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27/05/15

La Vita è un’Opera d’Arte - Decalogo per vivere.


Se non si vuole sprecare la propria vita terrestre – dal momento che per quel che ne sappiamo, è solo una, ed è anche breve – bisogna essere consapevoli del fatto che Vivere è un’opera d’arte.

E per vivere bene, per vivere una vita degna di essere vissuta – una vita umana – bisogna trattare la propria vita come il compimento di un’opera d’arte. ‘Opera d’arte’ non vuol dire necessariamente la Gioconda, o i fiori di ciliegio di Van Gogh.

L’opera d’arte non dipende dalle dimensioni: è un’opera d’arte il Giudizio Universale, ma lo è anche il centrino fatto ad uncinetto dalla vecchia.

E’ opera d’arte anche il buon vino del vignaio ed è opera d’arte anche la poesia notturna, nascosta in un cassetto.

Ciascuno è chiamato – con la sua vita – a offrire l’opera che può, a seconda del talento che gli è stato dispensato per mistero a noi in-conoscibile, come viene eloquentemente descritto nella celebre parabola evangelica. 

Il valore non è nel talento, ma nell’uso che se ne fa. La vita è dunque secondo me un talento dato a tutti. E a tutti sta trasformare questo talento in un’opera d’arte. 

Le dieci regole d’oro per trasformare una vita in Opera d’Arte e far sì che essa sia degna di essere vissuta, e sia perciò umana, sono quelle che regolano la creazione di ogni Opera d’Arte

1. Ogni Opera d’Arte deve avere un Senso. Un’opera in-sensata – come una vita in-sensata – non serve a niente e a nessuno. 

2.Ogni Opera d’Arte deve avere un Doppio Senso: un senso per chi la realizza (la vita) e un senso per gli altri (che vedono la tua vita, perché tu vivi in una comunità di umani). 

3. Ogni Opera d’Arte necessita di una Cura . Nessuna opera d’arte – e quindi neanche nessuna vita – si realizza con la trasandatezza, con la disattenzione, con il laissez-faire. 

4. Ogni Opera d’Arte ha bisogno, per nascere, di una ispirazione. L’ispirazione – come la vita – è dentro di te, ma è necessario che tu ti identifichi in lei, la ascolti, e la lasci parlare. 

5. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di metodo. Non basta da sola l’ispirazione. La vita – come l’opera d’arte – ha bisogno che tu organizzi le cose, che tu persegui il tuo progetto. 

6. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di Tempo. Senza tempo, che vuol dire pazienza – nessuna opera d’Arte e nessuna Vita sarà mai completata. 

7. Ogni Opera d’Arte deve essere nuova. L’originalità della tua vita è la stessa di una qualsiasi opera d’arte umana, che prima di essere creata, non esisteva. 

8.Ogni Opera d’Arte deve avere un valore. Un valore per chi l’ha creata, e uno per chi l’apprezza. Una vita senza valore, come un’Opera senza valore, non interessa nessuno. 

9. Ogni Opera d’Arte deve possedere fiducia. Fiducia che qualcuno saprà apprezzare, valutare, rendere, testimoniare, la nostra vita, come la nostra Opera. 

10. Ogni Opera d’Arte, una volta creata, è eterna. Perché, anche se sarà distrutta, continuerà a vivere nella memoria e nelle opere che essa ha – a sua volta – generato. 

Fabrizio Falconi – 22 maggio 2009 (C) riproduzione riservata 2015

26/06/15

La mia vita è un mistero. Una riflessione.


La mia vita – come quella di ogni naufrago occidentale in questo inizio millennio – si basa su due presupposti errati.

Il primo è quello che la mia vita psichica, cioè quello che succede dentro la mia mente, attimo per attimo, mentre sono vivo, sia completamente SEPARATO dalla vita fisica, da quello cioè che succede intorno a me nel mondo. 

Penso che ognuno di noi, se ci riflette per un istante, sa che esiste una connessione molto stretta tra quello che pensa e quello che accade intorno a lui. Ne abbiamo molte prove. 

E ormai abbiamo dato nomi stabili a fenomeni, come la psico-somatica, l’omeopatia, la medicina ayurvedica, che ci dimostrano ad esempio che esiste una stretta correlazione tra il nostro stato psichico e la salute del nostro corpo. 

Io ho avuto molte dimostrazioni di questo nella mia vita, osservando me e gli altri. Un solo esempio: mia madre, che ha goduto di una salute perfetta per tutta la vita – mai un giorno al letto, nemmeno per un’influenza – si ammalò in un periodo di profonda depressione psichica. Lamentava un forte dolore all’orecchio. 

I medici si arrovellarono a lungo per capire quale era il suo problema, finché non scoprirono che aveva contratto un rarissimo batterio che – ci dissero – si può contrarre soltanto nelle sale operatorie con ferri non sterilizzati. 

Ovvio che mia madre non avesse mai messo piede in una sala operatoria (se si escludono i parti, decine di anni prima). La scienza ancora non sa nulla di come funziona il rapporto tra psiche e corpo. La medicina usa la parola stress – come si definisce scientificamente ? – quando non sa trovare un motivo valido perché una persona si ammali. 

Ma cos’è lo stress ? Cos’è la depressione ? E perché quando siamo di buon umore le cose sembrano andare meglio,  gli altri si accorgono di noi, abbiamo ‘fortuna’, e quando siamo stanchi sfiduciati e depressi, tutto va male, e il destino sembra accanirsi ? Mistero. 

Quel che il pensiero filosofico – e ultimamente anche quello della fisica moderna – sospetta è che la nostra percezione del mondo esterno sia molto strettamente legata all’essenza del mondo stesso. 

Senza arrivare all’eccesso di George Berkeley, il quale arrivò ad escludere l'esistenza assoluta delle cose: secondo il teologo irlandese infatti tutto ciò che esiste è o idea o spirito, quindi le cose non sono altro che le idee. Ma siamo sicuri che si sbagliasse ? Che prove ne abbiamo ?

Eppure, nonostante questo io – come tutti noi – mi continuo a comportare, nella mia vita di tutti i giorni, come se la mia mente fosse qualcosa di separato dal mondo.

Il secondo presupposto errato, sul quale si basa la mia vita, è che tutto quanto accade nella vita, si basa su un principio di stretta CAUSALITA’

Tutta la mia vita di uomo occidentale è governata dalla convinzione che ogni azione (della mia vita) causa una reazione, e ogni stimolo una risposta. Siamo talmente pervasi da questa mentalità, che qualsiasi cosa accade nella nostra vita, l’unica domanda che ci interessa è : “perché è successa ? da cosa dipende ? cosa ho fatto io ? O cosa non ho fatto ? “ 

Ci piace molto ragionare così perché in questo modo abbiamo la sensazione – che ci sembra confortante – di essere sempre in grado di controllare la situazione, di staccarci dal mondo esterno e di poter influire su di esso. 

Senonché questa convinzione viene continuamente minata, nella nostra vita, da eventi e cose che non possiamo controllare e che semplicemente ‘accadono’.

Il nostro atteggiamento allora è quello di assorbire questi eventi e cercare di sistemarli – se ci riusciamo – in un ordine di senso. Ma questo è molto limitato. 

Nella mia vita – come, immagino nella vita di tutti, se soltanto ci riflettete un attimo – sono capitati eventi ‘casuali’ che noi chiamiamo ‘coincidenze’, che hanno profondamente segnato il nostro cammino. Avvenimenti che NON HANNO UNA CAUSA. Dovevo andare al mare. Ma era brutto tempo. Ho cambiato strada, sono entrata in un negozio e lì ho trovato casualmente l’uomo della mia vita. Mi sono messa a parlare ‘casualmente’ con lui e … Chi è che ha ‘causato’ questo evento ? Nessuno. Eppure è successo. 

Sono quelle che Carl Gustav Jung chiamò con il termine – successivamente divenuto molto popolare – di ‘sincronicità’: eventi a-causali, senza una causa specifica, che si accompagnano a profonde esperienze emotive, e – di solito – a cambiamenti di vita importanti. 

Perché accadono queste ‘sincronicità’ ? Cosa vogliono da me ? Cosa mi raccontano ? E perché quello che accade nella mia mente è così importante, rispetto al mondo ? Mistero. Decisamente, la mia vita è un mistero. Soltanto che, troppo spesso, me ne dimentico. E vivo, come un naufrago di inizio millennio, come se tutto fosse scontato e tristemente chiaro. 


 Fabrizio Falconi - riproduzione riservata (C)(Foto in testa tratta da 'Solaris' di Andrej Tarkovskij).

11/05/09

La vita è un dono.


Rifletto da qualche tempo su questa semplice domanda:" La vita, la nostra vita, è un dono ?"Dalla risposta che diamo a questa domanda discendono molte conseguenze. Se rispondiamo che la Vita non è un dono, ma è una situazione 'già trovata', insomma casuale, le conseguenze sono di un tipo. Se rispondiamo che essa E' un dono (a prescindere, per il momento, dachi ce l'ha fatto) le conseguenze sono altre. Intendiamoci prima sul significato della parola 'Dono'.

Proprio qualche tempo fa su 'Avvenire' Paola Springhetti ha interrogato il filosofo francese Jean-Luc Marion proprio sulla 'filosofia del Dono'.

"Dono" dice Marion " è - lo sappiamo - UNO SCAMBIO SENZA CHE CI SIA UN PREZZO DA PAGARE. Ma l'interpretazione - aggiunge il filosofo - è insufficente. Il dono NON E' lo scambio tra due persone che stanno su di un piano di parità. Infatti lo SCAMBIO è reciproco, mentre il DONO non lo è. "Ora chiediamoci:" Qualcuno mi ha fatto UN DONO mettendomi al mondo ?"


La prima risposta che potremmo dare è che sì, sicuramente qualcuno ci ha fatto un dono - gradito o sgradito ora non ci interessa -mettendoci al mondo: e questi sono i nostri due genitori. Loro lo hanno fatto forse anche aspettandosi un 'ritorno': l'appagamento, la soddisfazione di vedere i figli crescere, la riconoscenza... ma non v'è dubbio che nell'istinto di procreare vi sia prima di tutto una percentuale di 'gratuità': la voglia di mettere al mondo una persona nuova. Un figlio che - come dice eloquentemente Gibran - è come una freccia che noi lanciamo, ma che poi nella vita cadrà dove vorrà, andrà dove vorrà.

E a questo proposito Marion ci dice: " Questo dono (il dono dei genitori che danno la vita ai figli) nonpuò essere ricambiato: un figlio potrà amare il padre, ma non potrà mai essere ciò che il padre è stato per lui. E proprio il susseguirsi delle generazioni ci parla del dono che apre alla vita, a nuovepossibilità, al futuro."
Ma passando dal piano della biologia a quello meta-fisico, la domanda "La vita è un dono ?" si complica. E potremmo formularla così: "La vita è un dono che Qualcuno - oltre ai nostri genitori - ci hafatto ? O è solo frutto del caso ?"

E' la stessa cosa che passa tra trovare per caso un portafoglio pieno di monete in strada, mentre camminiamo, o ricevere lo stesso portafoglio da un donatore, da qualcuno che "ha voluto" darcelo. Le conseguenze che si tirano, sono fondamentali, e le vediamo chiaramente nella nostra vita.

Una volta pensare che la vita sia un DONO di Qualcuno era la norma,era del tutto naturale. Chi viveva si sentiva 'in obbligo' verso questo misterioso donatore. Se ricevi un dono - non ci vuole Marion per capirlo - nasce un diverso sentimento: la tua responsabilità. Ti senti comunque 'in debito'.

Anche se sei il più irriconoscente, il più leggero degli uomini, sentirai dentro di te l'esistenza di questo lascito. Oggi invece il pensiero predominante sembra essere quello che la Vita non è un dono. Ma che la Vita l'abbiamo trovata per caso. E forse, di una cosa trovata per caso, non si sa bene neanche cosa farsene. Anche perchè il trovare una cosa per caso non cancella le domande.

Semmai ne fa scaturire di nuove:
"chi l'ha lasciata questa cosa ?"
"Da dove viene? "
"Cosa significa il fatto che io l'abbia trovata percaso ?"
Se hai un figlio, ti riesce difficile immaginare che la vita non sia un dono.

Tuo figlio ti guarda negli occhi, e ti chiede conto ogni giorno:"padre, grazie, " oppure: "padre, perchè?" o ancora "padre è giusto ?" "padre è sbagliato?"

Ti domanda, un figlio.Ti chiede, sempre, e non si stanca.Nello stato in cui siamo invece, sembra che queste domande, meta-fisicamente, non riusciamo più a porcele. C'è solo un vago rimestare:" se io non ho ricevuto nessun dono, non sono in obbligo con nessuno,non DEVO RENDER conto a nessuno. "


Ma subito dopo la frenesia di libertà che questa constatazione genera,sorge il grande vuoto, che inghiotte anche le altre domande. Se la mia vita NON è un dono, allora non ha nemmeno senso.Perchè E' il dono che stabilisce un senso, una direzione.

La vita è a mio umile avviso, troppo forte, troppo piena di senso,troppo drammatica, troppo 'direzionale', troppo viva, troppo vera, per NON essere un dono.

26/11/10

Maupassant - La passività, la mancanza di coraggio: un tema moderno.



Ho finito da poco di rileggere 'Una vita', di Guy de Maupassant. E, ancora una volta, ho avuto conferma che da un romanzo classico si possono trarre utili insegnamenti per la nostra vita, la vita di oggi.

Una vita scuote nel profondo, perché mette a confronto i disastri che sorgono tra una vita immaginata e idealizzata (quella di Giovanna, la protagonista, 'prima' di entrare nella vita, e cioè quando è chiusa in convento, dove i genitori l'hanno chiusa per preservarla e prepararla al futuro) e la vita reale. L'isolamento di Giovanna, la sua 'preparazione' nel convento, ne ha fatto una impreparata alla vita. Ella è convinta che un destino solare l'attenda: non può essere altrimenti. E il viaggio verso 'il Castello' - la casa avita - in quella terribile giornata di pioggia (che pure sembra un presagio) è per lei tutto un incantamento.

Da qui, nasce il suo lungo calvario di disillusioni, una più amara dell'altra.

Ma Giovanna, non è per me innocente. Per tutto il romanzo si aspetta la 'reazione' di Giovanna (è esattamente lo stato d'animo in cui Maupassant mette il lettore), ma la reazione di Giovanna, per l'appunto, NON ARRIVA MAI.

Giovanna è una passiva. Il suo atteggiamento ai limiti dell'ignavia, genera e amplifica tutte le disgrazie che le arrivano: accetta Giuliano senza nemmeno conoscerlo, passivamente. Passivamente si fa trasportare da una idea di amore coniugale (che del resto subito si dimostra falsissima). Passivamente accetta il tradimento con la serva (con tanto di figlio illegittimo) subito convinta dal pistolotto del curato (quello 'buono' è quasi più insopportabile e odioso dell'esaltato Tobiac). Passivamente accetta il nuovo tradimento con la contessa che avviene sotto i suoi occhi e che finge di non vedere, consolata dall'arrivo del figlio. Passivamente si concede perfino per un secondo figlio, nonostante la conclamazione del tradimento ! Passivamente accetta che sia l'energumeno marito della contessa a togliere di mezzo i due fedifraghi. Passivamente giunge perfino a rimpiangere il marito (un essere totalmente meschino). Passivamente riversa ogni sua frustrazione sull'unico bene rimastole del figlio, viziandolo in ogni modo.

Passivamente accetta che anche il figlio si dimentichi di lei (aspetta un tempo immemorabile prima di metterlo di fronte a quello che ha combinato). E passivamente accetta il risarcimento tardivo della sorte, con quel fagotto che le piove dal cielo.

Giovanna non può lamentarsi: ha avuto dalla vita quel che ha dato, cioè NULLA.
Rosalia, la serva, è l'esempio, opposto, di chi, pur segnato dalla vita, la prende per mano, la affronta: non si bea delle avversità, non si piange addosso, non si sente vittima perché ha troppo idealizzato la vita. Come enuncia alla fine, la vita per lei "non è nè bella, nè brutta". E' la vita, appunto. E va vissuta.

Non c'è niente di peggio, che prendere la propria vita e chiuderla in un cassetto. E' forse il peccato più grande che possiamo fare, di fronte alla vita che abbiamo ricevuto.

Il difetto più grande di Giovanna è dunque proprio quello che appare, anche nella nostra contemporaneità, un limite im-perdonabile: la mancanza di CORAGGIO.

22/04/15

"La morte? Risorgeremo tutti !" - intervista di Piergiorgio Odifreddi a Frank J. Tipler, uno dei più grandi fisici moderni.

La Galassia denominata "Eye of God", o Nebulosa Helix (Elica) si trova a 650 milioni di anni luce dalla Terra.

"La morte ? Risorgeremo tutti. " Intervista di Piergiorgio Odifreddi a Frank Tipler, uno dei più grandi fisici moderni. 

Arrivederci in Paradiso 

Nel 1961 il premio Nobel per la fisica Paul Dirac formalizzò nel postulato della vita eterna un suo desiderio: che la vita continui nell'Universo fino allo scadere del tempo. Visto però che il nostro pianeta è destinato a scomparire piuttosto presto, in senso cosmico, per essere seguito alla breve dall'intero sistema solare, il postulato richiede che la vita continui in altri modi e luoghi: il problema è sapere come e dove. La fantascienza si era sbizzarrita a dare risposte preventive a queste domande, ma la novità è che ora sono gli scienziati a farlo. Il primo ad affrontarle seriamente è stato il noto fisico Freeman Dyson, che in Infinito in ogni direzione' (Rizzoli, 1989) ha divulgato una serie di speculazioni sostenute da effettivi calcoli, basate sulle ipotesi che la vita sia un fenomeno essenzialmente organizzativo, indipendente dal substrato fisico-chimico, e che essa si possa adattare nel tempo a qualsiasi condizione ambientale. Le conclusioni di Dyson sono che la vita non può sopportare un Big Crunch, cioè un'implosione finale simmetrica all'esplosione iniziale del Big Bang. Quindi la sua durata indefinita richiede un universo aperto, infinito nello spazio e nel tempo, e in eterna espansione. In tali condizioni la vita potrà pulsare sempre più lentamente, senza però mai fermarsi, anche se essa sarà costretta a smaterializzarsi progressivamente: trasferendosi, ad esempio, in nuvole di polvere interstellare.

Più recentemente, Frank Tipler ha proposto ne La fisica dell'immortalità (Mondadori,1995) una teoria alternativa: che la vita sia invece incompatibile con un universo aperto, e che la sua sopravvivenza richieda dunque un Big Crunch. L'abbiamo intervistato per sentire direttamente da lui lo sviluppo di questa storia.

D.Che cosa critica, lei, nel modello di Dyson della vita nel futuro remoto?
R. Nel suo modello, che tiene conto della relatività ma non della meccanica quantistica, la vita continua in eterno. Ma solo in una piccola parte dell'universo, che nel frattempo si espande e si raffredda indefinitamente. C'è una contrazione energetica, a fronte di un'espansione spaziale, che rende la vita futura sempre più lenta e noiosa.

D.Che succede, invece, nel suo modello?
R. L'esatto contrario. Una contrazione spaziale, ma un'espansione energetica. Il che significa che tutto sarà più eccitante. Io prevedo che la vita riempirà l'intero universo e ne assumerà il controllo, diventando onnipotente. E che acquisterà sempre maggiori conoscenze, per poter sopravvivere, diventando onnisciente.

D. Suona un po' come fantascienza, e un po' come religione. Che, d'altronde, sono due facce di una stessa medaglia.
R. La vita onnipotente e onnisciente dell'estremo futuro si può effettivamente identificare con Dio. Io ci arrivo in maniera scientifica, ma si può arrivarci anche attraverso la Bibbia. Quando Mosè chiede a Dio quale sia il suo nome, la risposta nell'originale ebraico è: “Io sono colui che sarà''. Dio stesso si definiva come l'estremo futuro.

D. : Io trovo molto sospetto che lei pretenda di procedere scientificamente, e poi trovi concordanze non in una religione generica, ma nella specifica tradizione monoteistica occidentale.
R.: Io invece lo trovo irrilevante. Sono concordanze a posteriori. Se non ci fossero, direi: “tanto peggio per la Bibbia”. L'importante è mettere la fisica al centro, non la religione. Ad esempio, quand'ero studente alla fine degli anni sessanta, il mio professore Steven Weinberg mi diceva che la teoria del Big Bang era sbagliata perché somigliava troppo alla Genesi. Questo era un modo di dare priorità alla religione, invece che alla fisica.

D.: Che ne pensano i teologi delle sue teorie? Per esempio, è stato invitato al Giubileo degli Scienziati?
R.: Certo che no! Io dico cose certe e precise su Dio. Non sono come gli scienziati che vincono il Premio Templeton. Dyson, per esempio, che è agnostico e di Dio non vuole parlare. O Paul Davies, che lo mette nei titoli dei suoi libri ma non all'interno. Io dico chiaramente che Dio è ciò in cui l'universo si evolve, secondo le leggi della fisica.

D. : Dunque Dio non sarebbe l'Alpha, ma l'Omega. Non il Creatore, ma il Terminator. Non dovrebbero però essere la stessa cosa, se leggi della fisica sono invarianti rispetto alla direzione temporale?
R.: Si può pensare che il tempo vada avanti o indietro. È come pensare alla Terra al centro del Sistema solare, oppure come un pianeta attorno al Sole. Dal punto di vista matematico, si tratta solo di un cambiamento del sistema di coordinate. Ma il sistema copernicano è molto più semplice di quello tolemaico, e si capisce molto meglio. La stessa cosa avviene con Dio.

D.: Prima lei ha detto che la vita invaderà l'intero universo. Come potrà farlo? Certo non con organismi come i nostri.
R.: La vita è iniziata da microrganismi, tre miliardi di anni fa, e si è espansa e diversificata. Nessuna specie sopravvive indefinitamente: lo sapeva già Darwin. I nostri discendenti saranno molto diversi da noi. Io li immagino come supercomputer, piuttosto che come organismi. Il DNA non sopravvive alle alte temperature che ci saranno con la contrazione dell'universo, mentre l'informazione può essere codificata in mille modi.

D. : Se la vita del futuro sarà così diversa dalla nostra, perché la cosa dovrebbe interessarci?
R. :Con computer sufficientemente potenti, si potrebbe emulare la vita umana. Nel senso di riprodurla esattamente, in maniera perfetta. I nostri discendenti ci riporteranno in vita con l'emulazione, e non moriremo più. Ecco perché la cosa dovrebbe interessarci.

D.: Questa sarebbe la resurrezione dei morti?
R. : Certo. E possiamo dedurla dalla fisica. Non c'è bisogno della fede.

D. : A me sembra, più che altro, una versione della Realtà Virtuale.
R. : Sarebbe una Realtà Virtuale perfetta, non come quella che abbiamo oggi e che non inganna nessuno.

D. : E se fossimo già ora parte di una Realtà Virtuale? Se quello che lei dice fosse già avvenuto?
R. : Sarebbe un imperativo morale di coloro che ci emulano farcelo sapere, oltre che trattarci bene. E io credo che lo faranno, perché la moralità va di pari passo con la conoscenza. Più gli esseri sono intelligenti e colti, e più sono morali.

16/02/09

Ancora su Eluana: " L'etica di fronte alla vita vegetale " di Vito Mancuso.


Cari amici, a ulteriore integrazione di commenti illuminati sulla vicenda Eluana - che, come da copione, nel panorama schizofrenico del mondo dei media italiano è già stata metabolizzata e cancellata nel grande inceneritore delle notizie - ecco quanto ha scritto Vito Mancuso, su La Repubblica del 13 febbraio scorso, in un articolo in prima pagina intitolato: "L'etica di fronte alla vita vegetale. "


Se le circostanze non fossero tragiche, si potrebbe dire alla Chiesa gerarchica dei nostri giorni, con una leggera ironia e una pacca sulla spalla: "Dio esiste ma non sei tu, rilassati". Il problema infatti è anzitutto nervoso. Riguarda il controllo dei sentimenti e delle passioni. Un controllo che la direzione spirituale sapeva insegnare agli uomini di Chiesa di un tempo, e che invece oggi sembra smarrito. Assistiamo allo spettacolo di una Chiesa isterica: che non è amareggiata ma arrabbiata, che non parla ma grida, anzi talora insulta, che non suggerisce ma ordina, che non critica ma impone alzando la voce, o facendo pressioni su chi tiene il bastone del comando.

Non discuto la buona intenzione di combattere per la giusta causa, mi permetto però di dubitare sullo stile e più ancora sull' efficacia evangelizzatrice di tale battaglia. L' unico "cardinale" che ha pronunciato parole sagge e coraggiose è stato Giulio Andreotti, quando ha giudicato il decreto governativo un' indebita invasione nella sfera privata delle persone. Andreotti è uno dei rari cattolici che ancora ricorda e pratica la capitale distinzione tra etica e diritto, che è, a mio avviso, il punto decisivo di tutta la questione. Personalmente ero contrario all' interruzione dell' idratazione di Eluana.

Se mi trovassi io a vivere una condizione del genere (o peggio ancora uno dei miei figli) vorrei che mi si lasciasse al mio posto di combattimento nel grande ventre della vita anche con la sola vita vegetale: nessun accanimento terapeutico, ma vivere fino in fondo la vita lasciandomi portare dall' immenso respiro dell' essere, secondo la tradizionale visione della morale della vita fisica non solo del cattolicesimo ma anche delle altre grandi tradizioni spirituali.

Chissà poi che cosa significa "vita vegetale": da precisi esperimenti è risaputo che anche le piante provano emozioni, e reagiscono con fastidio a un certo tipo di musica e con favore a un altro (dicono che la preferita sia la musica sacra indù della tradizione vedica). La vita vegetale è una cosa seria, ognuno di noi la sta vivendo in questo momento, basta considerare la circolazione del sangue, il metabolismo, il sistema linfatico. Il fatto, però, è che non si trattava di me, ma di Eluana, e che ciò che è un valore per me, non lo era per lei. Una diversa concezione della vita produce una diversa etica, e da una diversa etica discende una diversa modalità di percepire e di vivere le situazioni concrete, così che ciò che per uno può essere edificazione, per un altro si può trasformare in tortura. Si pensi alla castità, alla clausura, al martirio e ad altri valori religiosi, che per alcuni non sono per nulla valori ma un incubo spaventoso solo a pensarli.

Il padre di Eluana ha lottato per liberarla da ciò che per lei era una tortura, ed è probabile che la conoscesse un po' meglio del ministro Sacconi e del cardinal Barragan. Grazie allo stato di diritto, alla fine l' ha liberata. Io non sono d' accordo? È un problema mio, non si trattava di me, ma di lei. Tutto molto semplice, come sempre è semplice la verità. Ora aspettiamo una legge sul testamento biologico, e io penso che il compito dello Stato sia precisamente quello di produrre, a partire dalle diverse etiche dei cittadini, una legge ove tutti vedano riconosciuta la possibilità di vivere e di morire secondo la propria concezione del mondo.

Se lo Stato fa questo, realizza la giustizia, che, com' è noto, consiste nel dare a ciascuno il suo. La distinzione tra etica e diritto è decisiva. A questo punto però sento la voce di Benedetto XVI che rimprovera questa mia prospettiva di "relativismo" in quanto privilegia la libertà del singolo a scapito della verità oggettiva. È mio dovere cercare di rispondere e lo faccio ponendo una domanda: Dio ha voluto oppure no l' incidente stradale del 18 gennaio 1992 che ha coinvolto Eluana? A seconda della risposta discende una particolare teologia e una particolare etica. Io rispondo che Dio non ha voluto l' incidente. L' incidente, però, è avvenuto. In che modo allora il mio negare che Dio abbia voluto l' incidente non contraddice il principio dell' onnipotenza divina? Solo pensando che Dio voglia sopra ogni cosa la libertà del mondo, e precisamente questa è la mia profonda convinzione.

Il fine della creazione è la libertà, perché solo dalla libertà può nascere il frutto più alto dell' essere che è l' amore. Ne viene che la libertà è la logica della creazione e che la più alta dignità dell' uomo è l' esercizio della libertà consapevole deliberando anche su di sé e sul proprio corpo. È verissimo che la vita è un dono di Dio, ma è un dono totale, non un dono a metà, e Dio non è come quelli che ti regalano una cosa o ti fanno un favore per poi rinfacciartelo in ogni momento a mo' di sottile ricatto.

Vi sono uomini di Chiesa che negano al singolo il potere di autodeterminazione. Perché lo fanno? Perché ospitano nella mente una visione del mondo all' insegna non della libertà ma dell' obbedienza a Dio, e quindi sono necessariamente costretti se vogliono ragionare (cosa che non sempre avviene, però) a ricondurre alla volontà di Dio anche l' incidente stradale di Eluana. Delle due infatti l' una: o il principio di autodeterminazione è legittimo perché conforme alla logica del mondo che è la libertà (e quindi l' incidente di Eluana non è stato voluto da Dio); oppure il principio di autodeterminazione non è legittimo perché la logica del mondo è l' obbedienza a Dio (e quindi l' incidente è stato voluto da Dio). Tertium non datur.

Per questo io ritengo che la deliberazione della libertà sulla propria vita non solo non sia relativismo, ma sia la condizione per essere conformi al volere di Dio. Il senso dell' esistenza umana è una continua ripetizione dell' esercizio della libertà, a partire da quando abbiamo mosso i primi passi, con nostra madre dietro, incerta se sorreggerci o lasciarci, e nostro padre davanti, pronto a prenderci tra le sue braccia. In questa prospettiva ricordo alcune parole del cardinal Martini: «È importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all' uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona... La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto».

Il valore assoluto è la dignità della vita umana che si compie come libertà. Sarebbe un immenso regalo a questa nazione lacerata se qualche esponente della gerarchia ecclesiastica seguisse l' esempio della saggia scuola democristiana di un tempo esortando gli smemorati politici cattolici dei nostri giorni al senso della laicità dello stato. Li aiuterebbe tra l' altro a essere davvero quanto dicono di essere, il partito "della libertà". Che lo siano davvero e la garantiscano a tutti, così che ognuno possa vivere la sua morte nel modo più conforme all' intera sua vita.

VITO MANCUSO

28/10/13

Il distacco (e il Senso).





Ieri sera ho sentito in televisione Eugenio Scalfari, che ormai da parecchio tempo, ama rivestire i panni del teologo (disquisisce di questioni cattoliche con la competenza di un vescovo), parlare della morte e del senso della vita.  Senza molti problemi ha affermato che "il senso della vita è la vita".  E che l'unica difficoltà, in fondo, è il distacco.

Anni fa ho letto uno straordinario libretto di Michel Serres, intitolato Distacco.

Cosa è esattamente il distacco ? E perché le diverse tradizioni mistiche fanno riferimento a questo ?

Il termine mistico deriva dal greco myo. Che significa letteralmente chiudere (le labbra, gli occhi, lo stesso chiudersi, ad esempio, delle ferite).

Dalla stessa radice my , d’altronde, provengono sia il greco mysterion , sia il latino mutus

La mistica nasce dunque dalla necessità – per l’uomo – di convivere con il chiudere, cioè con il finire, che è connaturale alla vita stessa.

La cosa più difficile per un uomo, per ogni uomo è accettare il distacco

Il distacco che è al termine di ogni vita. Distacco dalle cose che abbiamo amato su questa terra: beni, cose, immagini, ma soprattutto persone amate, sentimenti, emozioni, ricordi. 

Le religioni propongono approcci diversi per governare questo distacco, che all’uomo risulta doloroso, inaccettabile: una specie di dittatura della morte, che porta a privarsi di tutto ciò che si è sperimentato in vita. 

Se l’uomo religioso, soprattutto in ambito cristiano, tenta di  abbandonarsi al distacco rispetto al mondo, al fine di giungere a un rapporto più puro con quel Dio con il quale, in realtà, egli si sente o si vuol sentire già in rapporto, il buddhista, invece, si distacca dalle cose, dalla sfera dell’apparenza, per trovare il vero sé: per giungere, in altre parole, all’illuminazione.

In un certo senso, il buddhista si esercita – nella vita – si prepara al grande distacco della morte, sperimentandolo qui in vita.

Ma anche molte delle parole pronunciate da Cristo nei Vangeli spingono assai chiaramente nella direzione del non attaccamento: 

In verità, in verità vi dico: Se il grano di frumento caduto per terra non muore esso resta solo. Ma se muore, porta molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. (Gv,12,24) 

 Più esplicito (o più duro) di così.. 

Tutto quello che passiamo in questa vita (anche il sorriso dei nostri figli, anche i nostri amori, le nostre albe, e i nostri tramonti) dovrebbe dunque avere una prospettiva diversa da quella che noi immaginiamo qui. 

Che non può essere goduta appieno, se non distaccandosene. 


30/11/09

La vecchiaia e la Sintesi di una Vita - Vito Mancuso rilegge Wittgenstein.

Vorrei oggi riportarvi questo bellissimo articolo, scritto da Vito Mancuso, che racchiude alcune delle ultime riflessioni del Card. Carlo Maria Martini. Penso ci sia davvero molto su cui meditare. A partire dalla vicenda descritta all'inizio dell'articolo che sfiora una delle personalità centrali del Novecento filosofico, Ludwig Wittgenstein.

LA SINTESI DI UNA VITA

Nei primi mesi del 1916 Ludwig Wittgenstein, volontario nell' esercito austriaco, si trovava in Galizia sul fronte orientale col reggimento impegnato a sostenere il più grande attacco nemico, la cosiddetta Offensiva Brusilov. In mezzo a perdite altissime la sua azione dovette essere di un certo rilievo visto che il 1° giugno venne promosso caporale e il 4 decorato al valor militare. Pochi giorni dopo, l' 11giugno, colui che diventerà uno dei più grandi logici e filosofi delNovecento, annota sul suo quaderno: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. Pregare è pensare al senso della vita».

Io penso che per ogni essere umano la vecchiaia sia paragonabile a una trincea della Prima guerra mondiale. Sono finite le cerimonie, le marce, le sfilate, gli inni, le retoriche che fanno da preambolo non solo alla vita militare delle retrovie, ma anche alla vita quotidiana nella gran parte dei suoi momenti. Giunge il momento del redde rationem, il leopardiano «apparir del vero». Chi arriva alla vecchiaia non ha più nessuno davanti, è in prima linea sul fronte dell' essere o del nulla. E penso sia naturale in questa stagione dell' esistenza guardare al senso complessivo della vita, della propria e di tutti gli amici che si sono visti cadere, con un'intensità esistenziale paragonabile a quella di un soldato in trincea.

Ciò che Wittgenstein percepì a 27 anni di fronte al fuoco dell'esercito russo ogni uomo che prenda sul serio l' esistenza è destinato a sperimentarlo quando inizia a sentire arrivare il termine dei suoi giorni. Non è un caso quindi che il cardinale Carlo Maria Martini,riflettendo sulla preghiera dall' alto dei suoi 82 anni, abbia sentito anzitutto il richiamo di un grande vecchio della letteratura biblica quale Qohèlet ricordandone la celebre descrizione allegorica degli effetti fisici della vecchiaia, quando le mani («i custodi dellacasa»), le gambe («i gagliardi»), i denti («le donne che macinano»), gli occhi («quelle che guardano dalle finestre»), le orecchie («ibattenti sulla strada») non funzionano più come prima, preludio al momento in cui l' uomo se ne andrà "nella dimora eterna".

In questa prospettiva la preghiera di chi è anziano per Martini è anzitutto ricerca di consolazione interiore di fronte alla crescente fragilità che la vecchiaia comporta, è richiesta della ragione e del sentimento che un senso definitivo della vita ci sia e che a questo senso si possa personalmente partecipare. Il cardinal Martini però aggiunge un'ulteriore considerazione sulla preghiera di chi è anziano, rivolta ora non più al futuro ma al passato, e qui a mio avviso egli tocca il momento più alto del suo scritto.

Mi riferisco a quando egli parla degli anziani come di coloro che hanno raggiunto «una certa sintesi interiore» e che per questo possiedono «uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza». Aver compiuto un lungo cammino non significa solo vederne la fine, significa anche potersi voltare e vederne per intero il percorso. Da questa altezza può scaturire «una lettura sapienziale della storia e del mondo», per descrivere la quale Martini giunge a coniare in perfetto stile evangelico una vera e propria beatitudine, una nona beatitudine che non sfigurerebbe come prosieguo delle otto beatitudini proclamate da Gesù nel celebre Discorso della montagna: «Beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente inconfronto con quelli passati!». Martini sa bene che il giudizio negativo sul presente è una delle tipiche malattie che affliggono lo spirito della vecchiaia, quando la consapevolezza che presto per sé sarà la fine conduce spesso a un rapporto amaro e risentito con ilpresente, valutato solo come progressiva decadenza rispetto "ai miei tempi".

Ma il cardinale aggiunge che a un uomo può capitare di peggio,cioè di guardare indietro alla propria esistenza e di vedere solo macerie (talora anche le ricchezze e gli onori ricevuti non sono altroche macerie perché costruiti con la frode e a prezzo dell' onestà personale). Ne viene che non solo il futuro ma anche il passato
risultano avvolti da un disperato senso di vuoto. Può capitare, e se capita è forse la più grande disgrazia per la vita di un uomo. Per questo «beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio», cioè come dotato di senso, di logicità, di sincerità, di rettitudine.

Pregare è pensare al senso della vita, scriveva Wittgenstein; pregare è pensare con riconoscenza e con gioia alla storia della propria vita, aggiunge il cardinal Martini. Felice quindi chi ha lavorato su di sé per essere in grado di coltivare questi sentimenti, essendo diventato così libero dal proprio ego da poter dire grazie alla vita anche al cospetto della fine cui il proprio ego inevitabilmente va incontro.

Per quanto concerne la modalità concreta della preghiera, Martini ne distingue due forme fondamentali, quella vocale fatta di recitazione di formule e di partecipazione alla liturgia comunitaria, e quella mentale, più personale, intima, colloquiale. Egli dice che generalmente col progredire dell' età «diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione» e quindi aumenta la preghiera vocale, con la conseguenza che si ritorna a pregare quasi come si faceva da bambini,quando si ripetevano formule misteriose sentite dai grandi. Si trattadi una considerazione molto cattolica da cui emerge il valore dellacomunità. Nella trincea di fronte all' essere e al nulla non si è da soli, ma si può contare sulla relazione con altri, su ciò che ladottrina chiama "comunione dei santi", e che a me, e penso anche al cardinal Martini, piace allargare abbracciando santi per nulla canonici, tra cui il caporale Wittgenstein e tutti i giusti che primadi noi hanno lasciato questo mondo.

VITO MANCUSO

18/02/20

La buona vita non è non avere rimpianti, non avere rimorsi




Non il dire che si è vissuta una vita senza rimpianti o senza rimorsi, ma il contrario, è secondo me l'indice dell'aver vissuto una buona vita

Viviamo immersi dentro una retorica narcisistica che ci esalta sulla chimera dell'essere noi "padroni assoluti del nostro destino", insufflata da quell'altra finta epica esistenzialista delle canzoni - da My way a Je ne regrette rien - che decreta il trionfo assoluto delle scelte - giuste o sbagliate che siano non importa - come orgoglio di una vita degna di essere vissuta

Ma invece non la mancanza di rimpianti o rimorsi, ma il fatto di averli vissuti, elaborati e superati (quelli che possono esserlo) è motivo di gioia e di vanto, nella economia di una vita. 

Una vita senza rimpianti e senza rimorsi non è possibile, non è autentica e non è nemmeno una bella vita, perché non è umana

Essere umani vuol dire essere fragili, vuol dire anche cadere e sbagliare, vuol dire spesso giudicare male le persone che si hanno vicine, vuol dire non essere grati, non mostrare l'amore che serve, fare del male anche quando non si vorrebbe farlo

Non nutrire rimpianto o rimorso per questo è, questo sì, inumano. La vita non è NON AVERE RIMPIANTI. La vita- il senso vero della vita - è avere e avere avuto una vita consapevole, cioè autentica; anche nel rimorso, anche nel rimpianto.

Fabrizio Falconi
- febbraio 2020

26/03/12

La morte secondo Carl Gustav Jung (Liber Novus / Libro Rosso)



La lettura del Libro Rosso di Carl Gustav Jung è come addentrarsi in una miniera ricolma di gemme.   In questa pagina, che riporto a beneficio dei lettori di questo blog, una delle più potenti meditazioni - a mio avviso - sul significato e sul mistero della morte e del morire,  e della relazione della morte e del morire con la nostra vita. 

Per vederci chiaro ci è necessario il rigore della morte. La vita vuole vivere e morire, iniziare e morire. Non sei obbligato a vivere in eterno, ma puoi anche morire, perché c'è in te la volontà per tutte e due. Vita e morte devono bilanciarsi nella tua esistenza (*).

Gli uomini odierni hanno bisogno di un'ampia porzione di morte, perché in loro vivono troppe cose ingiuste, e troppe cose giuste muoiono in loro.  Giusto è chi mantiene l'equilibrio, sbagliato ciò che lo turba.  Ma una volta che l'equilibrio sia raggiunto allora è sbagliato ciò che mantiene l'equilibrio, e giusto ciò che lo turba.  Equilibrio è vita e morte allo stesso tempo.    Per la completezza della vita ci vuole un equilibrio con la morte.  Se accetto la morte, il mio albero rinverdisce, perché il morire esalta la vita.   Quando mi sprofondo nella morte che abbraccia il mondo intero, allora sbocciano i miei germogli.   Quanto la nostra vita ha bisogno della morte ! 

Proverai la gioia delle piccole cose solo se avrai accettato la morte.  Se invece ti guardi intorno avidamente in cerca di tutto ciò che potresti ancora vivere, allora nulla sarà mai grande abbastanza per il tuo piacere, le piccole cose che costantemente ti circondano non ti daranno più gioia.  Contemplo perciò la morte, perché essa mi insegna a vivere.

Se accogli in te la morte, essa è come una notte di brina e un presagio di sgomento, ma è una notte di brina che scende su un vigneto ricolmo di dolci grappoli. Presto sarai felice della tua ricchezza.  La morte fa maturare.  C'è bisogno della morte per poter raccogliere i frutti.  Senza la morte la vita non avrebbe senso, perché ciò che dura a lungo torna a eliminarsi da solo e nega il proprio significato.  Per esistere e godere della tua esistenza ti è necessaria la morte, e questa limitazione ti consente di portare a compimento la tua esistenza. 

(*)  nel manoscritto posteriore Jung prosegue questa frase così: "L'arte del vivere ciò che è giusto e lasciar morire ciò che è ingiusto."  Nel 1933 scrive: "La vita è un fluire di energia. Ma ogni processo energetico è irreversibile per principio e quindi diretto in modo univoco verso una meta: e tale meta è uno stato di riposo (...)  Nella seconda metà dell'esistenza rimane vive soltanto chi, con la vita, vuole morire.  Perché ciò che accade nell'ora segreta del mezzogiorno della vita è l'inversione della parabola, è la nascita della morte (...) "Non voler vivere" e "non voler morire" sono la stessa cosa.  Divenire e passare appartengono alla stessa curva"  (Anima e Morte, 1934, pp. 436-37)


Liber Novus/Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2009, pag. 274.

13/08/10

"E Voi, Amatevi di più !" un testo da meditare a lungo, di Lev Tolstoj.

Nella sterminata produzione tolstojana c'è sempre qualche piccola gemma da scoprire o riscoprire. Questo testo, quasi del tutto sconosciuto in Italia, è una sorta di breve testamento spirituale, lasciato dal grande scrittore tre anni prima di morire. E' un testo straordinario, che meriterebbe di essere scolpito nel cuore di ognuno, e di essere condiviso il più possibile e meditato. E' un piccolo regalo de 'Il mantello di Bartimeo' per la vostra vacanza.


Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta.

Tutto dipende da come uno concepisce la propria esistenza. Se uno pensa: tutta la vita è nel mio corpo, cioè il corpo di Ivan, Pietro, Maria e lo scopo della vita consiste nel procurare la maggior quantità di piaceri e soddisfazioni a questo mio io, cioè a Ivan, Pietro, Maria, allora la vita sarà sempre e per tutti infelice e amara.

Essa sarà infelice e amara, perché tutto quello che ciascuno vuole per sé, lo vogliono anche tutti gli altri per loro. Se ciascuno vuole ogni genere di beni materiali per sé e nella maggior quantità possibile, siccome questi beni sono limitati, essi non saranno mai sufficienti per tutti. E perciò quando gli uomini vivono, pensando ciascuno solo a se stesso, non possono fare a meno di portarsi via l’un l’altro questi beni, di lottare ed essere nemici tra loro: per questo la loro vita diviene infelice. La vita ci è stata data perché sia per noi un bene e noi questo ci attendiamo da lei. Ma perché sia così, dobbiamo capire che la vera vita non è nel corpo, ma in quello spirito che abita dentro il nostro corpo, dobbiamo capire che il nostro bene non consiste nei piaceri del corpo e nel fare ciò che chiede il corpo, ma nel fare ciò che esige quell’unico spirito, che abita in tutti noi.

Questo spirito vuole il suo proprio bene, cioè il bene dello spirito, e poiché questo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice.

Di conseguenza gli uomini, per quanto facciano, non sono mai in grado di soddisfare i loro desideri materiali, perché ciò che serve al corpo non sempre è possibile procurarselo e per procurarselo bisogna lottare contro gli altri; al contrario, l’anima, che ha bisogno solo d’amore, può essere soddisfatta facilmente: per amare non dobbiamo lottare contro nessuno, anzi più amiamo, più andiamo d’accordo con gli altri.

Nulla poi ostacola l’amore e più uno ama, più diventa felice e allegro, non solo, ma rende felici e allegri anche gli altri. Ecco, cari fratelli, quello che volevo dirvi, prima di lasciare questa terra.

Al giorno d’oggi si sente dire da ogni parte che la nostra vita è amara e infelice perché mal organizzata, dobbiamo trasformare le strutture sociali e la nostra vita diverrà felice. Non credete assolutamente a ciò, cari fratelli !

Non illudetevi che l’una o l’altra struttura sociale migliorerà la nostra vita. Intanto, tutte queste persone, che si stanno impegnando per migliorare l’organizzazione della società, non sono d’accordo fra loro. Gli uni propongono un progetto come il più adatto, gli altri affermano che quello è pessimo e che solo il loro va bene, i terzi bocciano anche questo e ne propongono uno ancora migliore.

Poi, anche ammettendo che si trovasse l’organizzazione sociale ideale, come farla accettare da tutti, e come realizzarla, se la gente è piena di vizi ?

Per costruire una vita migliore, devono divenire migliori i singoli individui.


Lev Tolstoj – ‘Amatevi gli uni gli altri’ – scritto nel 1907, tre anni prima della morte.




12/11/15

Oltre la Mente - La vita a scartamento ridotto.





Due cose realizzano la vita: la consapevolezza e la pienezza. 

Si possono vivere grandi emozioni, grandi sensazioni (ancora più epidermiche), ma se non si è consapevoli di ciò che (si) vive, tutto scorre senza lasciare traccia, tutt'al più pallidi ricordi. 

Ciò avviene perfino per le sofferenze.  Nella nostra vita ce ne sono di molte inautentiche. Crediamo di star male per quel motivo, molto spesso banale. Invece l'origine del malessere è di tutt'altra natura.  Le sofferenze inautentiche infatti, sono definite da Carl Gustav Jung, come nevrosi. 

Anche discernere una vera sofferenza, dunque, si può fare soltanto se si è consapevoli di essa.  Di cosa è che la fa scaturire, di cosa e perché (ci) provoca quella reazione. 

Allo stesso modo avviene con la pienezza.  Sono molti gli stati d'animo della vita, che rimangono tali. Sono stati dell'animo, appunto.  Che vanno e vengono, che piegano a sinistra e a destra la bandierina della nostra anima, come fa la rosa dei venti. 

Ma noi non siamo (solo) stati d'animo.  L'essere umano è fatto di ben altra profondità, che lo rende grave nella sua condizione terrestre, ovvero pesante, radicato al suolo, bisognoso di trovare (e di rendere consapevoli) le sue radici. 

In questo senso, la pienezza è qualcosa che trascende la vita, rendendola degna di essere vissuta, e non soltanto attraversata. Più leggo i pessimisti, più amo la vita, scriveva Cioran (in Lacrime e santi). E se c'è uno che si intende di pessimismo, questo è lui. 

Questo amore per la vita, per la follia della vita, per la imprevedibilità della vita, per la sua forza trascinante è appunto la pienezza.   Anche la sofferenza contribuisce a questo.  La sofferenza, scrive anzi Dostoevskij, è la causa unica e sola della coscienza. 

Ed è molto velleitario pensare di poter raggiungere la pienezza della vita, senza conoscere la (vera) sofferenza.  La sofferenza, anzi, è la stessa misura della pienezza. Come una cartina di tornasole, infatti, la sofferenza rende vero, per contrasto, il piacere, rende vero, per contrasto, lo stare bene, il sentirsi in sintonia con l'onda della vita. 

Senza sofferenza, senza autenticità, e quindi senza consapevolezza e senza pienezza, si vivono vite a scartamento ridotto.  Si vive funzionando, come una macchina, un puro corpo biologico. 

Su questo binario a scartamento ridotto, il panorama è monotono, è sempre uguale: quel che vediamo scorrere dal finestrino, non ci appassiona e non ci scuote. Ci lascia indifferenti. 

Per questo bisogna avere il coraggio di scegliere il binario più veloce, quello che rischia di scaraventarti fuori e di perderti, ma che scuote e incoraggia, dispone prove e concede la forza per superarle. 


Fabrizio Falconi
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foto in testa dell'autore


10/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 9. SEMPLICITA'


Dovrò essere consapevole che nessun senso può essere trovato nel caos, a meno che io non elegga il caos a senso.

Chi lo ha fatto, però, ha procurato quasi sempre a se stesso e alla comunità nella quale vive, disastri. 

Per capire cosa la vita pretende da me, dovrò sempre ricordarmi di cosa ero io, quando sono venuto al mondo: un essere vivente, prodotto di una vita biologia estremamente complessa (ma del tutto ORGANIZZATA - senza organizzazione e ordine, nessuna vita biologica è possibile) bisognosa però di molto poco: attenzione e cura, amore, nutrimento, serenità, possibilità di evoluzione.

Non potrò dunque mai trovare senso alla mia vita, riempiendola a dismisura di cose perlopiù inutili. Non potrò mai pensare di individuare un 'ordine' se io per primo concederò alla mia vita di essere del tutto caotica, stipata fino all'inverosimile di  cose inutili.

Sarò e sono consapevole che questo oggi è sempre più difficile. Sarò e sono consapevole che riempire la propria vita a dismisura, proclamare incessantemente che "non si ha tempo", che "non si ha tempo per nulla e quindi a maggior ragione anche per farsi domande su se stessi e sulla vita" è la più diffusa forma di auto-difesa contemporanea. 

Si ha paura del vuoto, di quello che si presume a-priori di essere un vuoto - la mancanza di senso - e  si colma  la vita di stupidaggini, dettagli e diversivi fino all'inverosimile nella speranza che non si abbia il tempo e il modo di interrogarsi mai, e dunque di spaventarsi di fronte a quel vuoto. Ci si illude di protrarre questo sentimento fino all'estremo limite della morte, e di morire quindi inconsapevoli di tutto, ma "senza soffrire", come bambini spaventati.

Questa vita non fa per me.

Mi ricorderò sempre che soltanto fermandomi, interrompendo il flusso ininterrotto delle cose complicate (non complesse) che tutti e tutto mi impongono, io potrò scoprire qualcosa. Dovrò fare quindi spazio nella mia vita, pur nelle incombenze di tutti i giorni, lasciare sempre questo spazio vitale, essenziale.

Solo dal silenzio e dalla quiete sorgono le vere domande. E solo nel silenzio e nella quiete è possibile ascoltare qualcosa. Ascoltare quella voce - flebile o forte - che la potenza della vita riversa (riverserebbe) dentro ognuno di noi.

Come lasciò scritto il profeta: Non sarete confusi per sempre.

Fabrizio Falconi

in testa: immagine da Monika e il desiderio di Ingmar Bergman 

05/10/08

L'abiura di Roberta de Monticelli - L'addio a ogni collaborazione con la Chiesa cattolica - La risposta di Mons. Betori.

Mi colpisce molto la dura presa di posizione di Roberta De Monticelli - che reputo una delle migliori menti oggi al servizio della riflessione spirituale, in Italia - la quale ha abiurato, con una clamorosa lettera, pubblicata su Il Foglio, qualsiasi collaborazione con la Chiesa Cattolica, a causa delle posizioni espresse da Mons. Betori - segretario generale della CEI in uscita - sulla fine-vita e le volontà ultime del malato.
Penso che sia un'occasione di riflessione profonda, per tutti quelli che si riconoscono come cristiani - e anche per tutti gli altri - leggere questa lettera, e la risposta che ne ha dato lo stesso Mons. Betori il giorno successivo su 'Avvenire'.

Abiura di una cristiana laica

di Roberta de Monticelli *

Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo.

L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.

Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta.

La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.

E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani.

Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa?

Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.

Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa?

E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti?

C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.

di Roberta de Monticelli

* IL FOGLIO, 02.10.2008


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RISPETTOSA OBIEZIONE ALLA PROFESSORESSA DE MONTICELLI

Chiedo anch’io la libertà di coscienza. Altra cosa dall’auto-determinazione

di GIUSEPPE BETORI (Avvenire, 03.10.2008)

Sul ’Foglio’ di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo « addio » « a molti cari amici - in quanto cattolici » , « un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica » .

Trovarmi coinvolto in una così seria decisione mi turba, ma vorrei ricordare che quella parola, « addio » , percepita di primo acchito sinistra, contiene in sé una radice promettente. E’ la preposizione ’ ad’ che spinge verso altro, in ogni caso fuori dal soggetto.

E in effetti visto che l’argomento del contendere è la ’ fine della vita’, tutto cambia a seconda se la vita è destinata oppure senza scopo. In altre parole se la vita si spiega da sé o sottostà come tutta la realtà a quel principio per cui nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere. Se si tiene conto di questo, forse si riesce a capire cosa nasconda la parola ’autodeterminazione’, che vorrebbe fare a meno di questa evidenza.

E se la signora de Monticelli avesse colto tale passaggio, avrebbe certo compreso che dietro le mie parole «non spetta alla persona decidere» si cela non la negazione della coscienza, ma semmai dell’autosufficienza. Per questo, proprio appellandomi alla coscienza, che l’illustre interlocutrice difende con tanta passione, non posso non prendere le distanze dalla posizione che mi costruisce addosso e che mi viene attribuita senza fondamento.

Sono infatti sinceramente amareggiato che la mia dichiarazione sia stata letta come « la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale » . Insomma, sarei io - e la Chiesa con me - ad autorizzare il male, negando la possibilità di fare il bene, e farei tutto questo perché non sono per « il principio di autodeterminazione » . Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il « principio di autodeterminazione » : non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna.

Non possiamo confondere, insomma, la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il « principio di autodeterminazione » non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa: quando S. Agostino scrive « ama e fa’ ciò che vuoi » , indica che le nostre azioni sono buone solo quando si ispirano a Dio, che è Amore. La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura. Allo stesso modo, la vita non ce la diamo da soli, ma ci viene donata. Difendere questo dono è difendere il bene: difendere la vita significa difendere la possibilità della coscienza, non negarla. Se non sono vivo, certo non posso scegliere. È proprio questa precedenza della vita rispetto ad ogni scelta, questo dono che mi viene fatto, che mi orienta nel valutare le opzioni di fronte a me. Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.

Questo tipo di considerazioni porta San Tommaso a insistere tanto sulla prudenza come regola per l’azione: se non si può scegliere in astratto, ma solo a partire dalle concrete situazioni della vita personale, non si può essere buoni in astratto, come vorrebbe l’astratto « principio di autodeterminazione » .

Bisogna cercare di essere « il più buoni possibile » nelle circostanze date: per questo la Chiesa si è decisa per una legge sul ’ fine vita’. Un realismo, il suo, che è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica, nello sforzo di rendere possibile una scelta buona nella vita di tutti i giorni.

La vita che viviamo è frutto di relazioni che la generano, sia nel momento del concepimento, sia durante tutto il suo corso. Queste relazioni non terminano con la sofferenza: il dolore non colpisce solo chi soffre - a volte in condizioni estreme - ma anche chi attorno è testimone di tale sofferenza. Tale comune sentire umano - direi questo consentire - sta da sempre a cuore alla Chiesa: davvero non vale niente? E questa passione per l’uomo sarebbe davvero « nichilismo » come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?

Spero che Roberta de Monticelli - e quanti sono interessati a un dialogo sulla bellezza, la libertà, la vita - non rinunci alla possibilità di un incontro con chi segue Gesù, che è venuto non « per condannare il mondo, ma per salvare il mondo » (Gv 12,47). Per questo mi auguro che il suo sia solo un ’arrivederci’
profilo di Roberta de Monticelli:

07/11/11

Ricominciare. 12 cose da cui ripartire. (testo completo).



RI-COMINCIARE.  Da dove ?
(12 cose da cui ripartire)

Di Fabrizio Falconi


1  UMILTA'.

Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

(C) Fabrizio Falconi - 2011 (continua).

21/12/14

Risposta al TEST (5 domande per sapere come vivi).



Il test che ho postato tre giorni fa su questo blog, di mia invenzione, è una elaborazione o una valutazione personale che ciascuno ha potuto fare, rispondendo d'istinto alle 5 domande che avevo posto.

La domanda era: "Come vivi?", cioè "come stai vivendo in questo momento la tua vita?"

La risposta al test è di due tipi: quindi oscilla tra due diversi modi di vivere la propria vita, la vita vissuta prosaicamente e la vita vissuta poeticamente.

Vita vissuta prosaicamente vuol dire che in questo momento si sta vivendo la propria vita preoccupati o impegnati o entrambe le cose - comunque orientati - alla risoluzione delle incombenze, a quello che si deve fare, al senso del dovere o della responsabilità, all'adeguamento - più o meno forzato - a quello che gli altri si aspettano da noi, cioè al nostro ruolo nella vita.

Vita vissuta poeticamente vuol dire che in questo momento si sta vivendo la propria vita più interessati al lato autentico di se stessi, all'ascolto delle cose, alla vibratilità delle emozioni e delle passioni, anche con il connotato negativo che questo comporta (paura, ansia, ecc...), alla esplorazione del mondo (e con questo, degli altri e di se stessi).

Le risposte 'prosaiche' sono: 1A; 2A; 3B; 4B; 5A.

Le risposte poetiche sono: 1B; 2B; 3A; 4A; 5B.

Come sempre vanno conteggiate le proprie risposte e per scoprire il proprio orientamento attuale basta confrontare il numero di risposte 'prosaiche' e 'poetiche', il cui risultato sarà di 5 a 0,  4 a 1 o 3 a 2  in favore dell'una o dell'altra tendenza.

Specifico ancora che non si tratta di come si è dentro, se cioè se si è persone più o meno poetiche o prosaiche, ma si tratta di come si sta vivendo la vita in questo (vostro) momento storico.

Grazie a tutti,

Fabrizio Falconi

10/09/22

LIBRO DEL GIORNO: "Bruciare i giorni" di James Salter

 



James Salter, in vita, è stato sempre considerato un outsider. 

Soltanto negli ultimi anni, prima della morte avvenuta a Sag Harbor il 19 giugno 2015, a 90 anni, egli cominciò a ricevere riconoscimenti per la sua opera di scrittore. 

Alle spalle aveva già parecchie vite vissute: nato James Horowitz a New York nel 1925, Salter era entrato giovanissimo all'Accademia Militare degli Stati Uniti, a West Point, e nel 1945 era entrato nell'Air Force, dove prestò servizio per dodici  lunghi anni tra il Pacifico, l'Europa, gli Stati Uniti d'America e la Corea, dove partecipò a diverse missioni sul suo caccia. 

Lasciato l'esercito con parecchi rimpianti - diversi tra i suoi ex compagni piloti, tra cui Buzz Aldrin finirono nel programma Apollo della NASA - a partire dal 1956 Salter cominciò a scrivere e a pubblicare, con lo pseudonimo che aveva scelto. 

I suoi romanzi non avevano successo. O almeno, non quello che Salter sperava o si aspettava. Ripiegò sul cinema. Scrisse sceneggiature per diversi film, ne diresse perfino uno, con la giovane Charlotte Rampling protagonista, si intitolava Three, nel 1969, che fu un totale fiasco. 

Nel frattempo però si era trasferito con la famiglia nella vecchia Europa e, muovendosi tra Londra, Parigi e Roma, tra gli anni '60 e '70 frequentò il bel mondo di allora, avvicinò i grandi, a volte lavorò con loro, conobbe molte donne, le amò, tornò a scrivere. 

Alla fine la sua opera letteraria consiste in un pugno di romanzi, e in un paio di libri di racconti. In Italia Guanda sta meritatamente traducendoli tutti: The Hunters, 1957 (Per la gloria, 2016) A Sport and a Pastime, 1967 (Un gioco e un passatempo, 2015) Light Years, 1975 (Una perfetta felicità, 2015) Cassada, 2000 (La solitudine del cielo, 2017) Last Night, 2005 (L'ultima notte,  2016) All That Is, 2013 (Tutto quel che è la vita, 2014) The Art Of Fiction, 2016 (L'arte di narrare, 2017) Burning the days, 1997 (Bruciare i giorni, 2018) Dusk and other stories, 2011 (Crepuscolo e altre storie,  2022).

Bruciare i giorni è dunque la sua ultima opera-romanzo, prima dei racconti finali del 2011. Ed è  un grande, corale riassunto della sua vita.  Un romanzo cioè "memoriale", che esprime bene la filosofia di Salter riguardo la letteratura (e la vita): soltanto ciò che viene ricordato, e dopo essere stato ricordato viene scritto, solo questo, viene salvato. 

Salvato dall'oblio e dalla insensatezza della vita. I poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, scrive a un certo punto, formano un coro, l'inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l'onore, l'amore e quel poco che il cuore conosce. 

Il memoriale di Salter raggiunge livelli di compulsività e di ossessione: le quattrocentosedici pagine sono un carosello rutilante di incontri, di vissuto, di giorni bruciati, appunto, che si susseguono in fila nei ricordi dello scrittore, senza apparente soluzione di continuità. 

C'è una urgenza di salvare il salvabile, di cementare (per quello che possono fare la letteratura e i libri) la memoria di una vita vissuta, fortunata e piena. 

E l'operazione riesce ad essere avvolgente e ipnotica per il lettore, per merito dello stile di Salter, che si può apprezzare anche negli altri suoi romanzi e che ha portato il Washington Post a definirlo come "il romanziere contemporaneo più amato e apprezzato dagli scrittori." 

Salter, come il John Williams di Stoner, è un distillatore di parole. Ciascuna frase sembra cesellata nell'essenziale. Un rigo basta a descrivere uno stato di vita, un fallimento, una perdita, la ferita di un paesaggio, l'ebrezza di un lungo incontro. 

Il libro è praticamente diviso in due grandi parti: nella prima, Salter racconta la sua vita di cadetto a West Point, e di pilota, la sua vita che in quegli anni è tutta concentrata sul volo. 

Nella seconda, il racconto si incentra sulla scrittura, gli incontri, il cinema: New York, Robert Redford e Polanski, Parigi vista con meraviglioso disincanto da espatriato, fino alla Roma di Pasolini e Laura Betti. 

Salter rivela, evocandone il ricordo, come avviene parzialmente anche negli altri romanzi, tutto quel che può essere la vita, a saperla e volerla raccontare. Una musica sincopata, che a tratti accarezza come vento poetico, e a volte, il più delle volte, strugge. Il senso, se c'è, è altrove. Basta, per ora, il racconto.