire fin dove l’uomo può arrivare nella sua caduta.  Qui bisogna scavare più in profondità ! (19) .

(segue -5./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

15.   Op.cit. pag. 653.
16.   Op. cit. pag. 663.
17. Sarà lo stesso presidente francese Francois Mitterrand a definire uno ‘scandalo’ la mancata assegnazione del massimo riconoscimento al film di Tarkovskij.
18.   Op.cit. pag. 682
19.   Op. cit. pag. 686

08/12/09

Ancora sulla Croce e sul Crocefisso - di Enzo Bianchi.


Vorrei invitarvi a leggere con attenzione questo splendido pezzo scritto da Enzo Bianchi su La Stampa del 7 dicembre, in particolar modo gli ultimi due paragrafi.

Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e omunitariamente il diritto alla libertà di culto.

Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.

Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?

La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante.

Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.

In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo... Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione.

Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.

Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri.

Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.


Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

Enzo Bianchi

21/08/09

Il tempo della Vacanza.


L'etimologia della parola 'vacanza' ci riporta al latino vacans, participio passato di vacare, cioè esser sgombro, vacuo, libero, senza occupazioni.

Siccome la vita umana è colma, solitamente, di occupazioni (che noi stesso, spesso, sempre più spesso accumuliamo in una specie di foga forsennata), la vacanza è un tempo quindi eccezionale, di sospensione. Una specie di vuoto.

Ma 'vacanza' e 'vacare' ha la stessa radice etimologica, molto prossima di 'vagare', che deriva a sua volta dal latino vagus, che vuol dire errante, ramingo.

E in vacanza, spesso si fa questo: errare, andare ramenghi.

Che cosa ci dice, in questo nostro tempo, questo 'vagare', questo 'vacare' ??

Questa vacanza, è oggi intesa soprattutto come svago e come di-vertimento. O come rilassamento, riposo. Ma la vacanza, la nostra vacanza, ha, avrebbe anche un senso molto più profondo. Che io mi auguro sia sfruttato da molti in questi giorni ancora torridi di agosto.

La città è svuotata, i rumori sono spariti quasi del tutto, i ritmi sono lenti, rilassati. C'è spazio, oltre che per il riposo e il divertimento, per avvicinarci, sensibilmente a quel nostro 'centro', che molto spesso dimentichiamo, nell'affannosa vita di tutti i giorni. Il centro del centro del nostro essere, che molto spesso mettiamo da parte, ignoriamo, teniamo al guinzaglio.

Ascoltiamolo.

Ascoltiamo questo centro, ascoltiamo cosa ci dice. Ripensiamo all'episodio evangelico di Marta e Maria. Ripensiamo alle parole di Gesù: Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose. Una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore e nessuno gliela porterà via.

La 'vacanza' di Maria è la vacanza operosa. E' la vacanza non solo contemplativa di chi decide di fare silenzio, di fermarsi. E di ascoltare quello che nel centro del proprio essere sta parlando. E parla ogni giorno, se soltanto siamo capaci di ascoltarlo.

18/03/09

Il perdono che non sappiamo dare.


Mentre la fede cattolica sembra ormai interessarsi soltanto alle esternazioni, alle polemiche, alle questioni legate all'etica, alla biologia, alla politica, ecc.. Il Vangelo sempre ci sorprende e - per fortuna - ci riporta al nucleo essenziale della nostra fede, a quel nucleo che è veramente importante, e senza il quale - si direbbe parafrasando San Paolo - assai vano sarebbe il nostro credere.

Uno degli aspetti principali della fede cristiana, la virtù che Cristo ha, in modo veramente rivoluzionario, calato nel mondo, è il perdono.

La liturgia di ieri ci ha riproposto questo semplice, straordinario brano del Vangelo: "In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?". E Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. " La cosa che tutti dovremmo notare, credo, è che la domanda di Pietro non dice: "al mio fratello, se pecca contro di me e poi si pente ?" ma soltanto " se pecca contro di me".

Quindi, questo perdono iperbolico che il Signore ci richiede (70 volte 7, simbolo di pienezza) va - andrebbe - concesso non soltanto a chi pecca contro di me, ma anche a chi pecca contro di me, senza pentirsene.

Beh, se noi riflettiamo sulle nostre vite, su quanto ci è difficile anche solo perdonare una persona che ci ha fatto del male, e che si è pentita e che ci chiede perdono - il nostro orgoglio si oppone, sdegnosamente - figuriamoci quanto può essere difficile valutare e praticare il perdono per colui che ci ha offeso gratuitamente, e nemmeno se ne è pentito, ma anzi magari si vanta anche di quell'offesa.

Ma ogni volta io torno alla domanda iniziale: perchè il Signore ci chiede queste cose che umanamente ci appaiono im-praticabili, quasi utopistiche ? Io credo che ce lo chieda, perchè sa che nel cuore di un uomo questo perdono è possibile. Che l'uomo, nella sua grandezza (che contiene anche tanta bassezza) è capace della cosa più umana del mondo, e cioè di perdonare chi ti ha fatto del male.

Quanto bisogno abbiamo di perdono. Ma ancor di più quanto bisogno abbiamo di perdonare, di imparare a perdonare sul serio. Non basta una vita. Ma ogni giorno è buono (e santo) per provare ad iniziare.

27/10/08

Il Vangelo della Domenica - Il Comandamento più Grande.



Dal Vangelo secondo Matteo
22,34-40

In quel tempo, i farisei, udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: "Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?".

Gli rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti".

Amare il Signore e Amare il prossimo tuo, ci dice Gesù, piuttosto chiaramente, sono due lati della stessa medaglia. E sono le due regole principali che Egli ci indica, per rispettare la Legge, e dunque entrare nel Suo Regno.

Ma io direi persino di più: secondo quanto Gesù dice non solo sono due facce, ma sembra essere proprio la stessa cosa: Gesù usa infatti il termine 'simile'. Simile, cioè 'uguale'.

E' già l'etimologia stessa della parola a guidarci: Simile deriva dal latino similem, cioè "che ha sembianza di quello che si dice esser simile. " Dunque, a me piace pensare proprio questo, e non mi sembra di illudermi, ma anzi di interpretare fedelmente le parole riportate da Marco: amare Dio, amare il Signore è la stessa cosa, ha cioè la stessa sembianza, che amare il tuo prossimo.

Ed è la stessa cosa proprio perchè l'uomo è - contiene - la stessa impronta di Dio. L'uomo è strettamente legato a Dio, il suo creatore. L'uomo non è un qualsiasi accessorio dell'immensa creazione. L'uomo è lo specchio di Dio nella creazione. E' anche - potremmo dire - lo specchio critico, nel quale Dio valuta la sua creazione.
Da ciò discendono conseguenze importanti: amare il prossimo E' amare il Signore. Odiare il prossimo E' odiare il Signore.

Ma Dio - Gesù - ci chiede di amare tutti ??? Proprio tutti ??? Non possiamo risparmiarci almeno qualcosa, lasciare il nostro umano risentimento per qualcuno che proprio non riusciamo a sopportare, non possiamo perdonarci almeno la nostra invidia, il nostro rancore, la nostra piccola vendetta per qualcuno che proprio la merita ???

La risposta di Gesù è 'No'.

Per questo la legge cristiana non è affatto semplice, ed è il contrario del 'volemose bene' nel quale il cristianesimo purtroppo - e ancora oggi - è stato così spesso annacquato. Volere bene al prossimo significa volere bene a Dio, e amare il prossimo con la mente, con il cuore e con tutta l'anima, significa amare il prossimo tuo come ameresti e come ami te stesso (perchè solo noi stessi, a quanto pare, riusciamo ad amare con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente).

Ma questo non basta per essere alla Sequela di Gesù. Amare se stessi non basta. Bisogna uscire da se stessi, dal proprio centro di (auto) riferimento. E solo così, soltanto in questo unico modo, si va anche verso il Signore-creatore.
.

07/10/08

Il Vangelo della Domenica - I vignaioli crudeli.

VANGELO Mt 21,33-43

In quel tempo, Gesù disse ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: "Ascoltate un'altra parabola: C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò.

Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono.Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero.

Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?". Gli rispondono: "Farà morire miseramente quei malvagi edarà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo". E Gesù disse loro: "Non avete mai letto nelle Scritture: ''La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri '' ? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare ".


Ciò che più impressiona di questa Parabola - Gesù come al solito sta parlando a noi, proprio a ciascuno di noi - è la crudeltà efferata di questi vignaioli.

Siamo noi ? Siamo noi così ? Siamo noi quegli uomini che bastonano, che uccidono, che lapidano, che cacciano fuori e che uccidono nuovamente per avere l'eredità ?

Sì siamo noi. E' degli uomini su questa terra che sta parlando, Gesù. E per averne conferma, basta leggere le cronache di questi giorni. Sono proprio loro, gli uomini, che bastonano, lapidano, cacciano fuori, uccidono.

E di fronte a questi vignaioli/uomini così duri, così crudeli, anche la bontà di Gesù, la sua venuta per redimere, sembra quasi essere impotente, senza speranza di successo.

Sembra quasi riemergere, anzi, quel Dio severo dell'Antico Testamento che dà pane al pane, e ricambia occhio per occhio. Gli uomini sono crudeli ? Gli verrà tolto il Regno. Sempre che, invece, la Pietra D'Angolo, che è senza alcun dubbio Gesù, la Pietra scartata, offesa e dimenticata, non sia invece utilizzata come base di costruzione di una nuova casa, di un nuovo modo, di un nuovo ascolto. Nuovo. Cioè diverso da tutto quello che gli uomini sembrano prediligere, nella loro quotidiana attività.

E' avvenuto questo nuovo cambio di direzione, di vita, di mentalità, che Gesù in questa parabola ci presenta come un aut-aut ? Sta avvenendo ? E' avvenuto, avviene in ciascuno di noi, ora ?

29/09/08

Il Vangelo della Domenica - La Vigna.


Vorrei, molto umilmente, provare a far sì - anche qui su Il Mantello di Bartimeo - che il Vangelo della Domenica, che abbiamo ascoltato la Domenica, continui a far 'frutto' nelle nostre teste anche durante la settimana seguente. Così ogni lunedì lascerò qualche pensiero, ispirato dalla Parola, che spero possa essere condiviso e servire.

VANGELO
Mt 21,28-32
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: "Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Dicono: "L'ultimo".
E Gesù disse loro: "In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli".


Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Dicono: "L'ultimo".

Dunque, tutta questa parabola, molto semplice in realtà - e poco misteriosa - sembra voler dire una cosa sola: è più importante il FARE che il DIRE, per un cristiano.

Il Padre, sembra dirci Gesù, non sa che farsene dei nostri 'buoni propositi', del nostro 'dire', del nostro 'promettere'.

Egli vuole le nostre opere. Vuole un fare. Anche se questo fare arriva dopo reticenze e svogliatezze. Anche se è un fare che deriva da un frutto sbagliato. Purchè sia preceduto da un pentimento sincero.

Fare.

Fare sembra anche essere il linguaggio di Dio Padre, nei nostri confronti. Egli ha fatto l'immane opera della Creazione. Ma non si è mostrato più di tanto con le parole. E' apparso, anzi, spesso, agli uomini, alquanto reticente: reticente sulla esistenza del male, per esempio, sulle spiegazioni (causa-effetto) che gli uomini pretendono sempre, proprio come forma mentis.

Ho letto in un libro, recentemente: "Dio ama, non spiega."

Amare è fare. Spiegare è dire. Il Padre sembra privilegiare il primo, e questo vuole e vorrebbe che noi facessimo.

Proviamo a raccogliere questo 'fare' nelle nostre vite. Lasciamoci dietro le vane parole inutili. E proviamo a fare.

19/06/08

Il Vangelo Secondo Matteo - di Pier Paolo Pasolini.


Come è possibile che il miglior film su Gesù Cristo - il più puro, il più radicalmente vicino al Messaggio autentico dei Vangeli - sia stato realizzato da un uomo controverso e apparentemente lontano dalla fede, un peccatore (il termine è usato come provocazione) convinto e conclamato ?

Le ragioni, forse stanno in questo articolo che vi consiglio caldamente di leggere e che ho tratto da http://www.hideout.it/ e che puo' essere letto nella sua completezza all'indirizzo originale:




Pasolini scopre il Vangelo quasi per caso, durante un soggiorno ad Assisi nel quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII. Ne rimane subito profondamente colpito, per due motivi principali: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora di “divinità” è ai limiti della metaforicità, fino a essere idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo.»

C’è poi il Pasolini marxista che da quindi una lettura più politica del Cristo, ma mai dogmatica, sempre personalissima e aperta ai temi universali dell’uomo: «Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, [l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le “sproporzioni” delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile discorso della montagna)],
la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione. Il Vangelo doveva essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo.»

E’ interessante vedere come le scelte registiche del film prendano una direzione inaspettata per lo stesso Pasolini, come se la materia sacra lo avesse trascinato verso una direzione diversa da quella che si era prefissato di seguire: «Io tendevo a forzare la materia nella direzione dell’attualità, mentre lo facevo credevo che questo avesse un grandissimo peso. Per esempio quando facevo i soldati di Erode vestiti da fascisti, i soldati romani come la Celere, quando facevo Giuseppe e Maria profughi come profughi spagnoli sui Pirenei e così via, credevo che queste cose venissero fuori molto di più, cioè credevo di poter attualizzare il Vangelo senza toccare l’intima fedeltà che avevo stabilito fin da principio […]. Tutti questi richiami all’attualità, queste citazioni di Dreyer, questo insieme di fatti espressivi e espressionistici, che credevo saltassero molto fuori, in realtà si sono poi livellati nell’insieme del film, hanno raggiunto una loro specie di fermezza,
di distacco che io non avevo calcolato e che è venuto fuori a mia insaputa e quindi mi sto ancora chiedendo io stesso il perché».

«Il Vangelo è stato per me una cosa così spaventosa che, mentre lo facevo, mi ci aggrappavo e non pensavo più a niente. […] Dopo i primi tre giorni di lavorazione avevo deciso di sbaraccare tutto. […] Poi una sera ho messo lo zoom sulla macchina, il 300, ho cominciato a fare delle esperienze, e ho continuato così, giorno dopo giorno. […] La liberazione e l’invenzione tecnica si erano prodotte al di fuori di ogni programmazione. […]

Il Vangelo mi poneva il seguente problema: non potevo raccontarlo come una narrazione classica perché non sono credente ma ateo. D’altra parte io volevo filmare Il Vangelo secondo Matteo, dunque raccontare la storia del Cristo figlio di Dio, dunque raccontare una storia alla quale non credevo.

Dunque non potevo essere io a raccontarla. E’ così che, senza precisamente volerlo, sono stato portato a rovesciare tutta la mia tecnica cinematografica e che è nato questo magma stilistico che è proprio al “cinema di poesia”. Perché, per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto tuffarmi nell’anima di qualcuno che crede. Qui è il discorso libero indiretto: da una parte la narrazione è vista attraverso i miei occhi, dall’altra attraverso gli occhi del credente. Ed è l’utilizzazione di questo discorso libero indiretto che è causa della contaminazione stilistica, del magma in questione.»

Pasolini però, con grande pudore e rispetto, si ferma nel punto in cui il suo sguardo di ateo e il mezzo cinematografico stesso non possono arrivare: «Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, nei rapporti tra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzato dal romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso che è il mistero del mondo. Quello non è demistificabile».


Per chi vuole rivedere una delle scene forse più belle e intense del film, digiti qui sotto:



13/06/08

Pavel A. Florenskij


Questo scriveva Pavel A. Florenskij (1882-1937), una delle più grandi anime che abbiano calcato la Terra negli ultimi cento anni:

Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio, è un'unica vita spirituale esaminata sotto vari punti di vista.

La verità manifestata è amore. L'amore realizzato è bellezza. Il mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio.

Se i rapporti stretti ben dispongono alle emozioni concordi, il loro terreno più propizio è l'amicizia. La potenza e la difficoltà dell'amicizia non si esprimono in un pirotecnico attimo d'eroismo, ma nella placida fiammella della pazienza di tutta una vita.

La legge dell'identità è un monarca assoluto, ma i suoi sudditi non protestano contro la sua autocrazia solo perché sono spettri senza sangue, privi di esistenza reale, non sono persone ma solo ombre razionalistiche di persone. Questo è lo sheol, il regno della morte.

Non è possibile il minimo dubbio riguardo a quanto è detto giustamente della vita eterna nell'Apocalisse di Giovanni: "Non vi sarà più notte; non hanno più bisogno né della luce della lampada, né di quella del sole, perché il Signore Iddio splenderà su di loro" (22,5).

Questo non si può intendere se non della luce vera sensibile con la quale saranno illuminati gli occhi dei beati.

Considera il vetro, un corpo tanto compatto che nemmeno i profumi che da per tutto dilagano possono attraversarlo e, anzi, ne restano prigionieri; con quanta facilità la luce l'attraversa! Quindi tanto più la luce divina deve penetrare tutti corpi.

Soltanto il Signore Gesù Cristo è l'ideale di ciascun Uomo modello, idea di ogni persona con tutto il suo contenuto vivo.

Esistono due mondi e questo nostro mondo si cruccia nelle contraddizioni se non vive delle energie dell'altro mondo.

L'essenza stessa della percezione geniale del mondo sta nella capacità di penetrare nel profondo delle cose, mentre l'essenza della percezione illusoria sta nel nascondere a se stessi la realtà.

Il pensiero è un dono di Dio ed esige che si abbia cura di sé Essere precisi e chiari nei propri pensieri è il pegno della libertà spirituale.

La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene e ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo.

Vita di Pavel Florenskij:
http://it.wikipedia.org/wiki/Pavel_Aleksandrovi%C4%8D_Florenskij

Foto in testa: Mikahil Nestorov: "Filofofi: Pavel Florenskij e Sergei Bulgakov a passeggio", 1917 - Olio su tela, Tretyakov Gallery, Mosca, Russia.

09/06/08

Paraplegico: la Curia non consente le nozze.


La notizia è piuttosto semplice, nella sua sconsolante attualità:

Dopo un grave incidente automobilistico, un ragazzo romano è diventato paraplegico e per questa ragione anche impotente. Questa mattina il ragazzo ha sposato la sua fidanzata con rito civile in un'ospedale romano anche se aveva chiesto il rito religioso.

Il Vescovo di Viterbo, infatti, ha negato il consenso alle nozze poichè il giovane, dopo il grave incidente, non avrebbe più potuto avere figli.

Quando la notizia è diventata preda dei media - che non possono lasciarsi sfuggire una 'chicca' simile, la Curia di Viterbo ha 'prontamente' reso pubblica una nota nella quale si sottolinea che "I termini della questione non sono quelli raccontati: a chi di dovere sono state offerte tutte le motivazioni di una realtà che non dipende nè da discrezionalità nè dall'intenzionalità dei soggetti".

Insomma, un divieto che arriverebbe dal diritto canonico e non da una scelta soggettiva, e che quindi consente al Vescovo una ponziopilatesca uscita di scena e di responsabilità.

Lo stesso vescovo, Lorenzo Chiarinelli, si è detto dispiaciuto "di come la vicenda è stata trattata e strumentalizzata senza motivo".

Ora io dico: sono esattamente queste, mi sembra, le cose che allontanano molta gente dalla fede, confondendo la 'fede' con la 'regola' , ovvero in questo caso con il "diritto canonico", che con tutto il rispetto NON è la fede.


CHI è che decide che un matrimonio in cui il marito ha una impotentia copulandi causata da un incidente, NON possa essere benedetto dal Signore ?

CHI è che decide che un matrimonio nel quale non possa esservi la consumazione dell'atto copulativo (ma non tutte le altre manifestazioni, anche di vita sessuale e affettiva che possono interessare due esseri viventi che si amano) NON possa essere benedetto dal Signore ?

CHI è che decide che una unione tra due persone debba essere considerata Figlia di un Dio minore ?

CHI è che se la sente di dire che il Signore Gesù Cristo, se tornasse su questa Terra escluderebbe l'unione di queste due persone dalla possibilità di ricevere la Sua benedizione ?

Evidentemente c'è qualcuno che - basandosi su regole di Diritto Canonico (sono dettate da Dio ??) - se la sente di rispondere positivamente a tutte queste domande e dare una risposta certa, definitiva.

Eppure proprio ieri il Vangelo della Domenica, diceva - erano le parole di Gesù, il Cristo:

«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Misericordia, e non sacrificio....

Ma oggi, dov'è Misericordia ?

09/04/08

La Sua predilezione per i Peccatori.


In tempi come questi, dove sembra che vi sia una caccia grossa a trovare il moscerino nell'occhio altrui, e tramutarlo in trave. E, anche in ambito di gerarchie e di dottrine, in ambito cattolico, vi sia sempre l'esigenza di dare addosso a 'chi sbaglia', a 'chi pretende di affermare verità', a 'chi va contro i dogmi', a chi osa mettersi di traverso - come se non ci si accorgesse per niente di cosa accade nel mondo - è forse utile per tutti riflettere ancora e sempre sull'atteggiamento di Gesù Cristo nei confronti dei peccatori.


Che si manifestò con ancora maggiore nettezza nelle sue ultime settimane tra noi, su questa terra.

Riprendo quello che scrive il dimenticato (purtroppo) Francois Mauriac in un libro per me memorabile: Vita di Gesù, scritto nel 1937.

Leggiamo:

Ma ora che è prossimo a lasciarli, l'Amore vivente li rassicura. Il suo desiderio è che i suoi fedeli lo temino con fiducia illimitata, che riposino su di lui con un cuore appassionato, ma tremando. "E io aspiro tremando". E' questo che il Figlio dell'Uomo ci chiede: diffidenza delle nostre forze, abbandono a occhi chiusi a una infinita misericordia.

Sappiano dunque ciò che già aveva loro lasciato intravedere: che il peccatore non è soltanto amato, ma sì anche
preferito.

E' per lui, ch'era perduto, che il Verbo si è fatto carne. Tutti i suoi ragionamenti, durante le ultime settimane di vita, tradiscono questa predilizione per i cuori semplici, capaci di eccessi.

Lui così duro coi dottori e coi Farisei, si addolcisce con i piccoli. Non è per umiltà nè per spirito di sacrificio, che rimane in mezzo a loro. E' perchè li preferisce, o meglio odia il mondo e si dà a quelli che del mondo non sono.

Erode che egli chiama "quella volpe" è il solo essere di cui parli con sprezzo. Per lui è un gioco battere i sapienti sul loro stesso terreno: ma di ridurre al silenzio dei dialettici imbecilli, non gliene importa nulla. La sua vera gioia è di rivelarsi a dei poveri uomini schiacciati da colpe abituali, e d'aprire sotto i loro passi un abisso di misericordia e di perdono.

E perciò si paragona al padrone delle pecore che ne abbandona novantanove per correre dietro alla centesima smarrita; e la riporta nelle sue braccia.

Ascoltandolo, ognuno doveva pensare: "E' per me che parla..."

Perchè chi di loro non aveva pesato con tutto il suo peso su quelle sacre spalle ? Sono stati raccolti, custoditi, e sporchi di fango, stretti a quel petto.

"Vi è più allegrezza in cielo per un solo peccatore pentito, che per novantanove giusti... "

Bisognerebbe pensarci: quando siamo convinti, con le nostre "certezze" cattoliche, quando siamo sicuri di essere dalla parte del giusto, e di saper - e dover - condannare chi lo "merita".

La nostra giustizia non è la sua giustizia.

06/04/08

Martin Luther King - Voler bene all'Umanità.




E' così difficile voler bene all'Umanità.
Perchè è così difficile voler bene alle persone che abbiamo intorno, figuriamoci all'Umanità. Eppure, quella promessa smisurata - vita eterna - di Gesù è direttamente proporzionata ad una richiesta smisurata - amare gli altri, amare tutti, amare anche i nemici.

Ma come si fa ?

Martin Luther King (1929 - 1968) una volta, intervistato da Ruggero Orlando, disse: "quando morirò mi piacerebbe che fosse scritto sul mio epitaffio: un uomo che ha amato l'Umanità."
Non v'è dubbio che nella vita di King vi sia un profilo di santità molto forte, che lo portò a realizzare veramente quel che ha sostenuto in quell'intervista.

Ma come si fa ad amare tutti, ad amare l'Umanità intera ?? Qualche volta ci riusciamo, quando siamo ben disposti, quando tutto appare girare al meglio, e siamo felici per qualcosa, in quel momento ci sentiamo di poter abbracciare il mondo intero.
Ma il più delle volte è un sentimento effimero, che mai o quasi mai si traduce in atti concreti.

Ci penso e ci ripenso in questi giorni in cui vedo i muri delle mie città tappezzati di facce che mi ispirano sentimenti opposti all'amore.

Non amo questa umanità, no non la amo proprio. Non amo queste persone che mi chiedono fiducia per poter avere potere, riconoscibilità, successo, vanità, denaro.
Non amo loro, non amo le loro facce.
Eppure, Gesù ci chiederebbe questo. Amare tutti, amare gli estranei.

Nel Vangelo di questa domenica apprendiamo che le prime persone con cui Gesù Risorto spezza il pane non sono i suoi Discepoli - quelli che lo hanno amato sempre - ma due estranei incontrati in cammino. Due povere anime che non sanno niente di Lui, se no qualche piccola cosa per sentito dire.
Dovremmo spezzare il pane con gli estranei. E poi anche con i nemici.

Chiediamo alla grande anima di Martin Luther King di insegnarci come si fa, comprendendo pienamente la natura di cui siamo pienamente parte :

La luce è venuta nel mondo. Una voce che grida attraverso la prospettiva del tempo invita gli uomini a camminare nella luce. La vita terrestre dell'uomo diventerà una tragica elegia cosmica, se egli non ascol­terà quest'invito. «Questa è la condanna” - dice Giovanni - « che la luce è venuta nel mondo, e gli uomini hanno amato le tenebre piú della luce ».
Gesú aveva ragione riguardo agli uomini che lo cro­cifissero: essi non sapevano quello che facevano: erano afflitti da una terribile cecità.
Ogni volta che guardo la croce, io mi ricordo della grandezza di Dio e della potenza redentrice di Gesú Cristo; mi ricordo della bellezza dell'amore di immola­zione e della maestà dell'incrollabile devozione alla verità. E questo mi fa dire con John Bowring: « Della croce di Cristo io mi glorio ( torreggiante sulle rovine del tempo; i Tutta la luce della storia sacra i Si raccoglie intorno alla sua vetta sublime ».
Sarebbe meraviglioso se io, guardando la croce, pro­vassi solo una cosí sublime reazione; ma, in un modo o in un altro, non posso mai distogliere gli occhi dalla croce senza rendermi conto anche che essa simboleggia una strana mescolanza di grandezza e di meschinità, di bene e di male. Contemplando quella croce innalzata, io mi ricordo non solo dell'illimitato potere di Dio, ma anche della vile debolezza dell'uomo; penso non solo allo splendore del divino, ma anche al tanfo dell'umano; mi ricordo non solo di Cristo nel suo momento piú alto, ma dell'uomo in ciò che ha di peggio.
Noi dobbiamo vedere la croce come il meraviglioso simbolo dell'amore che vince l'odio e della luce che vince le tenebre. Ma, in mezzo a quest'ardente affer­mazione, non dimentichiamo mai che il nostro Signore e Maestro fu inchiodato a quella croce a causa dell'u­mana cecità. Quelli che lo crocifissero non sapevano quello che facevano.