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05/11/19

"E' tempo di un'insurrezione delle coscienze" - Una intervista a Enzo Bianchi


"Sopra una quercia c’ era un vecchio gufo. Più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva". Scolpita sulla pietra, la frase accoglie chi arriva a Bose, la comunità di monaci e monache di chiese cristiane diverse in provincia di Biella diventata un centro di spiritualità di livello internazionale. «Parole di saggezza popolare che ho scoperto in Puglia -in una casa abbandonata in mezzo alla campagna - e ho fatto copiare: è nel silenzio che la parola diviene autorevole e intelligente, sennò è chiacchiera» spiega Enzo Bianchi, che ha fondato il monastero nel 1965. Però ai nostri tempi si addice di più una presa di posizione. «È l’ ora di un ’insurrezione delle coscienze. Dobbiamo assumerci responsabilità, impegnarci in una concreta resistenza alla cattiveria, al disprezzo, altrimenti la barbarie andrà al potere. La storia ci insegna che la violenza verbale può diventare violenza fisica» spiega lui, che aggiunge: «Qui mi chiamano Enzo, in giro c’ è chi mi chiama fratel Enzo o padre Enzo... Dipende da cosa sentono in me». E certo non si sottrae, come dimostrano i suoi impegni pubblici di settembre , dove parlerà di umanità, di luce e tenebre... 

Già, che significa “restare umani” oggi? 
Significa coltivare la fraternità, la mitezza, l’accettazione della diversità, la cura e l’aiuto, il perdono e la misericordia. Ogni persona - di qualunque sesso, etnia, religione - è davvero mio fratello o mia sorella. Abbiamo la stessa dignità e gli stessi diritti, dobbiamo esser rispettati nella rispettiva unicità. All’interno della visione cristiana, l’uomo per eccellenza è proprio Gesù: la sua figura è lo specifico della nostra religione rispetto alle altre. “Dio ” è una parola assolutamente insufficiente, si presta a connotazioni molto differenti. 

Da cosa ha origine questo rischio di barbarie? 
La crisi economica ha portato a un ’invidia, a una guerra fra poveri, che ha fatto aumentare la diffidenza. Poi la paura è stata fomentata anche per ragioni politiche, utilitaristiche e ha incattivito tanta gente che fino a qualche anno fa si sarebbe vergognata di certe espressioni, di certi atteggiamenti. 

Lei invoca spesso la “sapienza del cuore”. In epoche storiche tanto complesse, non sarà assolutamente insufficiente? 
Il cuore deve sempre essere accompagnato dalla ragione, che ci dà la possibilità di discernere, pesare il bene e il male e deve quindi avere il primato: cosa sarebbe la religione senza l’uso della ragione? Solo emozione che potrebbe infiammarsi fino all’intolleranza, al fanatismo . 

Come si spiega che tanti cattolici siano attratti da politici razzisti o ultra nazionalisti? 
Con la schizofrenia tra religiosità e Vangelo, assai più attestata di quanto sipossa immaginare. Una volta c’ erano da una parte gli atei e da una parte i religiosi. Oggi fra i religiosi ci sono quelli che seguono il Vangelo e quelli che chiamo “cristiani del campanile”. Il Vangelo divide, non unisce affatto. I peccati commessi per debolezza vengono perdonati (bisogna accoglierli senza disprezzare se stes-si o essere coperti di imbarazzo), ma non quelli per malvagità. 

Magari si sarebbe più convincenti suggerendo qualche vantaggio egoistico del “restare umani”... 
Una certa gioia, serenità di fondo. Da anziano (ormai ho 76 anni), guardando al mio passato, capisco che ciò che conta è l’aver amato e l’ essere stato amato. Tutto il resto sfiorisce. Ecco, il vero senso della vita è: amare ed essere amati. L’unica cosa che ci salva. 

Sta venendo meno la speranza nell’ aiuto divino, non le pare? 
Sì, ma perché c’ è meno speranza nell’aiuto umano. Se non si riesce ad aver fiducia, a credere in chi si vede, come si può sperare in un Dio invisibile? Però , se manca la speranza, l’ esistenza diventa solo un duro mestiere senza possibilità di felicità. 

Mestiere durissimo, pensando a tutto il dolore che ci tocca. 
Il dolore resta un enigma pure per il cristiano , che può limitarsi a dire: finché siamo qui su questa terra insieme, cerchiamo di vivere quella gioia e quella pienezza che ci è consentita pur con le contraddizioni della malattia, del male e della morte. Non si tratta di dare un significato alla sofferenza, bensì di dare significato alla vita persino quando si soffre. 

A proposito di terra, a Bose c’è un’altra iscrizione che colpisce: «Dio perdona sempre, gli uomini talvolta perdonano, la terra si vendica e non perdona mai...
...e conclude: «Ama la terra come te stesso». È nostra madre, da cui Dio ci ha creati, dobbiamo rispettarla e renderla addirittura più bella. 

Non a caso lei è fedele da sempre all’orto fuori dalla sua cella. Un orto fu persino il regalo (originalissimo) chiesto a 11 anni per l’ ammissione alle scuole medie... 
Non solo l’ orto... Amo il bosco (sono nato nel verde del Monferrato), amo la tavola, gli amici, la compagnia e tutto questo lo vivo nella mia fede cristiana ma senza dissociazione tra le due cose, anzi: l’una potenzia l’altra. Sovente la spiritualità oppone anima a carne, cielo a terra... Noi siamo l’insieme, non possiamo dimenticare una delle dimensioni. 

Da dove le arriva questa visione “concreta”? 
Sono per carattere aderente alla realtà e, probabilmente, per vicende personali: mia madre è morta quando avevo otto anni, sono rimasto con mio padre in una condizione di povertà e precarietà... Quel che mi ha sempre sorretto è stato sentire il Vangelo come una stella polare che poteva guidarmi. La fede cristiana è stata il dono più grande di mamma, molto religiosa. 

Però non si è mai identificato nella chiesa di Roma, ha mantenuto apertura e curiosità 
Credo sia il risultato di aver avuto una madre cattolica e un padre comunista che mi ripeteva: «Enzo resta libero, gira, ascolta tutti, incontra tutti. Fa’ la fame ma compra libri!» Non ho mai considerato nessuno nemico o avversario . Ho avuto la fortuna di conoscere, giovanissimo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora. Sono stato segnato dall’incontro con Frère Roger , il priore di Taizé. Ho passato mesi alla periferia di Rouen con l’abbé Pierre, facendomi straccione con lui e con i suoi ultimi... Mi considero privilegiato. 

E adesso, lo stato d’animo? 
Fondamentalmente sereno, benché la vecchiaia spaventi. Proprio stamattina ho visitato un coetaneo con l’Alzheimer e sono rimasto turbato: perdere l’autosufficienza è il timore più profondo. E poi c’ è la paura della morte, parte integrante della nostra identità umana. Ci sembra ingiusta, ci interroghiamo sul dopo...Questo rende fragili. In compenso, dalla vecchiaia sto imparando la pazienza. Con me stesso e con gli altri. 

Qualche rimpianto? 
Il rimpianto è una tentazione, ma non ne soffro. Se arriva, so spegnerlo presto. 

Maria Laura Giovagnini 
Io Donna 
14 settembre 2019

28/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 6 - CONVERSAZIONE.


Siccome, come appare del tutto evidente e come aveva già intuito il saggio Epicuro 300 anni prima di Cristo, dalla pòlis (cioè da tutto ciò che è pubblico, istituzione pubblica, struttura pubblica) non potrò aspettarmi il perseguimento della causa della felicità umana, e quindi della mia personale felicità, so già che io dovrò assumermi in prima persona la responsabilità della mia felicità.

Per essere felice e offrire una vita degna alla mia anima, dovrò ricordarmi dell’importanza della conversazione.

Un uomo incapace di conversare con un amico difficilmente potrà essere felice.

La conversazione tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri è ciò che di meglio la vita ha da offrirmi.

Per fare questo dovrò imparare ad ascoltare.

Le conversazioni migliori sono quelle in cui c’è uno scambio di idee e in cui si mette alla prova la verità.

Una conversazione intelligente e aperta nel cuore con una persona amica è l’antidoto contro qualsiasi dolore, l’incoraggiamento per qualsiasi impresa, la spinta a migliorarsi e a crescere, a comprendere qualcosa in più del grande mistero in cui sono calato.

Nella conversazione intelligente, proficua e piacevole tra amici ritroverò sempre il senso della mia natura veramente umana.

Come diceva Blaise Pascal sono solo le conversazioni che formano l’intelletto.

26/11/10

Maupassant - La passività, la mancanza di coraggio: un tema moderno.



Ho finito da poco di rileggere 'Una vita', di Guy de Maupassant. E, ancora una volta, ho avuto conferma che da un romanzo classico si possono trarre utili insegnamenti per la nostra vita, la vita di oggi.

Una vita scuote nel profondo, perché mette a confronto i disastri che sorgono tra una vita immaginata e idealizzata (quella di Giovanna, la protagonista, 'prima' di entrare nella vita, e cioè quando è chiusa in convento, dove i genitori l'hanno chiusa per preservarla e prepararla al futuro) e la vita reale. L'isolamento di Giovanna, la sua 'preparazione' nel convento, ne ha fatto una impreparata alla vita. Ella è convinta che un destino solare l'attenda: non può essere altrimenti. E il viaggio verso 'il Castello' - la casa avita - in quella terribile giornata di pioggia (che pure sembra un presagio) è per lei tutto un incantamento.

Da qui, nasce il suo lungo calvario di disillusioni, una più amara dell'altra.

Ma Giovanna, non è per me innocente. Per tutto il romanzo si aspetta la 'reazione' di Giovanna (è esattamente lo stato d'animo in cui Maupassant mette il lettore), ma la reazione di Giovanna, per l'appunto, NON ARRIVA MAI.

Giovanna è una passiva. Il suo atteggiamento ai limiti dell'ignavia, genera e amplifica tutte le disgrazie che le arrivano: accetta Giuliano senza nemmeno conoscerlo, passivamente. Passivamente si fa trasportare da una idea di amore coniugale (che del resto subito si dimostra falsissima). Passivamente accetta il tradimento con la serva (con tanto di figlio illegittimo) subito convinta dal pistolotto del curato (quello 'buono' è quasi più insopportabile e odioso dell'esaltato Tobiac). Passivamente accetta il nuovo tradimento con la contessa che avviene sotto i suoi occhi e che finge di non vedere, consolata dall'arrivo del figlio. Passivamente si concede perfino per un secondo figlio, nonostante la conclamazione del tradimento ! Passivamente accetta che sia l'energumeno marito della contessa a togliere di mezzo i due fedifraghi. Passivamente giunge perfino a rimpiangere il marito (un essere totalmente meschino). Passivamente riversa ogni sua frustrazione sull'unico bene rimastole del figlio, viziandolo in ogni modo.

Passivamente accetta che anche il figlio si dimentichi di lei (aspetta un tempo immemorabile prima di metterlo di fronte a quello che ha combinato). E passivamente accetta il risarcimento tardivo della sorte, con quel fagotto che le piove dal cielo.

Giovanna non può lamentarsi: ha avuto dalla vita quel che ha dato, cioè NULLA.
Rosalia, la serva, è l'esempio, opposto, di chi, pur segnato dalla vita, la prende per mano, la affronta: non si bea delle avversità, non si piange addosso, non si sente vittima perché ha troppo idealizzato la vita. Come enuncia alla fine, la vita per lei "non è nè bella, nè brutta". E' la vita, appunto. E va vissuta.

Non c'è niente di peggio, che prendere la propria vita e chiuderla in un cassetto. E' forse il peccato più grande che possiamo fare, di fronte alla vita che abbiamo ricevuto.

Il difetto più grande di Giovanna è dunque proprio quello che appare, anche nella nostra contemporaneità, un limite im-perdonabile: la mancanza di CORAGGIO.