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06/04/21

Wim Wenders: "Neanche la nostalgia è più quella di una volta"

 


Wim Wenders - "Neanche la nostalgia è più quella di una volta" 

di Matteo Persivale

fonte: Corriere della Sera, Venerdì 4 dicembre 2015


"Oggi, dopo la rivoluzione della tv, della pubblicità e infine del digitale," ammette Wenders, "puoi ancora avere fiducia nelle immagini. Ma le immagini hanno bisogno di un po' d'aiuto... Helmut Newton - una volta fece il mio ritratto: che uomo interessante, che uomo ossessionato! - diceva già vent'anni fa che ci sono troppe immagini intorno a noi. Aveva intravisto i primi segnali di quello che ci circonda oggi. Le immagini che si dissolvono nei loro stessi atomi."  

"Da bambino credevo che del cinema ci si potesse fidare: i western, cowboy e indiani. Da ragazzo poi, mi sembrava che nel cinema ci fossero, in modo assoluto, verità e bellezza: i film di Bergman, di Fellini... Negli anni '70 però le immagini smisero di raccontarci il 100% di una storia. Pensavo che avrei fatto l'artista. Poi capii che le immagini, le parole, la musica - quello strano triumvirato - potevano ricostruire la verità e la bellezza che andavo cercando. Sono diventato regista per capire come mai il nostro sguardo non ci racconta tutto quello che vorremmo sapere."

Wenders non si rassegna e da giovane settantenne ha "ricominciato da zero con il 3-D, la tecnologia con la quale ha raccontato in "Pina" l'arte della coreografa Pina Bausch."

Liquida Quentin Tarantino così: "Dice che smetterà di fare film quando smetteranno di produrre pellicole perché disprezza il digitale, ma è già una discussione obsoleta. A non essere obsoleta è la questione del 3-D: quando serve a rappresentare la realtà e quando serve solo per gli effetti speciali? No, neanche la nostalgia è più quella di una volta.


25/10/15

Oltre la Mente - L'attesa è il tempo della gioia.




L'attesa non è soltanto il tempo del tormento e dell'ansia. 

L'attesa, la vigilia, l'avvento (in termini religiosi/cristiani) è (anche) il tempo della gioia.

In psicologia, solo colui che aspetta (qualcosa o qualcuno) è realmente vivo. Quando non si aspetta più nulla o nessuno, si è semplicemente rassegnati o cinici (e in termini psichici formalmente morti).  

Anche chi pratica le discipline orientali (e occidentali) del distacco dalle cose materiali e dagli attaccamenti terrestri, non rinuncia mai ad attendere. Anche soltanto ad attendere ciò che arriva - e ad accettarlo incondizionatamente - dalla vita.

Attendibile è la verità che ci scuote, che dirime il dubbio. 

L'attesa è il tempo in cui la spada resta nell'elsa.  Il tempo nel quale il chicco di grano matura sotto le coltri di neve, in attesa della prossima primavere.  L'attesa è il tempo nel quale un feto si forma completamente nel ventre della madre. La madre che aspetta un figlio. 

L'attesa è carica di promesse.  E in fondo la nostra mente non fa che - continuamente - predisporsi all'attesa.  La nostra giornata è questo: disponiamo di un ordine mentale che ci fa aspettare la prossima cosa, il prossimo impegno, il prossimo svago, quella cosa che prima o poi arriverà e ci farà sentire un po' meglio. 

Quando non si desidera e non si aspetta più nulla, si dice clinicamente che si è inclini alla depressione. 

E non importa, generalmente, che le promesse dell'attesa si concretizzino o meno.  La fiducia o la speranza è più importante.  Soltanto una fede in quel che accadrà determina lo scenario futuro abitabile per la nostra mente. 

Contro questa determinazione vivente - la volontà naturale che si impone e trova sempre i mezzi per avverarsi - si oppone il realismo pessimistico di Schopenhauer e di diversi altri: la speranza è una vana illusione.  Bisogna vivere - dice S. - come se si fosse dentro una colonia penale. E gli altri non sono altro che i nostri compagni di prigionia. 

Ma perfino Schopenhauer concorderebbe sul fatto che anche un coscritto in un campo di prigionia attende qualcosa:  la fine della pena o una fuga, una evasione dalla colonia penale. 

In fondo ciò che possiamo fare di meglio in questa vita - che è essa stessa una attesa - è abitare lo stato/gli stati di attesa e viverli con la maggiore pienezza possibile. 

Pre-gustando, immaginando, interloquendo con i nostri sogni e aspettative, confrontandoli con il principio di realtà. Non rinunciando mai ad assaporare quel che di meglio la vita ha da offrirci e quello che di meglio noi abbiamo da offrire a lei. Il compimento (felice e consapevole) di una attesa.

Fabrizio Falconi (C) -2014 riproduzione riservata.
foto in testa dell'autore: particolare dell'Ares Ludovisi a Palazzo Altemps


10/07/15

Cosa è vero e cosa è la verità ? Una riflessione.





Guardiamo con attenzione questa foto. 

Dice parecchio sulle nostre percezioni. Ma anche qualcosa di più. 

Un cilindro è posto al centro di una stanza.  Due fasci di luce lo illuminano.  Una delle due luci (chiamiamola verticale) proietta una ombra circolare. L'altra luce (che chiamiamo orizzontale) proietta una ombra quadrata

Entrambe le figure - costituite dall'ombra - sono vere. Non c'è trucco. Sono reali.  Ma sorprendentemente contraddittorie.  L'una, ci dice dell'oggetto che ha qualcosa a che vedere con la figura del cerchio.  E se vedessimo soltanto questa potremmo concludere che ci troviamo veramente di fronte ad una sfera su cui è proiettata una fonte di luce.  Ugualmente, se vedessimo e potessimo dedurre soltanto dal raggio di luce verticale, non c'è dubbio che diremmo che un cubo è sospeso al centro della stanza. 

La cosa veramente interessante è che solo un punto di vista altro, esteriore, diagonale, non diretto, ci obbliga a scoprire la verità, e cioè che l'oggetto sospeso non è né un cubo, né una sfera, ma un cilindro, cioè un solido geometrico più complesso. 

Quante volte il nostro vero dipende dal fascio di luce che illumina la realtà ? Quante volte saremmo pronti a scommettere sul vero - ciò che relativamente è vero per noi, e che saremmo pronti a giurare come verità ?

L'immagine porta a due conclusioni:
- La verità esiste e non è necessariamente ciò che crediamo come vero.
- La verità dunque è qualcosa di sempre più complesso, che necessità di una iper-comprensione e di una valutazione di opposti. Soltanto nella valutazione (e nella integrazione degli opposti) possiamo tradurre la verità. 

Quando diciamo qualcosa di vero, diciamo spesso solo una parte della verità, e qualche volta nemmeno la più importante.  La verità sfugge al nostro vero.  E chiede di abbracciare, di integrare, di rovesciare, di valutare, di avanzare dubbi e sospetti: qualcosa che è fatica e vuole acume.  E solo a questo prezzo svela i suoi segreti. 


Fabrizio Falconi

31/01/15

Simone Weil e la verità.


Non bisognerebbe mai stancarsi di rileggere quel meraviglioso libro che è Lettere a un religioso, di Simone Weil.

In questo libro, Simone Weil (1908-1943) fornisce alcune illuminazioni che restano a lungo nella mente e nel cuore. 

A un certo punto, nelle sue opere, la Weil insiste quasi con accanimento, sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità (e la veridicità) non siano subordinati all'adesione religiosa, ma siano essi stessi il principio normativo. Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore. Prosegue Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano (III, 401). 

 Pier Cesare Bori, analizzando questo passo della Weil fa notare come viene in mente un'opposizione - una delle tante, ma in questo caso non banale - tra Dostoevskij e Tolstoj. 

Dostoevskij afferma: Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e cioè starei con Cristo anche se avesse torto

Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo ). 

Un testo che riporta a Platone, al famoso sono amico di Socrate, ma più ancora della verità che nella sua forma originaria si trova in Fedro 91B-C, Socrate dice: …io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti dovrete opporvi con ogni vostro argomento

Nella sua Professione di Fede Simone Weil scriveva: V'è una realtà situata fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell'uomo questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova alcun oggetto in questo mondo. 


03/11/14

Lenny (Bob Fosse) - il prezzo della verità.





La grandezza di un film come Lenny (Bob Fosse, 1974) è quella di mostrarci il prezzo amaro, personale, cristico che si paga per testimoniare la verità. 

Lenny Bruce nella realtà (e nella trasposizione di Fosse) era uno sgradevole, un ciarlatano, insopportabile narcisista e rompiballe, ma sentiva su di sé l'ossessione di combattere l'ipocrisia borghese, specie sulle cose riguardanti il sesso e i sentimenti 'amorosi'. 

Raccontare le cose come stanno, spargere napalm su quello che la gente ama sentirsi dire e raccontarsi da sé sull'amore, per mantenersi in vita, fu quello che lo trasformò in un buffo e tragico Don Chisciotte, votato all'autodistruzione e all'annientamento da parte di un sistema che può accettare tutto (corruzione, bombe, dissidenza) ma non la lucida dichiarazione che tra le persone c'è in atto un continuo fraintendimento anche (e soprattutto) quando si parla d'anima, d'amore, ecc.. e che tutto è ahimé estremamente più prosaico.

Lenny faceva questo. Come un pazzo kamikaze, scagliandosi contro ogni forma di discriminazione basata sull'ipocrisia.



In definitiva Lenny combatteva - a suo modo, determinato e lucido ma allo stesso tempo sconsiderato e autolesionista - per la verità dei rapporti umani. Una verità  spesso alquanto amara.

Ma la capacità di autoinganno è il primo requisito che si dovrebbe considerare (e combattere) se si desidera essere pienamente umani, umanamente maturi.

Scriveva Luigi Pirandello:

Che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo intesi affatto.

Credere di guardare nel cuore dell'altro - specie quando affastelliamo i sensi di un malinteso amore - è una illusione.  Si può soltanto essere se stessi, interamente. Essere con il proprio cuore, anche rischiando di restare soli o di darlo in pasto al primo venuto, per una necessità non autentica. Dunque, essere. Lenny lo era.


Fabrizio Falconi 


18/02/12

Rémi Brague - "Amo dunque sono"



Qualche giorno fa il supplemento del Corriere della Sera, La Lettura, ha dedicato spazio ad una ampia intervista realizzata al filosofo Rémi Brague, intitolata "Amo dunque sono."

Scrittore, specialista di filosofia medievale, araba ed ebraica, Rémi Brague insegna Filosofia greca, romana ed araba all'Università Paris I Panthéon-Sorbonne dove dirige il centro di ricerca sulla tradizione nel pensiero classico. Ma Brague, come scrive Maria Antonietta Calabrò che ha realizzato l'intervista, è anche uno studioso che "ha sviluppato una riflessione sull’uomo e sulla sua autoconsapevolezza che sembra ormai essere giunta a un punto drammatico di non ritorno e che chiede, quindi, un nuovo inizio, a cominciare dal Vecchio Continente”

Quando si parla di 'radici cristiane', o di qualunque tipo di radici, Brague, storce il naso:  "Le radici sono una immagine strana.. Perché considerarci come una pianta ? In francese 'piantarsi' vuol dire sbagliarsi, fare un errore... Se si vogliono a ogni costo delle radici Un riferimento a Platone, che scrisse “noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, sfugge a ogni possesso”.

Un nuovo inizio è insomma, un uomo piantato al contrario che in qualche misura, e per approssimazione, possa poter dire quello che solo Dio dice compiutamente di sé: Amo dunque sono.

Brague nella intervista fornisce anche una interpretazione molto interessante del relativismo, fornendo un'analisi originale:
“ciò che genera il relativismo non è l’equivalenza dei valori, ma l’idea stessa di valore; ciò che è bene (la libertà, la giustizia…) è bene perchè sono io che gli dò valore, perchè come si dice, io lo “stimo”. Allora il gesto che dà valore è più forte che il valore in se stesso. Questo valore, allora, posso sempre ritirarlo. Quando un bene viene chiamato “valore”, lo si devalorizza. …… 

Da dove ricominciare ? Bisognerebbe farla finita con i valori, e riscoprire i beni: quelli materiali, molto concreti, dietro i loro simboli finanziari, le virtù morali dietro le tendenze alla moda…

Per essere chicchessia,  ragionevole oppure pazzo bisogna prima di tutto Esistere. Cio’ che è nuovo al giorno d’oggi è che l’esistenza stessa dell’uomo dipende sempre più dalla sua libera decisione. Noi abbiamo la possibilità tecnica di distruggerci, rapidamente (armi nucleari) o lentamente (inquinamento). E possiamo distruggere la specie umana, pacificamente, senza rumore, senza nemmeno rendercene conto, semplicemente cessando di riprodurci. Possiamo dire che per continuare ad esistere l’umanità ha bisogno di buone ragioni."

E' molto interessante il passo poi nel quale alla domanda della intervistatrice: "Può essere amata la verità ?" Brague risponde:

"Noi non possiamo amare che ciò che è bello. Se la verità è brutta, noi possiamo tutt’al più accettarla, a motivo di quella 'probità' (Redlichkeit) intellettuale che Nietzsche diceva essere “la nostra ultima virtù”. E' una forma di coraggio , virtù molto rispettabile. Soltanto che essa è incapace di far vivere, di suscitare la vita.

...Il bello ci strappa a noi stessi: come si dice, ci rapisce. Oppure perché per la modernità si tratta di massimizzare il sentimento che il soggetto ha di se stesso aumentando le sensazioni. “Sensazione” in greco: àisthesis."

Forse bisognerebbe cominciare con il riscoprire il bello.  Far dialogare gli uomini sulla base della ragione comune. Tutte le persone intelligenti, credenti o non, hanno in comune l’essere in bilico tra quello che sono e quello che dovrebbero essere. I fanatici, religiosi o scientifici, sono sicuri di loro stessi. Ma un dubbio che si compiacesse di se stesso senza cercare la verità sarebbe a sua volta fortemente un dubbio…"

La conclusione è allora: Amo dunque sono ?  

"L’amore resta ciò che si muove. Ma non si ama perchè ci motiva o aumenta il nostro giro di affari. Allora non è più Amore…

Chi può dire di Amare? Amare per noi è sempre rendersi conto che non si ama abbastanza o male, o più se stessi che l’altro.

E chi può vantarsi di essere? Solo Dio può dire “Io sono colui che sono”. E solo di Dio si può dire che è Amore. "

01/01/12

Il relativismo inevitabile ? Risposta a Dario Antiseri.


Ogni tanto c’è qualcuno che si sveglia e pontifica per convincerci tutti che il relativismo è l'unica cosa sensata che ci resta, proprio perché inevitabile. E sarebbe prova di buon senso e ragionevolezza convenire che nessuna verità - specie in campo etico - è affermabile, e/o credibile.

Ora è la volta di Dario Antiseri, che il 30 dicembre sulle pagine del Corriere della Sera, di spalla all'articolo di Gillo Dorfles sul 'nuovo illuminismo', bacchetta severamente: "il relativismo è inevitabile" (riporto l'articolo integralmente a fine di questo post). 

Ogni opinione è rispettabile, se ben argomentata, e Antiseri è ormai con una vasta schiera di pensiero, in buona e numerosa compagnia. 

Il problema però è che i suoi argomenti risultano molto discutibili.


L'uso di Pascal, innanzitutto, per sostenere l'inevitabilità del relativismo, mi appare davvero singolare.  E' ben strano riportare il celebre passo dei Pensieri sulla singolare giustizia che ha come confine un fiume, dimenticando di sottolineare che Blaise Pascal non è ovviamente solo il filosofo dell'uomo in bilico eterno tra infinito e nulla, ma è quel filosofo capace di rovesciare la condizione di totale incertezza umana (dovuta poi perlopiù secondo il pensatore di Clermont-Ferrand proprio alla 'mancanza umana', alla incompletezza e alla cecità propria della condizione terrestre, spiegabile in termini mitico-teologici con il peccato originale) con l'affidamento alla fede, e non ad una fede qualunque, ma alla fede cristiana, riconosciuta come vera.

Sappiamo di non sognare; per quanto siamo impotenti a darne le prove con la ragione - scrive Pascal  nel Pensiero 282 - questa impotenza ci porta a concludere per la debolezza della nostra ragione, ma non per l'incertezza di tutte le nostre conoscenze [...]. Infatti la conoscenza dei principi primi [...] è più salda di qualunque altra che ci viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del cuore e dell'istinto la ragione deve appoggiarsi, e su di esse fondare tutto il suo ragionamento. [...] Questa impotenza non deve dunque servire che ad altro che ad umiliare la ragione -la quale vorrebbe giudicare di tutto-, ma non già a combatter la nostra certezza [...].

Antiseri, poi, per contestare l'esistenza - e la possibilità di discernimento - di un qualsiasi fundamentum inconcussum rationale, cita la famosa massima: la scienza sa, l'etica valuta.  Anche su questo ci sarebbe così tanto da discutere, ed è un po' curioso che Antiseri lo ponga come assioma.

Per esempio: cosa sa, esattamente, la scienza ??

Ogni giorno le acquisizioni in campo scientifico - l'ultima quella sui neutrini super veloci - ci dimostrano che la scienza sa soltanto quello che verrà smentito domani. E' stato così fin dalla notte dei tempi e sarà sempre così.   Non esiste niente più veloce della luce. E' vero finché non viene dimostrato il contrario. Come sta avvenendo ora.

A parte le conoscenze puramente scientifiche provvisorie, poi, la scienza non sa e non può dire nulla, soprattutto, sulle cosiddette questioni ultime.  Chi siamo, dove siamo, perché siamo qui, che succede dopo la morte.   Come ha scritto recentemente George Steiner, in 2000 anni di progresso scientifico, le nostre conoscenze in questi campi non hanno fatto un solo passo in avanti.  

Ma la cosa davvero più singolare dell'articolo di Antiseri è la chiosa finale, nella quale, rivolgendosi ai cattolici antirelativisti, egli scrive: "vi pare facile replicare a Karl Heim quando scrive che i cristiani contemporanei dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo ?"

Davvero ciò che chiede Heim e che auspica Antiseri è una specie di ossimoro, di contraddizione in termini. Finché si parla in termini di conoscenza scientifica, o pensiero razionale,  ogni punto di vista è contestabile.  Ed è giusto che lo sia.

Ma come è perfino troppo ovvio per chi si muove in un ambito di fede - cioè affidamento - che pure per questo non vuole e non pretende di escludere la ragione (ma si muove nelle possibilità che la ragione offre),  un cristiano (non necessariamente un cattolico) non può in alcun modo offrire - e non offrirà mai - il sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo.

Per la semplice ragione che i cristiani credono non in una serie di dogmi, o princìpi comuni, ma in una persona.  Cioè nel Cristo.  Colui che - secondo il racconto dei Vangeli - affermò senza possibilità di fraintendimenti:   Io sono la verità, la via, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv.14.6).

Per un cristiano dunque non soltanto il relativismo non può esistere, per quanto riguarda l'uomo e il mondo. Ma esiste, all'opposto la Verità.   E la Verità - per un cristiano - è una soltanto, quella che si incarna nella persona di quell'uomo, che è Dio.

Fabrizio Falconi

15/06/09

Coscienza e verità - un articolo di Lucetta Scaraffia.



Nell'Osservatore Romano di ieri, domenica 14 giugno 2009, è comparso in prima pagina questo bell'articolo di Lucetta Scaraffia, del quale consiglio caldamente la lettura a tutti, perchè contiene, in pillole, un'analisi del pensiero dell'attuale Pontefice; e sul quale come sempre, siamo pronti a discutere insieme.


Coscienza e verità di Lucetta Scaraffia

Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI.

Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici.

Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50).

Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana.

Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno.

Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà".

Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni.
La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale".
Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso".

Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare".

In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica.

In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio.

Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio".

Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà.

Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti".

Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio".

Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature".

La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce.

Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.

Fonte: Osservatore Romano

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