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21/01/12

La visione di Costantino e l'Arco di Malborghetto - 1.



La visione di Costantino e L’Arco di Malborghetto sulla Via Flaminia.

 1. Le vie consolari e l’età di Costantino.

Nella loro lunghissima storia le vie consolari di Roma sono state  teatro di misteriosi  eventi, celebri  visioni, alcune di esse fondamentali per la Storia del Cristianesimo.

Vale la pena ricordarne soltanto alcune:  la visione di San Pietro sulla Via Appia (64 d.C.)- del Domine Quo Vadis,  riferita da molte fonti, pagane e cristiane (a seguito della quale la quale l’apostolo Pietro avrebbe deciso di tornare per accettare il martirio a Roma); la visione dell’Imperatore Costantino sulla Via Flaminia (312 d.C.) prima della Battaglia di Ponte Milvio; la visione di Sant’Ignazio di Loyola sulla Via Cassia, in zona La storta, nel 1537, prima di entrare a Roma e fondare la Compagnia di Gesù.

Della prima e della terza esistono memorie in luoghi venerati a lungo e poi caduti nell’oblio. Riscoperti soltanto negli ultimi tempi da un certo turismo, non solo religioso.  Per quanto riguarda la seconda, invece, sembrerebbe quasi che l’episodio storico, tramandatoci dalla tradizione e dalle varie fonti che vedremo, sia stato completamente dimenticato.  Eppure, chi abita a Roma e si trova a passare nel popoloso quartiere denominato “Labaro” dovrebbe sapere che l’etimologia di quel nome è legata strettamente ad uno dei più celebri episodi della vita dell’Imperatore Costantino il Grande, e al misterioso segno che egli dichiarò di aver visto nel cielo prima della definitiva battaglia contro Massenzio.

Ma prima di addentrarci nella Visione della Via Flaminia, descriviamo più succintamente che si può la complicatissima situazione che vigeva nell'Impero prima dell'avvento di Costantino.

Il potere, all''inizio del 300 d.C., era incredibilmente frazionato.  Il declino di Diocleziano lasciò l'impero in mano alla tetrarchia , cioè in mano a quattro persone:  due Augusti (Diocleziano e Massimiano, i quali avevano scelto come sedi del potere rispettivamente Nicomedia, in Asia Minore, e Milano), che a loro volta avevano scelto due Cesari (il primo Galerio, il quale  pose la sua capitale a Mitrovizza, nell'attuale Croazia; il secondo Costanzo Cloro, padre di Costantino, che scelse Treviri, in Germania).

Roma, perciò, era apparentemente fuori dai giochi, sempre più periferica.

(C)(riproduzione riservata)

16/07/14

Non si "deve" vedere tutto ! Curare ciò che entra dagli occhi.





La sottile dittatura globale sotto la quale viviamo ormai da qualche tempo ha imposto un nuovo paradigma. In effetti si vive ormai nella società della visione. 

Dove tutto non solo è consentito, e cioè visibile (e visibile per tutti e a tutti), ma tutto è anche raccomandabile o doveroso

Chi non vede o non vuole vedere è quantomeno fuori dal gioco e nel grande gioco della dittatura della visione è naturalmente un disfattista

La visione viene sollecitata, blandita, invitata, raccomandata, perseguita, propagata in ogni modo, grazie al Vaso di Pandora della tecnologia: su un campo di calcio una volta c'era una telecamera, oggi ce ne sono trentasette; in un solo scorrimento di una home di facebook, puoi gustarti cento video, cento immagini, dalle più orripilanti alle più suadenti; con i nuovi google glass puoi anche avere la tua visione soggettiva o la visione di un altro in un infinito gioco di aspetti narcisistici. 

E chi non vuole, chi si sottrae ? 

E' un inadeguato o un pauroso o un antico

La vecchia Cura Ludovico che Burgess e Kubrick avevano immaginato agli albori dei '70, costringevano il povero Alex (Malcolm Mc Dowell) a cibarsi di immagini di orrore e sesso, senza poter chiudere mai gli occhi.  I ferri lo costringevano a vedere.  Il veleno che gli iniettavano nel sangue serviva per associare a quelle immagini sensazioni di vomito e repulsione. 

La Cura Ludovico, però, falliva.   Alex, uscito pecorella dal trattamento, nelle ultime immagini del film è già pronto a tornare Lupo. 

Anche oggi siamo un po' tutti come Alex. Costretti a vedere tutto. Forse nella convinzione che vedere tutto ci renderà tutti più agnelli, più mansueti, meno bisognosi. 

Ma è difficile che andrà così. 

Gli occhi sono specchio dell'anima, recita un vecchio aforisma. Ma il senso dell'affermazione è bilaterale: non significa soltanto che ciò che è nell'anima passa, si vede attraverso gli occhi, ma anche il contrario e cioè che quello che entra dagli occhi va - passa, si vede - direttamente nell'anima. 

Per questo gli occhi hanno palpebre.  E' stato deciso così.  Vedere non è un dovere.  Vedere è e resta una libera scelta dell'essere, sempre. 
Chiudere gli occhi non vuol dire non vedere.  Chi chiude gli occhi, anzi, spesso ha gli occhi più spalancati degli altri che credono di vedere.

Eyes wide shut, diceva ancora Kubrick, nel suo testamento finale. 

30/01/12

La visione di Costantino e l'Arco di Malborghetto - 3.


3. La notte della Visione. 

Sappiamo con certezza assoluta che la battaglia di Ponte Milvio avvenne il giorno 28 ottobre 312.   La nostra attenzione si sposta allora alla notte precedente la battaglia, la notte del 27 ottobre.  Una notte che Piero della Francesca ha raccontato nell'affresco che fa parte del ciclo "Leggenda della Vera Croce" nel Duomo di Arezzo, capolavoro dell'arte di tutti i secoli.

Le truppe di Costantino, provenienti dal Nord Italia, dopo numerose vittorie e la cattura del prefetto del pretorio di Massenzio, arrivano alle porte di Roma alla fine di ottobre, si accampano sulla Via Flaminia, preparandosi all'idea di un lungo assedio. Tutto lascia pensare infatti che Massenzio terrà il suo esercito all'interno delle Mura Aureliane e si preparerà a resistere ad oltranza.  Roma è una città che fino a quel momento nessun invasore è riuscito a violare.

Invece, contro ogni previsione e in spregio alle elementari norme di strategia bellica, Massenzio decide di affrontare l'esercito di Costantino in campo aperto, predisponendosi ad una sicura disfatta. Sulle motivazioni che spinsero l’assediato a compiere questo errore fatale esistono da sempre numerose teorie e ipotesi: dalla propensione di Massenzio per la superstizione (diverse fonti sostengono che ricevette un parere che egli interpretò come positivo dalla consultazione dei Libri Sibillini (5) ), ad una temporanea perdita di facoltà mentali, al fatto che quel giorno, 28 ottobre 312 coincideva anche con il sesto giubileo della sua proclamazione imperiale.

Senza dilungarci, è bene qui sottolineare che la Battaglia denominata poi “di Ponte Milvio”, prese il nome dal luogo dove essa terminò, e cioè laddove le truppe di Massenzio, costrette a ripiegare, si trovarono di fronte il fiume, nel disperato tentativo di attraversamento del quale, molti morirono annegati – ivi compreso lo stesso Massenzio insieme al suo destriero.
In realtà la Battaglia di Ponte Milvio cominciò qualche chilometro prima, sul percorso dell'attuale (e dell'antica) Via Flaminia e cioè sull’argine destro del Tevere, nella zona nota come Saxa Rubra,  proseguendo poi per i restanti 7 km circa, fino al Ponte. 
Ma torniamo alla Visione.   Dunque, le truppe sono accampate, si aspetta solo il clangore della Battaglia.  Il giorno prima, e quindi il 27 ottobre, ecco l'evento che ci riguarda, evento tramandato fino a noi da due fonti storiche principali: la prima, molto succinta, in Lattanzio (Sulla morte dei Persecutori, 44, 3-5):

Costantino fu esortato in sogno a far contrassegnare gli scudi dei suoi soldati con i segni celesti di Dio e a iniziare quindi la battaglia. Egli fece così e, girando e piegando su se stessa la punta superiore della lettera greca (X), scrisse in forma abbreviata CRISTO sugli scudi.

La seconda fonte, molto più dettagliata, è quella di Eusebio di Cesarea, biografo di Costantino (Vita di Costantino, I - 25-30):

Nell'ora in cui il sole è a metà del suo cammino, quando il sole comincia appena a declinare, disse (Costantino, ndr) di aver visto con i propri occhi in pieno cielo e al di sopra del sole, il segno luminoso di una croce, unita alla quale c'era una iscrizione: "Con questa vinci". A causa di questa visione un grande sbigottimento si impadronì di lui e di tutto l'esercito, che lo seguiva nel viaggio, e che fu spettatore del miracolo. Raccontava che molta era la sua incertezza sulla natura di questa apparizione. Mentre rifletteva e pensava sull'accaduto, sopraggiunse veloce la notte. Allora gli si mostrò in sogno Cristo, figlio di Dio, con il segno che era apparso in cielo e gli ingiunse di costruire una immagine simile a quella del segno osservato in cielo e di servirsene come difesa nelle battaglie contro i nemici. Non appena spuntò l'alba, si levò e raccontò agli amici tutto l'arcano.

Le due versioni, come si vede, differiscono:  nella prima abbiamo soltanto un sogno. Nella seconda una visione che avviene in pieno giorno, più un sogno notturno.
Il sogno c'è in tutte e due le versioni.  E in tutte e due le versioni c'è quel segno: la croce, che vedremo inserita anche da Piero della Francesca nella sua raffigurazione di Arezzo. 
Costantino disse di essere stato esortato (sia secondo il racconto riferito da Eusebio, che secondo quello di Lattanzio), a fornire gli scudi dei suoi uomini, di un particolare segno,  e cioè quel famoso Labarum,  del quale abbiamo già accennato.

 (3-segue). 

Qui le puntate precedenti


(C)(riproduzione riservata)

03/02/12

La visione di Costantino e l'Arco di Malborghetto - 4. Il Labarum.


4. Il Labarum.  


Ma come era fatto esattamente questo simbolo, il Labarum ?

Ripartiamo dal racconto di Eusebio di Cesarea, nel brano della Vita di Costantino I, 30-31, e leggiamo:

" La sua foggia era la seguente. In un'alta asta ricoperta d'oro s'innestava un braccio trasversale in modo da formare una croce; in cima a tutto era fissata una corona intessuta di pietre preziose e oro.        Su questa corona due segni, indicanti il nome di Cristo, mostravano per mezzo delle prime lettere  ( con il rho che si incrociava giusto nel mezzo ), il simbolo della formula salvifica:     l'imperatore prese poi anche in seguito questo monogramma inciso sul suo elmo.       Al braccio trasversale che era infisso nell'asta, si trovava sospesa una tela di gran pregio...    Di questo segno salvifico l'imperatore si servì sempre contro tutte le forze avversarie e nemiche, e ordinò che altri oggetti simili ad esso fossero messi alla testa di tutti i suoi eserciti.    "

Sappiamo, non soltanto da questa descrizione, ma soprattutto dalle centinaia di riproduzioni su monete, e monumenti che la foggia del Labarum era questa:



Un simbolo realizzato con le prime due lettere dell'alfabeto greco della parola Cristo: Chi (χ) e Rho, (ρ).

Ma il Labarum ha sempre comportato per gli storici un piccolo grande rompicapo.  Per vari motivi:  Innanzitutto Lattanzio, nonostante la descrizione particolareggiata della Visione, ignora il Labaro, e non lo cita nel suo racconto. Lattanzio parla di un monogramma, ma non specifica che si tratti del Labaro, così come è pervenuto fino a noi.  In secondo luogo nelle molte scene raffigurate sull'Arco di Costantino al Foro Romano, che venne eretto soltanto tre anni dopo la battaglia, il Labarum non compare, né è presente alcun indizio della miracolosa affermazione di quella particolare protezione divina che era stata testimoniata, dice Eusebio, da così tanti.  Ciò può essere spiegato in parte con il fatto che, come è risultato da recenti e approfonditi studi, l'Arco è un'opera ricavata da pezzi di altri monumenti più antichi.  

Nell'Arco di Costantino al Foro Romano, come è noto,  esiste in realtà una famosa iscrizione nella quale si dice che l'imperatore ha salvato la res publica INSTINCTU DIVINITATIS MENTIS MAGNITUDINE ("per grandezza della mente e per istinto [o impulso] della divinità").  Questo riferimento così generale, non indicante un simbolo specificatamente cristiano, ha fatto ritenere da alcuni studiosi che la divinità in questione fosse nient'altro che il Sol Invictus — il Sole Invincibile (identificabile anche con Apollo o Mitra)— inscritto anche sul conio costantiniano del periodo.  E’ del resto stato avanzato con molte ragioni l’argomento che Costantino, da abile uomo politico, seppure fosse stato sinceramente convinto di aver avuto contatto con una divinità nuova rispetto al parco degli dei pagani adorati nell’Impero, ben difficilmente avrebbe osato sfidare la benevolenza e il potere dei pretoriani romani, esponendo questa divinità nuova, cristiana – del tutto invisa – in un arco monumentale appena eretto.

Oltretutto, il Labarum fu sicuramente adottato in età costantiniana come simbolo assai diffuso, al punto che Giuliano l'Apostata, fautore del ripristino ad ogni livello del paganesimo, eliminò il segno sospetto dalle insegne militari, cosicché il Labarum  ricomparve soltanto durante il regno degli imperatori successivi.

In conclusione:   sembra certo, storicamente plausibile, che la Visione (o Sogno) sia avvenuta. L'imperatore Costantino vide o credette di vedere un segno divino.   Ciò risulta dal raffronto di tutte le fonti, tra le quali anche il celebre panegirico dell'Imperatore letto a Treviri nel 313, dopo che Costantino ebbe incontrato Licinio a Milano, nel quale si parla di una 'mente divina' rivelatasi soltanto a Costantino, e di una suggestione divina (divino instinctu), che lo rese indifferente alle superiori forze di Massenzio.

Questa Visione (o Sogno) coincide con l'avvento della concezione monoteistica, la quale irrompe nel mondo romano, raccogliendo l'eredità del culto del Sol Invictus, ma identificandosi ben presto con il Cristo dei Cristiani.    

E' certo inoltre, che sul destino della celebre Visione ebbe grande importanza la propaganda compiuta da Eusebio di Cesarea e dei suoi successori.   Eusebio scrive la sua Vita di Costantino parecchi anni dopo la Battaglia di Ponte Milvio, e mosso sostanzialmente dalla esigenza di sistematizzare la vicenda del "più grande degli Imperatori" in un quadro teologico-divino che avrebbe trovato compiutezza con il battesimo e la conversione al cristianesimo dello stesso Costantino avvenuta in punto di morte. (4 - segue)

 QUI le precedenti puntate

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18/10/12

1700 anni dalla Battaglia di Ponte Milvio - Celebrazioni in tutto il mondo.






  C’è una ragione che appare evidente a tutti del motivo per cui la Battaglia di Ponte Milvio è unanimemente considerata una delle più importanti della storia moderna: già dalle lezioni mandate a memoria sui banchi scolastici si è imparato a comprendere che la vittoria dell’esercito di Costantino I il Grande, il 28 ottobre del 312 d.C. contro le truppe rivali di Massenzio, segnò i destini non solo dell’Impero Romano, ma dell’Occidente intero, visto che già dall’anno seguente la Battaglia, nel 313, lo stesso Costantino promulgò il celebre Editto di Tolleranza o Editto di Milano, primo passo del rapido processo di cristianizzazione che contrassegnò la storia dell’Europa prima e dell’Occidente poi.

  Quella battaglia ha rappresentato a lungo un rompicapo per gli storici. Non ci sono infatti motivi razionali sufficienti per spiegare le ragioni per cui Massenzio, “l’usurpatore” – colui che aveva occupato, nel difficile periodo della tetrarchia nel quale il potere nell’Impero era massimamente frazionato – pur disponendo di forze superiori e comodamente asserragliato nelle mura mai violate della città di Roma, decise di affrontare il nemico, Costantino, in  campo aperto, andando così incontro ad una delle più cocenti sconfitte della antica storia bellica.

  Costantino arrivò alle porte di Roma dopo una dispendiosa campagna militare nel nord Italia contro le truppe avversarie e dopo aver attraversato l’Italia centrale discendendo lungo l’antico tracciato della Via Flaminia. Giunto in prossimità dell’Urbe, Costantino, il grande condottiero nato e cresciuto sui campi di battaglia, si accampò subito prima della collina di Prima Porta, ultimo rilievo prima della valle del Tevere che conduce a Roma.

  Ed è proprio in quel luogo – là dove sorge l’Arco di Malborghetto, un monumento che pochi romani ancora conoscono – che sarebbe stato testimone di quella visione dai  contorni leggendari: nella notte prima della battaglia, riferiscono due diverse fonti,  lo scrittore latino Lattanzio e il vescovo Eusebio di Cesareo, l’Imperatore avrebbe visto nel cielo notturno quel segno – la Croce – insieme al volto di Cristo, che gli assicurava protezione e vittoria contro l’avversario pagano.

 Sui contenuti di questa Visione si è molto discusso, nei secoli. Illusione, suggestione, realtà, abile strategia ? Insieme a Bruno Carboniero in un recente saggio pubblicato per Edizioni Mediterrenee (‘In Hoc vinces’, 2011) abbiamo fornito i risultati di una sorprendente scoperta (che ha già avuto risonanza in ambito scientifico e accademico) che legherebbe la visione  ad un preciso ed eloquente fenomeno astronomico visibile proprio in quella notte.

 Il resto della storia è noto: Costantino, persuaso dalla visione – che tutto il mondo conosce con la sigla ‘In hoc signo vinces’ – fece iscrivere il segno della Croce criptato nel simbolo del Labarum sulle insegne del suo esercito e il giorno dopo la clamorosa vittoria gli arrise: le truppe di Massenzio, fuoriuscite dalla città affrontarono quelle di Costantino nella piana di Saxa Rubra. Con una manovra a tenaglia le seconde ebbero subito il sopravvento, costringendo l’esercito di Massenzio ad indietreggiare fino all’argine naturale del Tevere, nelle cui acque l’usurpatore stesso finì per annegare insieme al suo cavallo.

  Costantino, con questa schiacciante vittoria, divenne il più importante pretendente al potere assoluto imperiale, che assunse di lì a poco, nel 324 d.C., dopo la morte di Licinio,  restando l’unico regnante fino alla morte che avvenne nel 337.

  Nel giro di soli due decenni dunque, l’Impero Romano cambiò totalmente pelle, diventando cristiano, nacquero le prime grandi basiliche romane, il culto fu istituzionalizzato, l’Impero conobbe una nuova stagione di enorme e stabile prosperità.
  Di tutto questo Flavio Valerio Costantino fu il fautore, e a coloro che oggi vivono a Roma questa vecchia storia millenaria dovrebbe comunque essere molto familiare, se non altro per la stessa etimologia dei luoghi che si attraversano, in particolare nel territorio del XXmo Municipio:  Labaro, Malborghetto, Saxa Rubra, Ponte Milvio.

  Luoghi costantiniani che parlano ancora oggi, di una storia vera e concreta che ci riguarda da vicino e che racconta non solo dei nostri padri ma anche di  noi, per capire chi siamo e come siamo arrivati ad essere quello che siamo.


Fabrizio Falconi 

in testa: Piero della Francesca, Vittoria di Costantino su Massenzio, ciclo della Leggenda della Vera Croce, Basilica di San Francesco, Arezzo.

18/04/18

L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680)




 L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680) 
di Fabrizio Falconi


  
        La prima volta ci sono arrivato per caso molti anni fa.  Sulle tracce degli obelischi.
        Roma, per chi non lo sapesse, è la città al mondo che ne ospita di più. Gli obelischi egiziani -  la maggior parte dei quali molto più anziani di qualsiasi manufatto umano esistente nella ‘città eterna’ - sono ben tredici.   Alcuni assai famosi, come quello di Ramsete II, che svetta ancora in Piazza del Popolo, oppure quello scavato nelle cave di Assuan da Tutmosis III ben millecinquecento anni prima di Cristo. Altri ormai misconosciuti, come quello ‘capitolino’ lasciato ad ammuffire tra le erbacce di Villa Celimontana.
         E anche se oggi se ne parla solo quando si discute di ‘arredo urbano’ , c’è sempre qualcuno, per fortuna, che degli obelischi si interessa alla loro storia millenaria.
         Avevo letto in un libro di Cesare d’Onofrio, che al Collegio Romano esistevano ancora tracce di una antica e prestigiosa collezione di antichi modellini, in scala, degli obelischi egizi di Roma.
       Una mattina varcai la soglia del Liceo Visconti,  che oggi è ospitato nelle sale del Collegio Romano.  Erano appena finite le lezioni, pochi studenti bighellonavano nel cortile, all’ombra della grande torre. Chiesi indicazioni alla segreteria del liceo.   Una impiegata senza molta voglia di rispondere, mi rimandò all’ufficio del preside. Ma anche lui era assente. Una seconda segretaria, questa sua personale, mi chiese il motivo della visita.  Spiegai che stavo cercando la collezione dei modelli degli obelischi.
         La signorina, una donna corpulenta e bionda, dai tratti nordici, chiese di rimando:
         “ Quelli di Kircher ?”
         Non era la prima volta che sentivo quel nome, ovviamente.
         Ma quel giorno, si scatenò definitivamente la mia curiosità.  Anche perché la collezione risultò non visitabile.  I modelli degli obelischi – alcuni dei modelli, quelli superstiti -  mi spiegò la segretaria, effettivamente erano ancora lì, conservati sotto chiave, in alcune normalissime teche, nel sottotetto dell’edificio.  Ma per vederli bisognava disporre di una autorizzazione speciale, della sovrintendenza.
         “ Tra l’altro, “ aggiunse la segretaria, “ non glielo consiglio. Non è che siano tenuti molto bene, sa. Non capisco perché qualcuno non se ne occupi. Non li restauri, per esempio, e vengano esposti in un museo vero.  Qui combattiamo con gli studenti, non sa cosa sono capaci di fare quelli.”
         Ringraziai la ragazza, rimasi ancora un po’ a guardarmi intorno nel cortile dell’antico Collegio dei Gesuiti,  l’ombra dell’edificio l’aveva ormai occupato quasi interamente.
         Quello stesso giorno, anche se archiviata l’idea di vedere i modelli – troppo complicato -  riuscii ad ottenere la commissione di indagare – per conto di una rivista – su alcuni aspetti della vicenda terrena di Padre Athanasius Kircher.
         Sul conto del quale molto sapevo, ma altrettanto ignoravo.
       Illustre gesuita tedesco, massimo erudito, uomo per molti versi misterioso. Autore di bizzarre opere enciclopediche dai titoli solenni:  Ars Magna Lucis et Umbrae;  Itinerarium Exstaticum;  Phonurgia nova; Prodromus coptus sive aegyptiacus.   Avevo visto qualche giorno prima da vicino, nel Romani Collegii, uno dei pochi ritratti esistenti, il tondo con l’incisione del volto di Kircher: quella faccia incorniciata dalla barbetta bianca e dal tricorno nero, il naso imponente e dritto, gli occhi chiari e vispi, sullo sfondo consueto di quella che doveva essere la sua sterminata biblioteca.
        
      
 Uomo religioso, e allo stesso tempo grande scienziato, che  non esitava a farsi calare nella bocca del Vesuvio, per studiare da vicino la meccanica dei vulcani. Pio pastore, eppure anche intrepido esploratore dell’occulto, come di qualsiasi materia del conosciuto: dalla matematica alla geometria dei solidi, dallo studio delle lingue – copto, siriaco, egizio -  alla interpretazione dei simboli ermetici,  cultore di  numerologia, cartografia, ottica. Nel suo gabinetto delle scienze, al Collegio Romano – in quelle stesse  aule dove oggi stemperano le loro furie ormonali gli allievi del decaduto Liceo Visconti -  Athanasius Kircher realizzò tra le altre cose inventò il prototipo della lanterna magica;  una delle più antiche calcolatrici;  compilò la prima rappresentazione cartografica delle correnti marine; fu il primo ad osservare il sangue umano al microscopio; fu il primo a decifrare la grammatica copta, sperticandosi poi nella interpretazione dei geroglifici egiziani (trascrivendone i segni dagli obelischi romani ) e sbagliando quasi tutto, ma fornendo comunque intuizioni geniali senza le quali – probabilmente – non vi sarebbe stato nessuno Champollion.
    Alla ricerca di notizie e fonti, scoprii che la Vita Reverendi Patris Athanasi Kircheri, l’autobiografia scritta in latino da sé medesimo prima di morire,  avvincente come e più di un romanzo, è inedita in Italia. Ma  buone copie erano disponibili nelle biblioteche storiche dei gesuiti.
         Così, la prima volta che sfogliai le pagine della Vita, mi imbattei in quel formidabile incipit:
        Nacqui il 2 maggio 1602, giorno di Sant'Atanasio, alle tre della notte, nell'infelice città di Geisa, a tre ore di viaggio da Fulda. I miei genitori erano Johann Kircher e Anna Gansek, cattolici devoti, rinomati per le loro buone opere.
          Quell’incipit che pare  già tutta una promessa. E in quel nome – Athanasius, dall’aggettivo greco athànatos   l’evidenza di un destino. Athanasius, l’immortale ?  Ho cominciato a pensarlo, quando per l’articolo che dovevo scrivere ho cominciato a cercare la tomba di Kircher, a Roma. Si comincia sempre da lì, dalla tomba, in effetti, quando si vuol conoscere qualcosa di più dei segreti di un uomo.  E nel caso di Kircher, com’era consequenziale a tutta la sua vita, i segreti anziché dipanarsi, si sono moltiplicati.
           La tomba di Kircher, per quanti sforzi abbia fatto per cercarla, semplicemente non esiste più.
           Dovunque sia stato sepolto -  e io ho trovato numerosi documenti antichi che riportano tutti la stessa data e il luogo della sua morte,  Roma, 27 ottobre 1680 – nessuno sa più dire dove si trovino  i resti di quel corpo.   I documenti lo danno sepolto alla Chiesa del Gesù, come doveva essere ovvio per un personaggio di tal guisa, che all’epoca tutti conoscevano, che aveva lungamente collaborato con Gian Lorenzo Bernini alla realizzazione di alcune delle più grandi imprese del barocco romano – e che negli anni aveva allestito, proprio nelle sale del Collegio Romano uno straordinario museo di meraviglie, raccolte da confratelli gesuiti in ogni angolo del pianeta allora conosciuto, quel prodigioso Museo Kicheriano, purtroppo andato quasi del tutto perduto.
        Nessuno al mondo, in quel mondo vantava una collezione simile, con ogni sorta di reperti animali, esposti ed impagliati, con ogni specie di nuova invenzione ottica o matematica destinata a stupire i più blasonati visitatori delle corti di mezza Europa.

           
     Nessuno al mondo poteva conferire consulenze così preziose sulle opere da realizzare nella città museo del mondo, Roma. I mostri della Fontana dei Fiumi scolpiti da Bernini vengono lì, come viene da lì, naturalmente, tutto il complicato, esattissimo corredo simbolico del piccolo obelisco e dell’elefante, poco distante, il pulcino della Minerva commissionato da Alessandro VII, e scolpito da Ercole Ferrata. 
           Eppure, di un così tanto – e a giusta misura – celebrato personaggio, sorprendentemente, in nessuno dei registri anagrafici delle antiche chiese parrocchiali di Roma, conservati nella monumentale registeria storica del Vicariato di Roma,  esiste il certificato di morte e sepoltura di Athanasius Kircher. Sparito. O mai esistito.
           Perché ?
          Che fine aveva fatto quel certificato, che pure avrebbe dovuto risultare, se l’enciclopedico morì – come morì – a Roma ?  E soprattutto perché  nella Chiesa del Gesù, che conserva l’elenco minuzioso e completo di ogni sepoltura, non v’era traccia della tomba di Kircher ?
         Semplicemente, dopo qualche settimana di appassionante investigazione, e consultazione di ogni tipo di archivio, e di contatti fruttuosi con i maggiori studiosi di Kircher, in Italia e all’estero, dovetti rassegnarmi a concludere, che semplicemente la tomba illustre non si trovava, non c’era, non esisteva, e nessuno poteva dire  con sicurezza dove fosse stata una volta. 
            Quasi come se il corpo stesso dell’Athanasius,  si fosse volatilizzato, adattandosi al destino di quel nome.
            Ma le tracce di Kircher, in mancanza del corpo, non si rivelarono del tutto assenti.
            Almeno qualcosa restava.
            E qualcosa di non poco conto: il suo cuore.
            Come molti illustri contemporanei,  Kircher infatti, nelle ultime volontà, dispose per sé che, dopo la morte, il cuore fosse separato dal corpo, e deposto in un luogo a parte. 
            Quel luogo, lo aveva scelto con massima cura.
            Lessi  nella Necrologia alfabetica dei Padri Gesuiti, alla lettera K di Kircher:
            “ Il cuore è sepolto al Santuario della Mentorella, al Monte Guadagnolo.”
            Unica traccia riscontrabile. E, visto il precedente,  meglio verificare di persona.
             Così, un pomeriggio di agosto, ho preso con me una buona cartina stradale,  e in macchina mi sono diretto  fuori città, verso Sud, alla ricerca del Santuario, dove – come molti che abitano a Roma – non ero mai stato in vita mia.
           C’è anche una ragione.
          La Mentorella, pur essendo a un tiro di cannone dalla capitale, è  abbarbicata su un impervio sperone di roccia,  poco oltre Tivoli, sulla cresta del  Guadagnolo, nei monti Prenestini, che è alto milleduecento metri, eremo del tutto fuori dagli itinerari battuti dal turismo di massa.
           Si passa da Palestrina, città dalle nobili origini e dalla grande storia, poi la strada prende a salire su tornanti quasi del tutto spogli di vegetazione, da Capranica Prenestina fino alla cima del monte.  E arrivati al Passo della Fortuna, nome memorabile, laggiù in basso, a sinistra, ecco comparire il dorso di tetti rossi del Santuario.
        Varcato il cancello di ingresso, davanti all’ingresso della chiesetta, su un piccolo rialzo di roccia, una grande croce, moderna.   Di fronte, un altro ventaglio di rocce scoscese, dal profilo piuttosto familiare. 

        Parcheggiata la macchina di fronte al cancello di ingresso, e oltrepassatolo, si scopre subito un cartello verniciato, all’imbocco di un impervio sentiero che discende la montagna: Cammino Athanasius Kircher.
        Lo si capisce immediatamente: questo luogo deve molto a Kircher, ma la sua lunghissima storia non comincia certo con il padre gesuita, che in realtà si limitò a riscoprirlo, a restituirlo a nuova vita dopo secoli di totale abbandono.
        Ma la vicenda cristiana che si fonda sulla Mentorella  può vantare duemila anni di storia.   E comincia, mentre a Roma imperava Traiano,  con la prodigiosa visione dalla solida tradizione attribuita all’ufficiale pagano Placido, che in questa regione possedeva ville e terreni, nei quali esercitava la caccia, tra una campagna militare e l’altra.
        Un giorno fatale, a quell’ufficiale un po’ rozzo accade qualcosa di inspiegabile e anche di inconfessabile.  Tra le corna del grande cervo che sta per ammazzare, e che gli è apparso all’improvviso su una nuda roccia,  vede il volto di Gesù Cristo.  Una luce divina, così forte, una visione così ‘intollerabile’  che lo costringe a cambiare tutta la sua vita, da un momento all’altro.

La visione di Sant'Eustachio del Pisanello

        Torna a Roma, si fa battezzare come fanno i cristiani,  e cambia il nome in Eustachio.  Nella Roma efferata di quei tempi non rinuncia alla nuova fede, non  abiura.  Cosa che gli vale il martirio, prima risparmiato dalle belve feroci, poi insieme a mogli e figli, dentro un toro di bronzo arroventato.
         Sul posto dove apparve il cervo, sulla sommità della rupe, una semplice cappella. Pochi gradini per arrivarci, un piccolo campanile, con una corda che un bimbo si diverte a tirare, gli affreschi scrostati, e la massima visione sull’ampia valle del Giovenzano.
         E la storia prosegue.  Dopo Eustachio, il Santo, venne qui Costantino Imperatore. Impressionato dal sacrificio di Eustachio,  e a lui devoto, si dice, qui fece costruire un primo tempio. Del quale non restano che sparute colonne.

La visione di Sant'Eustachio del Durer
         
           In questo semplice, essenziale compendio di storia del cristianesimo – che è la Mentorella -  arriva poi il tempo del grande monachesimo d’occidente. Con il suo grande patriarca,  Benedetto da Norcia.  Fu abitata da lui, la piccola e bellissima grotta che si apre sotto la rupe di Eustachio ?   Le fonti dicono di sì.  E si fermò due anni interi, sembra, prima di andare a fondare il Sacro Speco.
          Due anni interi in questa grotta ?
          Per entrarci, oggi, ci si deve mettere di traverso, farsi accarezzare dalla roccia, in una fenditura strettissima, sorvegliata all’ingresso da ossa umane, in un tabernacolo incassato dentro la montagna.  Poi, all’interno, poche candele accese, un grande e spoglio crocefisso, un rosario, il silenzio che non smette di martellare le orecchie. 
          La memoria di San Benedetto non deve essere durata a lungo, nel lento oblìo medievale,  anche se si consolidò fino all’anno mille, e dopo, la decisione ripetuta e continua di assegnare il santuario alla pertinenza dei Benedettini di Roma. 


          Per la vera rinascita, però, bisognò aspettare altri secoli, fino all’anno del Signore  1661, quando il volenteroso gesuita di Fulda,  preso da una delle sue frenetiche ricerche storico-mistiche  – stavolta il trattatello si sarebbe chiamato Historia Eustachio-Mariana -  si avventurò da queste parti sulle tracce di Sant’Eustachio, e della miracolosa visione del cervo.
          Non è difficile indovinare il suo stupore, quando egli – con i mezzi dell’epoca, che possiamo immaginare – arrivando sulla cima del monte, in un posto dai molti crepacci come questo, scovò sommerse dagli arbusti le rovine di un antico e perduto tempio cristiano. Lo racconta lui stesso, nella Vita. La cosa che più lo sconvolse fu l’abbandono della veneranda statua della Madonna, che pure, come gli spiegò  la gente del luogo, si era resa protagonista, nel corso dei secoli, di ben evidenti prodigi.
           A Kircher non mancavano mezzi ed intelligenza. E conoscenze.   E in pochi anni rinnovò il luogo e il culto.  Istituendo anche una festa annuale, il 29 settembre, dedicata a San Michele Arcangelo, che cominciò a richiamare migliaia di fedeli ogni volta. Illustri protettori – grazie all’influenza del conosciutissimo e influente gesuita – presero a cuore le sorti del Santuario, da Maria Teresa d’Austria  al conte di Wallenstein, all’Imperatore Leopoldo I d’Austria, al Viceré di Napoli Pedro D’Aragona.
           Non solo. Kircher trasformò la Mentorella, nel suo eremo personale.
           Qui, soltanto qui, ritrovava la pace del cuore.  E il silenzio necessario ad approfondire i suoi studi, che intanto proseguivano fertili in tutte le direzioni. Un silenzio che al Collegio Romano era diventato merce rarissima.
           Così, ogni qualvolta c’era bisogno di lui, come quella volta che a Roma si ritrovarono finalmente giacenti sotto terra i pezzi del magnifico obelisco solare di Augusto, in Campo Marzio,  e solo a lui si poteva chiedere un parere,  bisognava mandare un messo fino alla Mentorella, e chiedergli di scendere in città.
          Sempre più recalcitrante, con l’avanzare della vecchiaia,  Kircher si disponeva a sopportare l’umida e stagnante aria di Roma, salvo tornarsene, il prima possibile,  nell’alto delle vette prenestine.
           Fino a quel 27 ottobre del 1680, quando la morte lo colse alla veneranda età di 78 anni. 
           Ed esattamente il giorno dopo, il 28 ottobre, per uno di quegli scherzi del caso che lascia allibititi, morì a Roma Gian Lorenzo Bernini. 
           Non è difficile supporre che i due eventi luttuosi, così ravvicinati, dovettero suscitare enorme eco a Roma. Kircher e Bernini, le due facce di una stessa trionfante, erudita, popolarità.
           Oggi, cosa resta di tutto questo ?  Alla Mentorella, forse è la suggestione ad indurre a pensarlo, resta molto. 
            Il Santuario, da un secolo e mezzo è custodito dai padri polacchi resurrezionisti. Da quando, nel 1857 i fondatori Semenenko e Kajsiewicz riuscirono ad ottenere da papa Pio IX la cura del Santuario, realizzando per prima cosa la strada di accesso, dal Passo della Fortuna al picco della Mentorella.
            Alcuni dei padri, giovani e silenziosi, li incontri oggi nel piazzale di ingresso. Ti salutano con un sorriso, e pregano soltanto di mantenere la quiete che il posto ha conservato miracolosamente nei secoli.  Ti raccontano sussurrando, che il loro Papa polacco, Giovanni Paolo II, pochi lo sanno, fece proprio qui la sua prima uscita, dopo l’inaspettata elezione al Soglio Pontificio. Era il 29 ottobre 1978, e ventimila persone – in maggioranza giovani – parteciparono insieme  a lui a quel memorabile pellegrinaggio. Questo luogo mi ha aiutato molto a pregare, disse una volta papa Wojtyla, e non è difficile crederlo, visto che qui tornò molte volte, anche fuori dell’ufficialità, durante il suo lungo pontificato.

Giovanni Paolo II alla Mentorella, 29 ottobre 1978

           Vi ritrovò forse quelle stesse caratteristiche ricercate a suo tempo da Kircher: pace, silenzio assoluto, raccoglimento, vicinanza al cielo e ai Misteri.
           Entrati nella Chiesa, un canto gregoriano appena udibile in sottofondo, accoglie insieme al senso di intimità e di purezza.
           Tre navate, la centrale più grande con capriate in legno. Preziosi reperti d’arte, ovunque.  Nella cappella di sinistra all’altare l’antichissima tavola di quercia, con la scena della consacrazione della Mentorella, che l’onnipresente Papa Silvestro I, secondo la tradizione, dovette dispensare.  E, sull’altare il ciborio del 1305,  con all’interno quella piccola statua in legno della Madonna, seduta con il Figlio in braccio,  che suscitò l’attenzione e la venerazione di Padre Kircher. 
           Ai suoi piedi, per esplicita volontà, egli volle che fosse deposto il suo cuore.
           Dunque basta spostare di poco lo sguardo, in terra, ed ecco, incastonata nel pavimento, la pietra che copre l’urna che cercavamo:
Leggo e rileggo l’iscrizione: ATHANASIUS KIRCHER SAC. SOC. IESU / TEMPLI HUIUS INSTAURATOR/ET SACRAE QUAE HEIC QUOTANNIS CELEBRATUR / EXPEDITIONIS AUCTOR / COR SUUM AD ARAE MARIAE D.N. PEDES / CONDI  VOLUIT  /  OBIIT. ROMAE A.MDCLXXX / AETATIS LXXX.


La lapide con l'iscrizione posta ai piedi dell'Altare della Mentorella che indica il luogo della sepoltura del cuore di Athanasius Kircher (foto dell'autore)

            Non solo il restauratore, quindi, ma anche l’ideatore e il promotore del nuovo rito di venerazione.  E poi: il cuore suo ai piedi dell’altare della Signora Nostra Maria.
            Un esempio destinato ad essere imitato, se è vero che spostandosi di poco all’interno della Chiesa, nel  pilastro di destra, si scopre un altro ‘cuore illustre’, quello di Papa Innocenzo XIII, che pur non essendo propriamente un amico dei gesuiti, destinò la parte più nobile di sé a fianco di quella di uno dei più celebri rappresentanti della Compagnia. 

L'urna murata con il cuore di Papa Innocenzo XIII alla Mentorella (foto dell'autore)


            Oggi, dissolta nell’aria la serenità immota di venti secoli, se non altro per la comodità dei collegamenti, arrivano quassù sparute comitive  di visitatori, gruppi parrocchiali in gite domenicali, e di scout attratti dal contorno naturalistico.  D’estate, il numero dei fedeli cresce,  diventa enorme la vigilia del giorno dell’Ascensione, il 14 agosto, quando una processione notturna di fiaccole illumina la cima del monte, portando in processione l’immagine del Salvatore. 
             I padri resurrezionisti ti confidano allora che il senso di quell’antico isolamento si ritrova solo in certi giorni d’inverno, quando i mezzi spazzaneve non hanno tempo di spingersi fino alla cima, e il Guadagnolo resta immerso nel silenzio del vento gelido che soffia senza ostacoli.
           In quei giorni, dicono, sporgendosi dalla Rupe di Sant’Eustachio, sulla sommità del Santuario, si apprezzano colori unici, e lo spettacolo pieno di stupore di un silenzio che sigilla le opere del creato con il loro Creatore.
             Athanasius Kircher, mistico e scienziato, scienziato e mistico, conosceva meglio di chiunque i segreti di quel silenzio.
             Nella seconda pagina della sua monumentale Ars Magna, scriveva:
             Le pianticelle che giacciono sepolte nel ventre dei loro semi, sotto lo sguardo del Sole, germogliano ebbre di gioia e presto sbocceranno in foglie, fiori, frutti.  Tutti gli animali, sospinti dalla gioia dei cieli, vale a dire dalla fertile radiazione di luce, sono stimolati, come da un sorriso, al piacere da movimenti fecondanti. Persino le rocce, remote come appaiono a ogni contatto con la luce, attratte da qualche forza di radiazione occulta, inturgidiscono, e nella loro tumescenza si abbracciano l’un l’altra, tutte unendosi alla danza delle sfere celesti.


Fabrizio Falconi 
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testo estratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli, Siena, 2009