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16/06/11

'Considerate ciò che c'è sulla terra !'


Nei giorni scorsi il Vicariato di Roma ha diffuso due dati che, mi sembra, siano passati un po’ sotto silenzio e che invece forse vale la pena di meditare. Sono due dati piuttosto eloquenti che riguardano la città simbolo del cattolicesimo:
1. i matrimoni celebrati con rito religioso a Roma si sono, nel giro del ventennio 1990-2010 quasidimezzati (da circa 8,500 a 5000), mentre quelli civili sono rimasti invariati.
2. 1 bambino su 2 che nasce oggi a Roma, non viene battezzato (14.000 battezzati su 25.200 nel 2010).   Questi dati vanno ad aggiungersi ad un terzo, secondo il quale poco meno del 10% della popolazione partecipa più o meno saltuariamente alla messa domenicale.
I dati potrebbero essere tranquillamente allargati al resto del paese e manifestano quel che già appare evidente e cioè una scristianizzazione in atto – già piuttosto avanzata – della società italiana.
I numeri sono importanti ma di per sé non spiegano tutto. Qualcuno, analizzandoli, anzi vi troverà perfino aspetti positivi: meglio pochi cristiani ma convinti, si dirà, pochi cristiani che credono veramente e che ricominciano daccapo, piuttosto che un cristianesimo ‘di massa’, ma costruito su formalismi, non sentito, e tutto sommato dannoso perché ipocrita.
E però, comunque la si rigiri, i dati sono inequivocabili: Cristo è scomparso – anche come problema, come questione, come interrogativo – per una grande parte di persone, che stanno diventando rapidamente maggioranza.
Ecco: ma perché questo è successo ?  Certamente non è questo un luogo dove si possa tentare un’analisi seria di un fenomeno che ha radici antropologiche, culturali, sociali, complessissime.
Per quanto mi riguarda poi, non vorrei dare risposte – che non ho, ma suscitare domande.
La mia domanda è questa: ma non sarà che il mondo – il nostro mondo – sta diventando meno cristiano perché, molto semplicemente, Cristo è scomparso dalle nostre vite ?
Non sarà che sta finalmente trionfando quel sistema secondo cui la fede è sostanzialmente un fatto privato (il contrario, mi sembra di quanto è stato fondamentalmente e storicamente il cristianesimo) ?
Non sarà che la scristianizzazione dipende semplicemente che il nome di Cristo – e le parole che lui ha professato – sono scomparse dai comportamenti collettivi, pubblici, sociali ?
“Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni” – constatava amaramente Lev Tolstoj nelle sue‘Confessioni’ – “è assolutamente impossibile  capire se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi.”
Se una persona si professa ‘di fede’, e cioè cristiana, diceva in sostanza Tolstoj, ma non è intelligente, non è onesta, non è buona, non è retta, non ha sentimento etico (tutte manifestazioni che si sostanziano in comportamenti pubblici), costui, che cristiano è ?
Se il nostro cristianesimo serve a farci stare bene, a farci sentire migliori, più buoni,  ma non produce nullaper il mondo, per il resto della collettività – se addirittura lo stesso nome di Cristo è tabù (io stesso lo sento pronunciare pochissimo anche dagli stessi religiosi, fuori dai riti e dalle messe), cancellato dal consesso della vita comune – a cosa serve ?
Sono le stesse domande che si poneva Dietrich Bonhoeffer in anni cruciali, nei quali il nome di Cristo oltre ad essere tabù rischiava di generare di per sé, una condanna a morte.
Bonhoeffer la sua scelta la fece, e già nel 1932, intravvedendo che la semplice scelta di un cristianesimo timido e individuale avrebbe portato conseguenze tragiche per l’intera società in cui viveva.  Togliere Cristo di mezzo, infatti, relegarlo nei nostri spazi privati, gli sembrava una limitazione colpevole, una rinuncia che tradiva lo spirito stesso dei Vangeli, la parola più rivoluzionaria mai udita su questa terra, per l’uomo e per il mondo.
“Considerate ciò che c’è sulla terra !” scrisse “Da ciò dipendono molte cose: se noi cristiani abbiamo forza sufficiente per testimoniare al mondo che non siamo visionari o sognatori.  Che non lasciamo che le cose rimangano come sono, che la nostra fede non è veramente quell’oppio che ci rende felici in un mondo ingiusto.  Ma che noi, proprio perché tendiamo a ciò che è lassù, protestiamo tanto più ostinati e risoluti su questa terra.”
Fabrizio Falconi

21/10/16

Che cosa è la libertà ? (Bonhoeffer)



"Colui che è responsabile agisce nella libertà della sua persona, senza mettersi al riparo dei suoi simili, delle circostanze o di certi principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. 

Il fatto che nulla lo può difendere, che non può scaricarsi se non sui suoi atti e su se stesso, è la prova della sua libertà. Egli stesso deve osservare, giudicare, pesare, decidere, agire; lui solo dovrà esaminare i motivi, le possibilità di riuscita, il valore e il senso della sua azione. Ma né la purezza della motivazione né le condizioni favorevoli, né il valore, né la scelta giudiziosa dell'azione progettata potrà diventare la regola, dietro la quale trincerarsi o dalla quale possa essere giustificato e assolto. Altrimenti non sarebbe più realmente libero."

"La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: dal vincolo con l'uomo e con Dio, e dalla libertà della vita personale.  Quel vincolo dà origine alla libertà della vita del singolo.  Non esiste responsabilità al di fuori di quel vincolo e di quella libertà.  La vita che quel vincolo ha reso altruistica e disinteressata è l'unica veramente libera di esplicarsi e di agire in modo personale.  Il vincolo assume la forma di una sostituzione a favore del prossimo e di un atteggiamento conforme alla realtà, mentre la libertà si esprime nell'autocritica della vita e dell'azione e nel rischio della decisione concreta."

"Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente -- non cronologicamente -- la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell'uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo."

"E' infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell'azione responsabile personale.
E' infinitamente più facile soffrire comunitariamente che in solitudine.
E' infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna.
E' infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito.
Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui."

Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.


07/03/17

"Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento..." Dietrich Bonhoeffer, 1944.



Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento che interessa tutti gli strati sociali; e nello stesso tempo ci troviamo di fronte alla nascita di un nuovo stile di nobiltà che coinvolge uomini provenienti da tutti gli strati sociali attualmente esistenti. 

La nobiltà nasce e si mantiene attraverso il sacrificio, il coraggio e la chiara cognizione di ciò cui uno è tenuto nei confronti di se e degli altri; esigendo con naturalezza il rispetto dovuto a se stessi e con altrettanta naturalezza portandolo agli altri, sia in alto che in basso. 

Si tratta di riscoprire su tutta la linea esperienze di qualità ormai sepolte, si tratta di un ordine fondato sulla qualità

La qualità è il nemico più potente di qualsiasi massificazione. 

Dal punto di vista sociale questo significa rinunciare alla ricerca delle posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta della cerchia intima degli amici, significa saper gioire di una vita nascosta ed avere il coraggio di una vita pubblica. 

Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dallo snobismo alla modestia, dall’esagerazione alla misura.  
Le quantità si contendono lo spazio, le qualità si completano a vicenda


Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.

29/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (4./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (4)


Il coraggio non manca, dunque, a quest’uomo che sembra davvero aver posto un obiettivo ambizioso, davanti a sé: quello della santità, dell’avvicinarsi quantomeno alla santità, nella certezza di aver fatto tutto quel che si poteva, di aver dato tutto quel che si aveva.
      Un coraggio che da solo, servirebbe comunque a poco. E’ soltanto nell’accettazione, nel piegarsi ad una volontà superiore, e semmai proprio nello sforzo continuo di identificare questa volontà – cosa vuoi tu da me ? – che il cammino può proseguire, e giungere fino al termine.  In questo, il percorso di Hammarskjold ricorda da vicino quello di un altro gigante del Novecento, Dietrich Bonhoeffer.  Scrive nel suo quaderno Dag:

     Dinnanzi a te, padre
        In rettitudine e umiltà
     Con te, fratello,
        In fedeltà e coraggio !
     In te, spirito
        In quiete.

   Tuo, perché la volontà è il mio destino,
votato perché il mio destino è di essere usato e
consumato secondo la tua volontà.  (11)

    Rettitudine, umiltà, fedeltà, coraggio, quiete.  Parole semplici che nella teodicea di Hammarskjold rappresentano le strade convergenti per uniformarsi alla volontà di Dio. La fede, in fondo, appare soltanto che questo:  lo scomponimento delle proprie aspettative egoistiche, lo scioglimento di se stessi, delle proprie velleità individuali, in un disegno più grande, in un servizio più grande.
    
La fede è l’unione di Dio con l’anima, scrive Hammarskjold citando San Giovanni della Croce, La fede è: dunque, non può essere afferrata, né tantomeno identificata con formule usate per parafrasare ciò che è.      …. In una notte oscura. La notte della fede tanto oscura che non si può cercare nemmeno la fede.  E’ nella notte del Getsemani che l’unione si compie, quando gli amici dormono, gli altri tramano la rovina e Dio tace.
     Essere guidati da quel che vive quando “noi” più non viviamo come parti in causa o “saccenti”. Saper ascoltare e vedere ciò che dentro di noi è nel buio. E nel silenzio. (12)
     
      Negli ultimi tre anni, dal 1958 alla fine, il linguaggio nei Diari di Hammarskjold si fa sempre più rarefatto, sempre più diluito, quasi in obbedienza a questa legge del silenzio che sembra avvicinarlo sempre di più a Dio.  Aforismi e considerazioni, riflessioni e meditazioni sul proprio mestiere, sugli incontri e le circostanze, lasciano il posto ormai a veri e propri piccoli componimenti poetici, fatti di rapide terzine, di versi brevi tagliati, densi di immagini delicate e forti, di impressioni e combattuti sentimenti difficili da esprimere,  di considerazioni che appaiono davvero ultime, in cui si avverte spesso il peso di un destino:

Il cammino degli altri
ha soste
al sole
dove si incontrano.
Ma questo è  il tuo cammino,
ed è proprio ora,
ora, che non puoi tradire. (13)
      
      Ma davvero questo cammino particolare è anche un duro privilegio. Mi desti forse questa solitudine senza scampo affinché più facilmente io potessi darti tutto ? Scrive nel giorno del suo cinquantatreesimo compleanno. 

      Il Tu a cui si rivolge in modo sempre più accurato negli ultimi tempi della sua vita Hammarskjold, non è più così silenzioso. Una risposta arriva, è una risposta confermativa, ma – è la scoperta più radicale – una risposta che dipende molto (anzi, che dipende tutto) dalla domanda.    (-segue 4./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


11. Op.cit. pag. 141
12. Op. cit. pag. 114 
13. Op. cit. pag.233

12/10/21

La violenza nelle strade, la tracotanza dei novax: Le parole profetiche di Dietrich Boenheffer su cosa è la stupidità e su come sia inutile combatterla

 


Il nemico del bene


Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente. Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere - in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico - e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti. Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa.


Stupidità e potere

Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Ci accorgiamo con stupore di questo in certe situazioni, nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate situazioni gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Ci è dato osservare, inoltre, che uomini indipendenti, che conducono vita solitaria, denunciano questo difetto più raramente di uomini o gruppi che inclinano o sono costretti a vivere in compagnia. Perciò la stupidità sembra essere un problema sociologico piuttosto che un problema psicologico. E’ una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini; un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni.

Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane - ad esempio quelle intellettuali - ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti, ecc. da cui egli è dominato. E’ ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre.

Liberazione esteriore

Ma a questo punto è anche chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo essere stata preceduta dalla liberazione esteriore; fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido.

In questo stato di cose sta anche la ragione per cui in simili circostanze inutilmente ci sforziamo di capire che cosa effettivamente pensi il "popolo", e per cui questo interrogativo risulta contemporaneamente superfluo - sempre però solo in queste circostanze - per chi pensa e agisce in modo responsabile. La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Salmo 111, 10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità.

Del resto, siffatte riflessioni sulla stupidità comportano questo di consolante, che con esse viene assolutamente esclusa la possibilità di considerare la maggioranza degli uomini come stupida in ogni caso. Tutto dipenderà in realtà dall’atteggiamento di coloro che detengono il potere: se essi ripongono le loro aspettative più nella stupidità o più nell’autonomia interiore e nella intelligenza degli uomini.

 Dietrich Bonhoeffer, carcere di Tegel - 1943 - Della stupidità

22/06/09

Cosa vuol dire Rendere Grazie a Dio.


Quante volte ci ricordiamo di ringraziare ?

La vita di oggi spinge molti di noi a poter fare a meno di Dio, e dell'idea stessa di Dio.

Condizioni di salute sempre migliori
- le malattie divengono sempre più rare e comunque più facili da curare - e l'allungamento della vita - oggi c'è un 'eterna' età adulta, l'infanzia finisce prestissimo, e poi ci si può illudere di non essere anziani fino ai settant'anni e oltre - fanno sì che si ingeneri quasi una dolce aspettativa di eternità in terra.

La morte è un problema eternamente rimandato.

Naturalmente, prima o poi arriva. E quando arriva, trova (spesso) uomini del tutto impreparati ad accoglierla. In preda a una comprensibile disperazione.

E in questa lunga attesa, si può anche far finta che il problema della morte, di quel che accade dopo, della esistenza di un Dio-Padre, non esista.

Questo va bene per molti - va bene ? a vedere lo stato del mondo, oggi, non sembrerebbe.

Ma non dovrebbe andare bene per i cristiani, in coloro che si riconoscono nelle Parole e nella significanza terrestre e divina della presenza di Gesù Cristo.

Per costoro, Dio non dovrebbe mai essere "un tappabuchi ", come scriveva Dietrich Bonhoeffer.

Per costoro, Dio non dovrebbe mai essere un calcolo utilitaristico, una convenienza, una condizione, una resa, un do ut des.

Credo che dovremmo, noi cristiani, essere sempre pronti a ringraziare Dio. Della vita, che è meravigliosa, per quante cose noi facciamo per renderla un inferno. E anche per quello che precisamente la vita ci porta come doni - quelli che riconosciamo come tali e quelli che ci appaiono come prove, e magari seguentemente scopriamo essere doni ancora più preziosi.

Ma di questo ringraziamento, di questo 'Grazie' che dovremmo pronunciare ogni mattina, ogni sera prima di addormentarci, noi siamo ancora capaci ?

Ringraziare vuol dire : rendere grazie. La grazia non si riceve soltanto. La grazia si rende, si deve rendere, se si vuole vivere veramente.

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24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





19/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (3./)





Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (3./)


Durante quegli anni di prigionia spaventosa – dal 1933 al 1937 – Florenskij continuò instancabilmente a lavorare  (a Skovorodino viene messo a capo di un laboratorio interno al lager, che si occupa dell’estrazione dello iodio e dello sfruttamento delle alghe marine) e a scrivere accorate, straordinarie lettere alla famiglia  (la moglie e i tre figli più piccoli lo raggiunsero in Siberia nell’estate del 1934), mentre proseguiva l’iter di un processo kafkiano destinato a concludersi con la condanna alla pena di morte come controrivoluzionario.

Queste lettere, riemerse dopo l’apertura degli archivi del KGB e riordinate pazientemente dal curatore Lubomir Zak vanno dal 23 maggio 1933, quando Florenskij è detenuto alla Lubjanka (ti prego di portarmi della biancheria intima e un lenzuolo… se avrai il permesso mandami due o tre cipolle, perché la mancanza di verdura può essere dannosa...) fino al 18 giugno 1937, pochi mesi prima della morte, quando nella lettera al figlio Tiki scrive profeticamente: io devo continuamente separarmi da qualcosa. Ho dato l’addio al Biosad, poi alla natura delle Solovki, poi alle alghe, poi allo Iodprom. Chissà che non debba dire addio anche all’isola. (6)

La lettura di queste pagine, insieme a  quelle delle memorie famigliari,  scritte negli anni ’20 (7), di questo uomo in cui – come scrisse l’amico teologo Sergej N. Bulgakov – “ si sono incontrate, e  a loro modo unite, la cultura e la Chiesa, Atene e Gerusalemme” (8) è una esperienza che arricchisce e che scalda il cuore.

 Sono lettere che pur provenendo dall’inferno – un inferno fatto di temperature a meno venti gradi, di povere camerate dove la gente dà di matto, di assurde marce nel nulla, di veglie notturne, di desolazione e vessazioni psicologiche – sono piene di incrollabile fiducia, nella vita, nel valore ultimo della esistenza, nella serena attitudine a cercare sempre di scoprire le tracce del mistero e della verità dietro l’apparenza dei fenomeni e delle circostanze.

In queste lettere, i riferimenti espliciti alla fede sono quasi assenti, e il motivo è fin troppo evidente, trattandosi di corrispondenza che veniva passata al meticoloso setaccio della censura sovietica.  

Eppure, quasi ogni rigo di questi scritti riporta un desiderio di assoluto, magari sigillato implicitamente in citazioni come quella di una poesia del poeta persiano Hafez, che Florenskij trascrive per la moglie e i figli, ma che nell’originale è una invocazione all’essere supremo (il te è un maiuscolo):  Mai si cancellerà l’amore per te/ dalle tavole del mio cuore e della mia anima/ E non lascerà la mia mente distratta il pensiero di te/sotto il giogo del destino e dell’afflizione/ impostomi dal mondo. /Fin dal principio il mio cuore/fu legato da un capello del tuo capo/E fino alla fine/non sfuggirà al suo voto. (9)


E in effetti questo essere, questo sentirsi legato a un capello del tuo capo, cioè del capo di Dio, è forse, in estrema sintesi, il pensiero di Florenskij, della sua esperienza, del suo percorso umano e spirituale. 

E’ l’essere legato a un capello, cioè a una sostanza che non è di questo mondo, ma che è oltre, rende l’interpretazione del mondo, per Florenskij, bisognosa di una ridefinizione: ogni cosa e ogni apparenza fenomenica rimanda a un nuovo pensiero, capace di sintetizzare Dio e il mondo, il visibile e l’invisibile, in una concreta riscrittura delle teorie sullo spazio che sembrano tener conto e in qualche caso perfino anticipare le nuove acquisizioni einsteniane e le conseguenze che produrranno sulla conoscenza scientifica. 

(3./segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 
     
6.     La raccolta delle lettere scritte dal Gulag alla famiglia da Florenskij costituisce una delle testimonianze spirituali più alte del Novecento, che molti hanno paragonato a quella dei diari Etty Hillesum o di Dietrich Bonhoeffer.  L’edizione italiana completa è quella contenuta in Non dimenticatemi, op.cit.          
7.     Le memorie famigliari sono pubblicate in Italia da Mondadori.  Pavel A. Florenskij, Ai miei figli, memorie di giorni passati,  a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak, Mondadori, Milano, 2003.    
8.     La citazione è riportata nella nota biografica su Pavel Florenskij pubblicata nel volume Ai miei figli… op. cit.             
9.     La poesia di Hafiz è riportata da Florenskij nella lettera del 24-25 luglio 1935. Contenuta in Non dimenticatemi, op. cit. pag. 194.