29/06/09

Il Vangelo che fa piangere di gioia.


Penso che i cristiani cattolici non si rendano troppo spesso conto di quale fortuna dispongano, con la frequentazione della messa domenicale, di ascoltare la Parola dei Vangeli.

La messa spesso viene recepita come un rito un po’ stantio, nel quale – a volte anche, certo per una qualche corresponsabilità dei celebranti che non fanno molto per valorizzarlo – le parole, anche ‘quella’ Parola ci scivola addosso, quasi fosse scontata.

Ma capita anche, io spero che capiti spesso, che capiti a tutti, che quella Parola invece ti colpisca come una freccia, che ti provochi, nell’ascoltarla, un vero sconquasso emotivo.

A me è successo anche ieri sera, durante la messa domenicale. Erano le 19, faceva molto caldo, i fedeli come al solito arrivavano alla spicciolata, in gran numero a messa iniziata. Nonostante però la piccola confusione, quando il sacerdote – era un co-celebrante – ha letto, con partecipazione sobria, con solennità semplice, senza enfasi, senza toni carichi, ma con tutta l’evidenza nuda di quella ‘Parola’ la pagina del Vangeloera l’episodio in Marco della guarigione della figlia di Giàiro e dell’emorroissa – io ho provato una emozione fortissima.

Non so spiegarmi nemmeno io bene, perché. Era qualcosa che andava oltre le parole e oltre il significato. Era come se quella Parola fosse qualcosa di vivente e di evidente, ogni oltre misura. Qualcosa di luminoso e numinoso, qualcosa che mi prendeva e mi scuoteva, qualcosa che pur manifestandosi, restava sufficientemente misteriosa. Eppure, vi sentivo, con grande chiarezza, il soffio della Verità. Così chiaro, che ogni altra cosa appariva secondaria e tralasciabile.

L’emozione è stata così forte, che alla fine della lettura mi sono ritrovato con gli occhi lucidi, pieni di lacrime di gioia.

Penso sia il dono più grande che noi, ogni domenica, abbiamo questa possibilità di ri-nascere, di ri-generarci, di ri-trovare il senso, la direzione. Di aprire il cuore e affidarne finalmente il suo contenuto a Chi, solo lui, può trasformarlo.

Spero davvero di condividere ancora e ancora, e finché avrò il dono di vivere, questa pienezza.

Per completezza, riporto qui di sotto il testo della Lettura di ieri.


Mc 5, 21-43

Dal Vangelo secondo Marco‡


In quel tempo, essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: «La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva». Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male». Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, continua solo ad aver fede!». E non permise a nessuno di seguirlo fuorchè a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: «Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina.Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!». Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.
.

22/06/09

Cosa vuol dire Rendere Grazie a Dio.


Quante volte ci ricordiamo di ringraziare ?

La vita di oggi spinge molti di noi a poter fare a meno di Dio, e dell'idea stessa di Dio.

Condizioni di salute sempre migliori
- le malattie divengono sempre più rare e comunque più facili da curare - e l'allungamento della vita - oggi c'è un 'eterna' età adulta, l'infanzia finisce prestissimo, e poi ci si può illudere di non essere anziani fino ai settant'anni e oltre - fanno sì che si ingeneri quasi una dolce aspettativa di eternità in terra.

La morte è un problema eternamente rimandato.

Naturalmente, prima o poi arriva. E quando arriva, trova (spesso) uomini del tutto impreparati ad accoglierla. In preda a una comprensibile disperazione.

E in questa lunga attesa, si può anche far finta che il problema della morte, di quel che accade dopo, della esistenza di un Dio-Padre, non esista.

Questo va bene per molti - va bene ? a vedere lo stato del mondo, oggi, non sembrerebbe.

Ma non dovrebbe andare bene per i cristiani, in coloro che si riconoscono nelle Parole e nella significanza terrestre e divina della presenza di Gesù Cristo.

Per costoro, Dio non dovrebbe mai essere "un tappabuchi ", come scriveva Dietrich Bonhoeffer.

Per costoro, Dio non dovrebbe mai essere un calcolo utilitaristico, una convenienza, una condizione, una resa, un do ut des.

Credo che dovremmo, noi cristiani, essere sempre pronti a ringraziare Dio. Della vita, che è meravigliosa, per quante cose noi facciamo per renderla un inferno. E anche per quello che precisamente la vita ci porta come doni - quelli che riconosciamo come tali e quelli che ci appaiono come prove, e magari seguentemente scopriamo essere doni ancora più preziosi.

Ma di questo ringraziamento, di questo 'Grazie' che dovremmo pronunciare ogni mattina, ogni sera prima di addormentarci, noi siamo ancora capaci ?

Ringraziare vuol dire : rendere grazie. La grazia non si riceve soltanto. La grazia si rende, si deve rendere, se si vuole vivere veramente.

.

15/06/09

Coscienza e verità - un articolo di Lucetta Scaraffia.



Nell'Osservatore Romano di ieri, domenica 14 giugno 2009, è comparso in prima pagina questo bell'articolo di Lucetta Scaraffia, del quale consiglio caldamente la lettura a tutti, perchè contiene, in pillole, un'analisi del pensiero dell'attuale Pontefice; e sul quale come sempre, siamo pronti a discutere insieme.


Coscienza e verità di Lucetta Scaraffia

Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI.

Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici.

Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50).

Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana.

Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno.

Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà".

Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni.
La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale".
Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso".

Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare".

In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica.

In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio.

Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio".

Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà.

Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti".

Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio".

Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature".

La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce.

Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.

Fonte: Osservatore Romano

.

12/06/09

Il Miracolo dell'Airbus - Una storia di fede.


Credo che tutti, di questi tempi, abbiamo bisogno di notizie un po' diverse di quelle che ci propinano giornalmente i media, e che davvero restringono il campo delle cose umane a beghe di cortile, o di pollaio. La notizia che vi riferisco qui sotto è diversa, e merita forse una riflessione. La pubblico a beneficio dei lettori de Il mantello di Bartimeo.


Giugno 2009 di Natalia Von Korsch, Rio de Janeiro.


Religioso rinuncia ad imbarcarsi sul volo della morte dopo che un’amica riceve messaggio divino
Rio


La voce di Dio ha salvato dal volo 447 dell’Air France il pastore missionario dell’Assemblea di Dio a Parigi, Gláucio Oliveira, 29 anni. Il religioso già aveva prenotato un posto sull’aereo che è caduto nell’Oceano Atlantico quando ha ricevuto, lo scorso giovedì, un ‘ordine’ di non continuare con il viaggio. Il messaggio è stato dato da un’amica.

Jussara Gonçalvez, 37 anni, partecipava ad un gruppo di preghiera ed è stata chiamata dalla collega Renata Carnevale, 30 anni, che diceva di aver ricevuto un messaggio dal Signore. “Non lasciare che l’uomo vada in viaggio, la sua fossa è aperta. Morirà”, ha detto Renata.

Piangendo molto, Jussara ha chiamato nella stessa ora il pastore. Spaventato, Gláucio non ha confermato la prenotazione: “Sono andato dalla TAM sabato, ma dato che un amico, anch’egli pastore, è morto in un incidente della compagnia, io volo soltanto con Air France, che consideravo l’aereo migliore del mondo. Ma Dio mi ha mandato Renata che ha ricevuto la rivelazione che se fossi entrato in quell’aereo la mia fossa era aperta.


Noi ci siamo visti solo una volta, lei non sapeva del mio viaggio. Tuttavia, quando la Jussara mi ha trasmesso il messaggio, ero terrorizzato. Ho pregato Dio e ho sentito in cuore che non dovevo andare. Egli è stato fedele con me, perché io sempre gli ho obbedito.”

Renata, la donna che ha salvato la vita del pastore, è a letto dalla mattina di lunedì quando ha appreso dell’aereo caduto. Per telefono, ha confermato di aver ricevuto un messaggio da Dio: “Non è stata una visione, ho solo consegnato un messaggio da parte del Signore.”

fonte: Terra.com.br (ripreso dalle maggiori agenzie internazionali di stampa).

03/06/09

Vito Mancuso è un teologo cattolico ? L'opinione di Marco Vannini.


Riporto qui di seguito l'intervista realizzata dal quotidiano Libero a Marco Vannini, davvero molto interessante, sul successo editoriale di Vito Mancuso, ma che contiene riflessioni molto interessanti sul comune sentire 'cristiano' e 'cattolico', oggi.


Vito Mancuso è un vero e proprio caso culturale ed editoriale. Non è infatti cosa abituale vedere un teologo entrare nelle classifiche di vendita e fare il pieno di pubblico ovunque si presenti. Firma ieri del Foglio e oggi della Repubblica, Mancuso è autore di diversi volumi. L’anima e il suo destino, edito da Cortina, ha venduto circa 100mila copie. Disputa su Dio, in collaborazione con Corrado Augias, è un best seller nonostante il caso di “copia e incolla” denunciato da Libero (sottolineiamo: nella vicenda Mancuso è privo di ogni responsabilità, a differenza del suo co-autore). Chiediamo un parere sulla teologia di Mancuso a Marco Vannini, 61 anni, fiorentino, massimo studioso italiano della mistica cristiana, cui si dedica da quaranta anni, primo editore di autori come Meister Eckhart, Taulero, Angelus Silesius, Gerson, Fénelon, Margherita Porete e altri. È autore di Introduzione alla mistica (Morcelliana), La morte dell’anima (Le Lettere), Storia della mistica occidentale (Mondadori), Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere), La religione della ragione (Bruno Mondadori) e Sulla grazia (Le Lettere).

Professor Vannini, come spiega il successo di Mancuso?

«Lo spiego col fatto che viene intelligentemente incontro a problemi anche di tipo religioso della società contemporanea, ormai post-cristiana, e dà le risposte che questa si aspetta, ovvero che le sono più gradite. Infatti presenta un cristianesimo senza peccato, senza conversione, senza redenzione, senza grazia, che perciò si accorda tranquillamente con il mondo secolarizzato dei nostri giorni - anzi col “mondo”, come categoria evangelica».

Ma allora non è più cristianesimo?

«In senso tradizionale sicuramente no, però bisognerebbe prima intenderci su cosa significhi essere cristiani. Ora, a parte il fatto che, come si dice giustamente, “solo Dio scruta i cuori”, possiamo pensare con Simone Weil che chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano».

Infatti la Weil è una della autorità cui Mancuso si riferisce...

«Sì, e su questo punto a buon diritto. Però solo su questo punto. Anzi, se c’è una cosa che contesto davvero al mio amico Vito Mancuso è proprio questo suo richiamarsi alla Weil. Infatti nella scrittrice francese è fondamentale l’evangelica rinuncia a se stessi, ovvero al proprio io, alla propria volontà: quella che ella chiama “decreazione”. La Weil vede la dimensione naturale dell’uomo tutta sottomessa all’egoismo, e perciò opposta al regno della grazia, che invece si apre proprio quando l’uomo fa il vuoto in e di stesso, “odia la propria anima”. In parallelo, la Weil pensa che la libertà che l’uomo crede di esercitare quando è privo di legami sia del tutto illusoria, perché l’uomo è soggetto alle leggi della natura e al suo determinismo, per cui di libertà vera si può parlare solo nella grazia - quando, appunto, è morto l’io naturale : “Dire ’io sono libero’ è una pura illusione - scrive - giacché a dire ’io’ è ciò che non è libero in me”. Su questi punti cruciali il pensiero di Mancuso è quanto di più antiweiliano ci sia».

Che ne dice della proposta di Mancuso di una teologia laica?

«Anche qui bisognerebbe prima decidere cosa intendiamo tanto per teologia quanto per laico. Di per se stessa l’espressione “teologia laica” è un ossimoro, però una teologia che celebra festival può benissimo accordarsi con la laicità. In fondo “laico” oggi significa proprio questo: che non vuole sentir parlare di distacco, di rinuncia a se stesso, di conversione - ovvero che conosce solo la dimensione della natura e ignora quella della grazia».

Quindi lei condivide le censure mosse a Mancuso da alcuni esponenti della Chiesa?

«Io non sono il più adatto a giudicare, però posso dire che non concordo affatto con la motivazione che mi è sembrata prevalente in queste censure, ossia l’accusa a Mancuso di essere uno gnostico, perché, se c’è qualcuno che gnostico non è, questo è proprio lui. Infatti, gnosticismo vuol dire essenzialmente opposizione luce-tenebre, Dio-mondo, spirito-materia, mentre nell’ultimo libro di Mancuso il pensiero è proprio opposto. Gnostica era la Weil, che non a caso amava tanto la civiltà catara e non perdonava al cattolicesimo di averla distrutta. E poi gnostico non è una brutta parola: gnosi vuol dire conoscenza, conoscenza che salva, e quindi anche il cristianesimo è una gnosi. I primi cristiani e i Padri della Chiesa parlavano infatti del cristianesimo come di una gnosi - certo, della vera gnosi opposta a quelle false, ma pur sempre di una gnosi. E questo i teologi dovrebbero saperlo. Se fossi un esponente del magistero ecclesiastico, quello che rimprovererei a Mancuso non sono tanto discutibili “errori teologici”, quanto l’aver messo la sordina agli aspetti più duri ma più essenziali del messaggio evangelico: conversione, distacco, rinuncia a se stessi, appunto. Non a caso ancora la Weil scrive che nel Vangelo non c’è una teologia, ma una concezione della vita».

In conclusione, per lei Mancuso è o no un teologo cattolico?

«Ripeto ancora una volta che non sono chiamato a giudicare nessuno. Comunque penso che Mancuso abbia, se non altro, il merito di costringerci a interrogarci sull’identità cristiana: siamo ancora capaci di recitare il Credo davvero credendo alle sue formulazioni? O in cosa consiste - se sussiste ancora - il nostro cristianesimo/cattolicesimo? Personalmente ritengo Mancuso un filosofo, un libero pensatore (non inteso come offesa, anzi!) che farebbe bene a dichiararsi tale, uscendo dall’equivoco del “teologo cattolico”. Questo gli farebbe forse perdere audience presso i “laici”, ma renderebbe più onore alla verità e a Cristo».

01/06/09

L'Inquinamento Morale avvelena il Mondo - L'Omelia di Pentecoste di Benedetto XVI.



A beneficio dei lettori del Blog, pubblico qui di seguito l'intensissima (e per certi versi drammatica) Omelia pronunciata ieri da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana per la Messa della Pentecoste.

Cari fratelli e sorelle! Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, viviamo nella fede il mistero che si compie sull’altare, partecipiamo cioè al supremo atto di amore che Cristo ha realizzato con la sua morte e risurrezione. L’unico e medesimo centro della liturgia e della vita cristiana – il mistero pasquale – assume poi, nelle diverse solennità e feste, “forme” specifiche, con ulteriori significati e con particolari doni di grazia. Tra tutte le solennità, la Pentecoste si distingue per importanza, perché in essa si attua quello che Gesù stesso aveva annunciato essere lo scopo di tutta la sua missione sulla terra. Mentre infatti saliva a Gerusalemme, aveva dichiarato ai discepoli: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49).

Queste parole trovano la loro più evidente realizzazione cinquanta giorni dopo la risurrezione, nella Pentecoste, antica festa ebraica che nella Chiesa è diventata la festa per eccellenza dello Spirito Santo: “Apparvero loro lingue come di fuoco… e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,3-4). Il vero fuoco, lo Spirito Santo, è stato portato sulla terra da Cristo. Egli non lo ha strappato agli dèi, come fece Prometeo, secondo il mito greco, ma si è fatto mediatore del “dono di Dio” ottenendolo per noi con il più grande atto d’amore della storia: la sua morte in croce. Dio vuole continuare a donare questo “fuoco” ad ogni generazione umana, e naturalmente è libero di farlo come e quando vuole. Egli è spirito, e lo spirito “soffia dove vuole” (cfr Gv 3,8). C’è però una “via normale” che Dio stesso ha scelto per “gettare il fuoco sulla terra”: questa via è Gesù, il suo Figlio Unigenito incarnato, morto e risorto.

A sua volta, Gesù Cristo ha costituito la Chiesa quale suo Corpo mistico, perché ne prolunghi la missione nella storia. “Ricevete lo Spirito Santo” – disse il Signore agli Apostoli la sera della risurrezione, accompagnando quelle parole con un gesto espressivo: “soffiò” su di loro (cfr Gv 20,22). Manifestò così che trasmetteva ad essi il suo Spirito, lo Spirito del Padre e del Figlio. Ora, cari fratelli e sorelle, nell’odierna solennità la Scrittura ci dice ancora una volta come dev’essere la comunità, come dobbiamo essere noi per ricevere il dono dello Spirito Santo. Nel racconto, che descrive l’evento di Pentecoste, l’Autore sacro ricorda che i discepoli “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”. Questo “luogo” è il Cenacolo, la “stanza al piano superiore” dove Gesù aveva fatto con i suoi Apostoli l’Ultima Cena, dove era apparso loro risorto; quella stanza che era diventata per così dire la “sede” della Chiesa nascente (cfr At 1,13). Gli Atti degli Apostoli tuttavia, più che insistere sul luogo fisico, intendono rimarcare l’atteggiamento interiore dei discepoli: “Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera” (At 1,14).

Dunque, la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo; e presupposto della concordia è la preghiera. Questo, cari fratelli e sorelle, vale anche per la Chiesa di oggi, vale per noi, che siamo qui riuniti. Se vogliamo che la Pentecoste non si riduca ad un semplice rito o ad una pur suggestiva commemorazione, ma sia evento attuale di salvezza, dobbiamo predisporci in religiosa attesa del dono di Dio mediante l’umile e silenzioso ascolto della sua Parola.

Perché la Pentecoste si rinnovi nel nostro tempo, bisogna forse – senza nulla togliere alla libertà di Dio – che la Chiesa sia meno “affannata” per le attività e più dedita alla preghiera. Ce lo insegna la Madre della Chiesa, Maria Santissima, Sposa dello Spirito Santo. Quest’anno la Pentecoste ricorre proprio nell’ultimo giorno di maggio, in cui si celebra solitamente la festa della Visitazione. Anche quella fu una sorta di piccola “pentecoste”, che fece sgorgare la gioia e la lode dai cuori di Elisabetta e di Maria, una sterile e l’altra vergine, divenute entrambe madri per straordinario intervento divino (cfr Lc 1,41-45). La musica e il canto, che accompagnano questa nostra liturgia, ci aiutano anch’essi ad essere concordi nella preghiera, e per questo esprimo viva riconoscenza al Coro del Duomo e alla Kammerorchester di Colonia. Per questa liturgia, nel bicentenario della morte di Joseph Haydn, è stata infatti scelta molto opportunamente la sua Harmoniemesse, l’ultima delle “Messe” composte dal grande musicista, una sublime sinfonia per la gloria di Dio. A voi tutti convenuti per questa circostanza rivolgo il mio più cordiale saluto. Per indicare lo Spirito Santo, nel racconto della Pentecoste gli Atti degli Apostoli utilizzano due grandi immagini: l’immagine della tempesta e quella del fuoco. Chiaramente san Luca ha in mente la teofania del Sinai, raccontata nei libri dell’Esodo (19,16-19) e del Deuteronomio (4,10-12.36).

Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l’uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta è descritta come “vento impetuoso”, e questo fa pensare all’aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso.

Quello che l’aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale. Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria – e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorità –, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito.

Sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre società - ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna - a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà. La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che è l’amore! L’altra immagine dello Spirito Santo che troviamo negli Atti degli Apostoli è il fuoco.

Accennavo all’inizio al confronto tra Gesù e la figura mitologica di Prometeo, che richiama un aspetto caratteristico dell’uomo moderno. Impossessatosi delle energie del cosmo – il “fuoco” – l’essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il Creatore dell’universo.

L’uomo non vuole più essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto. Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di Lui si è costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre. Nelle mani di un uomo così, il “fuoco” e le sue enormi potenzialità diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l’umanità stessa, come dimostra purtroppo la storia.

A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite. Si potrebbero in verità trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realtà di ogni giorno. La Sacra Scrittura ci rivela che l’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello “spirito di Dio che aleggiava sulle acque” (Gn 1,2) all’inizio della creazione.

E Gesù Cristo ha “portato sulla terra” non la forza vitale, che già vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioè l’amore di Dio che “rinnova la faccia della terra” purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte (cfr Sal 103/104,29-30). Questo “fuoco” puro, essenziale e personale, il fuoco dell’amore, è disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell’opera rinnovatrice di Cristo. Infine, un ultimo pensiero si ricava ancora dal racconto degli Atti degli Apostoli: lo Spirito Santo vince la paura. Sappiamo come i discepoli si erano rifugiati nel Cenacolo dopo l’arresto del loro Maestro e vi erano rimasti segregati per timore di subire la sua stessa sorte.

Dopo la risurrezione di Gesù questa loro paura non scomparve all’improvviso. Ma ecco che a Pentecoste, quando lo Spirito Santo si posò su di loro, quegli uomini uscirono fuori senza timore e incominciarono ad annunciare a tutti la buona notizia di Cristo crocifisso e risorto. Non avevano alcun timore, perché si sentivano nelle mani del più forte.

Sì, cari fratelli e sorelle, lo Spirito di Dio, dove entra, scaccia la paura; ci fa conoscere e sentire che siamo nelle mani di una Onnipotenza d’amore: qualunque cosa accada, il suo amore infinito non ci abbandona. Lo dimostra la testimonianza dei martiri, il coraggio dei confessori della fede, l’intrepido slancio dei missionari, la franchezza dei predicatori, l’esempio di tutti i santi, alcuni persino adolescenti e bambini.

Lo dimostra l’esistenza stessa della Chiesa che, malgrado i limiti e le colpe degli uomini, continua ad attraversare l’oceano della storia, sospinta dal soffio di Dio e animata dal suo fuoco purificatore. Con questa fede e questa gioiosa speranza ripetiamo oggi, per intercessione di Maria: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra!”.

26/05/09

La Teologia di Dostoevskij - Un articolo di Giovanni Reale.


Cari amici, se avete letto e amato nella vostra vita capolavori assoluti come "L'idiota" o "I fratelli Karamazov", pietre miliari della letteratura - ma anche della filosofia e della spiritualità - credo di farvi un regalo postandovi questo articolo qui sotto pubblicato qualche giorno fa nelle pagine culturali del Corriere della Sera, e firmato da Giovanni Reale. Credo che sia un articolo bellissimo e che dà ragione di tutta la grandezza dell'anima di Fedor Dostoevskij, e della immane eredità che egli ci ha lasciato.

La Bompiani pubblica nella collana «Il pensiero occidentale» tutto Dostoevskij. Sono già usciti il Diario di uno scrittore, I fratelli Karamazov e in questi giorni escono I demoni e L’idiota. Viene ripresa la grande edizione curata da Ettore Lo Gatto, ma rinnovata. I romanzi hanno il testo russo a fronte (una prima a livello mondiale), e le nuove introduzioni sono curate da Armando Torno, un grande conoscitore del mondo russo.

Ma come mai si ripubblica Dostoevskij in una collana di filosofia e non di narrativa? La risposta è semplice: in Italia, Dostoevskij viene considerato dai più un grande romanziere, mentre in Russia lo si considera un grande filosofo. Berdiaev, per esempio, dice: «Dostoevskij fu vero filosofo , fu il più grande filosofo russo». In effetti, i suoi romanzi sono storie di Idee, personificate nei vari personaggi.

Idee vive sia nella loro profondità, sia nel loro complesso movimento dinamico-relazionale e nella loro forza. Dostoevskij stesso precisa che le Idee sono quella forza che muove il mondo e scrive: «Nella storia ciò che trionfa non sono le masse di milioni di uomini né le forze materiali, che sembrano così forti e irresistibili, né il denaro né la spada né la potenza, ma il pensiero, quasi impercettibile all’inizio, di un uomo che spesso sembra privo di importanza».

Dostoevskij fa con i suoi romanzi ciò che Platone ha fatto con i suoi dialoghi. Il filosofo ateniese ha trasposto sul piano dialettico le due grandi forme dell’arte dei suoi tempi, la tragedia e la commedia (per esempio, il Protagora è una grande e straordinaria commedia, il Gorgia e il Fedone sono due grandi tragedie).

Già Nietzsche sosteneva la tesi che «Platone ha dato ai posteri il paradigma di una forma artistica, il modello del romanzo», che sarebbe in sostanza «una favola esopica infinitamente sviluppata». E Dostoevskij ha scelto una forma tipica dell’arte dei suoi tempi, quella del romanzo, per comunicare grandi messaggi filosofici. I suoi personaggi sono incarnazioni di Idee in forma di vere e proprie «icone».

In Italia Luigi Pareyson ha ben sviluppato l’interpretazione di Dostoevskij come vero grande filosofo che si colloca al di sopra della mera analisi dell’animo umano a livello psicologico, e lo considera «uno dei culmini della filosofia contemporanea e un immancabile punto di riferimento nel dibattito speculativo del mondo d’oggi».

Fra le molte idee che Dostoevskij porta in primo piano nei suoi romanzi, ne ricordiamo quattro: il nichilismo, il male, la libertà e la fede.

1. Per quanto riguarda il nichilismo Pareyson afferma addirittura che il personaggio Ivan dei Fratelli Karamazov esprime l’anima nichilistica in maniera perfetta, perfino meglio di Nietzsche.

2. Il male non è in principio una realtà sostanziale (in senso manicheo). Ma non è neppure solo una «privazione del bene», ossia la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore (come voleva Agostino). Il male nasce nell’animo dell’uomo: è una volizione negativa, che, proprio respingendo il bene superiore, si impone come una forza distruttiva che produce il male nella sua reale dimensione.

3. Secondo Dostoevskij la libertà consiste nel riconoscimento e nella volizione del Principio supremo dell’Essere e del Bene, oppure nel rifiuto di esso, con tutto ciò che ne consegue. E quindi è una forza che si distingue dal bene e dal male, i quali si realizzano, in quanto tali, proprio in conseguenza della libertà. Dostoevskij è giunto alla fede passando attraverso il nichilismo, e indagando la autodistruzione di esso.

4. La fede presuppone il dubbio, ed è vera fede solamente se è un continuo e dinamico superamento del dubbio stesso. In risposta ai critici che gli rimproveravano la sua fede in Cristo, diceva: «In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi». E in una lettera del 1854 esprimeva la forza veramente dirompente della sua fede: «Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».

Giovanni Reale








tratto da Corriere della Sera del 14 Maggio 2009 - http://www.corriere.it/




25/05/09

La Questione Morale - ora, finalmente, se ne accorge anche la CEI.


Sembra che proprio la Questione Morale sarà al centro della prolusione con la quale tra pochi minuti il Cardinale Angelo Bagnasco aprirà a Roma i lavori dell'Assemblea Generale della CEI.


E io, certe volte, rimango basito dalla lentezza e dalla 'ingenuità' con la quale le gerarchie ecclesiastiche - che non giudico, ma dalle quali vorrei aspettarmi sempre di più di quel che vedo - prendono coscienza dei processi sociali e politici, ma prima ancora antropologici, che interessano il nostro paese.


Insomma, quanti anni sono, ormai che in Italia assistiamo ad un progressivo scivolamento di ogni deriva morale, nei piccoli comportamenti sociali, nella definizione di ciò che è bene comune, di ciò che non aiuta, non serve, di ciò che corrompe le anime dei giovani, degli atteggiamenti messi in campo dai potenti di turno, o dagli 'acclamati', dalla televisione in primis, che portano prima di tutto ad una infelicità diffusa, e poi ad un allontanamento da un qualsiasi elementare senso di carità cristiana ?


Eppure, a leggere queste dichiarazioni di mons. Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente della Commissione CEI per i problemi sociali e il lavoro, viene quasi da sorridere: "Nella societa' italiana," dice Miglio " c'e' una 'questione morale', e la politica e' condizionata dalle difficolta' della societa"'. Parlando a margine della presentazione della Fondazione per il Bene Comune delle Acli, mons. Miglio ha affermato che la "questione morale" "riguarda la societa' e va affrontata senza puntare il dito. Ciascuno - ha aggiunto - deve cominciare dalla propria coscienza".

Il vescovo ha sottolineato che l'Assemblea generale dei vescovi italiani, che comincia oggi, affrontera' non a caso la questione dell'educazione, che e' "uno dei servizi che la Chiesa offre alla societa', per farla crescere sui dei valori che permettono a tutti, anche alla politica, di lavorare per il bene comune".


Ecco, sì è sacrosanto che si cominci ciascuno da sè, dalla proprio coscienza, e no, non pretendiamo che la Chiesa 'punti il dito', no, no, per carità - anche se noi ricordiamo anche un cristianesimo che quando c'è stato da urlare, ha urlato eccome, contro i comportamenti e le distorsioni plateali, gli scandali, che uccidono il senso del bene comune - ma già sentire un così eminente rappresentante della Chiesa che si accorge che in Italia sì, è vero, esiste una questione morale, è già qualcosa. Basta soltanto che l'ultimo appello di una Chiesa poco coraggiosa, non arrivi quando questo paese sarà già completamente distrutto nelle sue fondamenta etiche: in effetti, a ben guardare manca poco.
.

21/05/09

La Compassione - Il primo valore cristiano.


Sto leggendo un bellissimo saggio di un tedesco, Henning Ritter, dal titolo sottilmente inquietante: ' Sventura Lontana'.

Ritter è uno dei più importanti filosofi tedeschi, oggi.

Si tratta di una serie di riflessioni sulla compassione.

Un tema che apparirebbe oggi, a prima vista, quasi desueto. Eppure di una stringente attualità, specie per noi cristiani.

Compassione, è bene dirlo subito, non vuol dire 'pena' come oggi va di moda pensare : 'ho compassione di qualcuno = mi fa pena'.

Tutt'altro.

Compassione ha radici ben più profonde e deriva direttamente dal latino: cum patire: soffrire insieme.

Soffrire insieme con qualcuno.

Parlando dell'Evgenij Onegin di Puskin, Dostoevskij si fece questa domanda: se un uomo può fondare la propria felicità sulla infelicità altrui.

In che modo placare lo spirito "se dietro a una persona vi è un gesto indegno, privo di compassione, quasi disumano ", che tipo di felicità è mai quella che si basa sull'infelicità altrui ?

Saresti disposto ad essere felice, poniamo il caso, veramente felice a scapito della sofferenza di un povero vecchio, causata (anche per necessità) da te, e sapendo che nessun altro al mondo saprà mai il tuo segreto ?

Dostoevskij allora si figura quello che avrebbe risposto Tatjana, nell'Onegin di Puskin, una pura anima russa, a quella domanda:

" fossi anche la sola a non conoscere la felicità e fosse la mia infelicità incomparabilmente più grande dell'infelicità di quel vecchio uomo, e nessuno, nessuno mio marito venisse a conoscenza del mio sacrificio o lo apprezzasse, ebbene NON VORREI ESSERE FELICE A SPESE DI UN ALTRO. "

Bene.

Ma quanti di noi, nel mondo di oggi condividono il principio, il valore che NESSUNA felicità (anche la più piccola) può essere costruita sull'infelicità (anche la più piccola) di un altro uomo ?

La compassione è proprio l'antidoto a questo principio: io NON posso essere felice, se la mia felicità dipende dall'infelicità altrui, perchè L'INFELICITA' ALTRUI E' LA MIA STESSA INFELICITA'.

Ma già Dostoevskij intravedeva nella MANCANZA di compassione il segno del proprio tempo, nel quale ciascuno rifugge dalla compassione per evitare ulteriori sofferenze personali.

Oggi, potremmo dire, questa sembra essere la regola.

Il mondo sembra dominato dall'interesse. E in nome dell'interesse personale (politico, economico, monetario, sociale, ecc..) la compassione viene sacrificata.

Se posso essere ricco costruendo una fabbrica che produce diossina e rende infelice migliaia di persone, cosa importa ?

Se posso guadagnarmi il posto in ospedale, all'università, al lavoro, a scapito di un altro al quale spetterebbe forse più di me, cosa importa ?

Se posso divertirmi sapendo che il mio divertimento causerà la sofferenza di altre persone, cosa importa ?

Ovviamente la mancanza di compassione non è estinta. Però è gravemente minacciata.

E chi ce l'ha nel sangue, chi ce l'ha professata nel proprio credo religioso, perchè la compassione E' un grande valore cristiano (anzi, forse il principale ?? Ama il prossimo tuo come te stesso..), oggi fa fatica.

Ma non bisogna stancarsi.

Bisogna fare il piccolo, bisogna essere umili, bisogna ascoltare il nostro cuore.

E se lo ascoltiamo davvero sentiamo che lui ci dice sempre la stessa cosa, e cioè che la nostra felicità slegata da quella degli altri non è felicità, e che noi siamo uomini, veramente, solo insieme agli altri uomini.

11/05/09

La vita è un dono.


Rifletto da qualche tempo su questa semplice domanda:" La vita, la nostra vita, è un dono ?"Dalla risposta che diamo a questa domanda discendono molte conseguenze. Se rispondiamo che la Vita non è un dono, ma è una situazione 'già trovata', insomma casuale, le conseguenze sono di un tipo. Se rispondiamo che essa E' un dono (a prescindere, per il momento, dachi ce l'ha fatto) le conseguenze sono altre. Intendiamoci prima sul significato della parola 'Dono'.

Proprio qualche tempo fa su 'Avvenire' Paola Springhetti ha interrogato il filosofo francese Jean-Luc Marion proprio sulla 'filosofia del Dono'.

"Dono" dice Marion " è - lo sappiamo - UNO SCAMBIO SENZA CHE CI SIA UN PREZZO DA PAGARE. Ma l'interpretazione - aggiunge il filosofo - è insufficente. Il dono NON E' lo scambio tra due persone che stanno su di un piano di parità. Infatti lo SCAMBIO è reciproco, mentre il DONO non lo è. "Ora chiediamoci:" Qualcuno mi ha fatto UN DONO mettendomi al mondo ?"


La prima risposta che potremmo dare è che sì, sicuramente qualcuno ci ha fatto un dono - gradito o sgradito ora non ci interessa -mettendoci al mondo: e questi sono i nostri due genitori. Loro lo hanno fatto forse anche aspettandosi un 'ritorno': l'appagamento, la soddisfazione di vedere i figli crescere, la riconoscenza... ma non v'è dubbio che nell'istinto di procreare vi sia prima di tutto una percentuale di 'gratuità': la voglia di mettere al mondo una persona nuova. Un figlio che - come dice eloquentemente Gibran - è come una freccia che noi lanciamo, ma che poi nella vita cadrà dove vorrà, andrà dove vorrà.

E a questo proposito Marion ci dice: " Questo dono (il dono dei genitori che danno la vita ai figli) nonpuò essere ricambiato: un figlio potrà amare il padre, ma non potrà mai essere ciò che il padre è stato per lui. E proprio il susseguirsi delle generazioni ci parla del dono che apre alla vita, a nuovepossibilità, al futuro."
Ma passando dal piano della biologia a quello meta-fisico, la domanda "La vita è un dono ?" si complica. E potremmo formularla così: "La vita è un dono che Qualcuno - oltre ai nostri genitori - ci hafatto ? O è solo frutto del caso ?"

E' la stessa cosa che passa tra trovare per caso un portafoglio pieno di monete in strada, mentre camminiamo, o ricevere lo stesso portafoglio da un donatore, da qualcuno che "ha voluto" darcelo. Le conseguenze che si tirano, sono fondamentali, e le vediamo chiaramente nella nostra vita.

Una volta pensare che la vita sia un DONO di Qualcuno era la norma,era del tutto naturale. Chi viveva si sentiva 'in obbligo' verso questo misterioso donatore. Se ricevi un dono - non ci vuole Marion per capirlo - nasce un diverso sentimento: la tua responsabilità. Ti senti comunque 'in debito'.

Anche se sei il più irriconoscente, il più leggero degli uomini, sentirai dentro di te l'esistenza di questo lascito. Oggi invece il pensiero predominante sembra essere quello che la Vita non è un dono. Ma che la Vita l'abbiamo trovata per caso. E forse, di una cosa trovata per caso, non si sa bene neanche cosa farsene. Anche perchè il trovare una cosa per caso non cancella le domande.

Semmai ne fa scaturire di nuove:
"chi l'ha lasciata questa cosa ?"
"Da dove viene? "
"Cosa significa il fatto che io l'abbia trovata percaso ?"
Se hai un figlio, ti riesce difficile immaginare che la vita non sia un dono.

Tuo figlio ti guarda negli occhi, e ti chiede conto ogni giorno:"padre, grazie, " oppure: "padre, perchè?" o ancora "padre è giusto ?" "padre è sbagliato?"

Ti domanda, un figlio.Ti chiede, sempre, e non si stanca.Nello stato in cui siamo invece, sembra che queste domande, meta-fisicamente, non riusciamo più a porcele. C'è solo un vago rimestare:" se io non ho ricevuto nessun dono, non sono in obbligo con nessuno,non DEVO RENDER conto a nessuno. "


Ma subito dopo la frenesia di libertà che questa constatazione genera,sorge il grande vuoto, che inghiotte anche le altre domande. Se la mia vita NON è un dono, allora non ha nemmeno senso.Perchè E' il dono che stabilisce un senso, una direzione.

La vita è a mio umile avviso, troppo forte, troppo piena di senso,troppo drammatica, troppo 'direzionale', troppo viva, troppo vera, per NON essere un dono.

10/05/09

La Visita di Benedetto XVI - Le parole di Charles de Foucauld.


Nei giorni in cui Benedetto XVI visita la Terra Santa - oggi è ancora in Giordania, domani in territorio Israeliano - una visita molto delicata, sotto molti aspetti, voglio ricordare una figura di un mistico completamente legata a quei luoghi. Quando, diversi anni fa, sono andato a Nazareth vi trovai la testimonianza viva e feconda di Charles de Foucauld. Al ritorno da quel viaggio, ripresi in mano i suoi scritti. Che raccontano tanto, di quei luoghi, e della fede che lì trova un Senso ancor più profondo. Vi riporto qua di seguito un brano della stupenda lettera scritta da De Foucauld a Henri de Castries, nel 1901. Sulla quale si può a lungo meditare.


Caro amico, comincerò facendovi una confessione: la vostra fede aveva solo vacillato, la mia è rimasta completamente morta per molti anni. Per dodici anni ho vissuto senza alcuna fede: nulla mi sembrava abbastanza dimostrato. La stessa fede con cui si seguono religioni così diverse mi sembrava la condanna di tutte. Quella della mia infanzia mi sembrava la più inammissibile, con il suo 1=3 [il mistero della Trinità] che non potevo risolvermi a considerare plausibile:

l’islamismo mi piaceva molto, con la sua semplicità, semplicità di dogma, semplicità di gerarchia, semplicità di morale; ma vedevo chiaramente che era privo di un fondamento divino e che la verità non era lì. Sono rimasto per dodici anni senza negare e senza credere nulla, senza sperare nella verità, e senza nemmeno credere in Dio, visto che nessuna prova mi sembrava abbastanza evidente... Vivevo come si può vivere quando l’ultima scintilla di fede si è spenta... Con quale miracolo la misericordia infinita di Dio mi ha ricondotto da tanto lontano?

Mentre ero a Parigi per far stampare il resoconto del mio viaggio in Marocco, mi sono trovato insieme a persone molto intelligenti, molto virtuose e molto cristiane e mi sono detto che forse questa religione non era assurda; al tempo stesso, una grazia interiore estremamente forte mi spingeva. Mi misi ad andare in chiesa, senza credere; solo lì mi trovavo bene, e passavo lunghe ore a ripetere questa strana preghiera: «Mio Dio, se esistete fate che Vi conosca!»..

Mi venne l'
idea che dovevo informarmi su questa religione, dove forse si trovava quella verità che disperavo di trovare; e mi dissi che la cosa migliore era quella di prendere lezioni di religione cattolica, così come avevo preso lezioni di arabo; come avevo cercato un buon thaleb che mi insegnasse l'arabo, così cercai un sacerdote istruito che mi desse informazioni sulla religione cattolica...

Mi parlarono di un sacerdote molto distinto, ex allievo dell’Ècole Normale; lo trovai nel suo confessionale e gli dissi che non ero lì per confessarmi, perché non avevo fede, ma che desideravo avere qualche informazione sulla religione cattolica...

Il buon Dio, che aveva cominciato in modo così potente l’opera della mia conversione, attraverso questa grazia interiore così forte che mi spingeva in chiesa quasi irresistibilmente, la portò a termine: il sacerdote divenne il mio confessore e, per i quindici anni trascorsi da allora, non ha smesso di essere il mio migliore amico. Non appena credetti che c'era un Dio, compresi che non potevo fare altro che vivere per Lui: la mia vocazione religiosa risale alla stessa ora della mia fede.Non appena seppi che c’era un Dio non ho potuto far altro che dargli fiducia...“.


Vita di Charles de Foucauld:



Notizie in tempo reale sulla Visita del Papa in Terra Santa:



Altri scritti di Charles de Foucauld:



Album fotografico di Charles de Foucauld:



04/05/09

La risposta di Enzo Bianchi a Mancuso. Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.


Pubblico qui di seguito la risposta di Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, all'articolo pubblicato da Vito Mancuso, di cui abbiamo dato notizia nel post precedente.


Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.


Il senso cristiano della parola «salvezza» è sempre più sconosciuto, eppure la domanda di salvezza - anche se espressa con termini diversi - risuona con forza perché oggi più che mai emerge il desiderio di ogni uomo e di ogni donna. Essere liberi dalle alienazioni che contraddicono la condizione umana, redenti dalla morte e dalla sofferenza nelle sue molteplici forme, liberati dalle schiavitù che opprimono il corpo e la psiche e impediscono all’uomo di essere ciò che vorrebbe, salvati dal male che si può fare o ricevere: tutto questo significa trovare salvezza, salvarsi, essere salvati. Tutti gli esseri umani sono abitati da una domanda di salvezza che talora si manifesta come grido disperato, talaltra come ricerca perseguita con impegno e determinazione, altre volte ancora sotto la forma di un interrogativo inespresso, una non-domanda. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani coinvolge in questa domanda di salvezza il cosmo intero: «la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere pure lei liberata dalla schiavitù della corruzione... Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-23). La salvezza cristiana ha allora una portata cosmica: vi è una speranza di salvezza, una trasfigurazione avvertita come necessaria dal cosmo intero.


Così, quando l’uomo chiede salvezza, si fa voce anche di tutte le creature, animate e inanimate. A questo dolore cosmico non può che corrispondere una salvezza cosmica, salvezza che appare soprattutto come liberazione dalla morte, come nuova creazione dove «non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,4). Con una certa audacia si potrebbe affermare anche che ogni essere umano, in virtù di un dinamismo che precede il suo volere e il suo sentire, è attirato verso la salvezza assieme a tutta la creazione. Salvezza che, per essere autentica, deve declinarsi come liberazione dalla morte: così nella loro attesa di salvezza i cristiani sono chiamati a sperare per tutti nella venuta definitiva del Signore che apporterà alla storia il suo compimento. Ora, nella fede cristiana questa salvezza è azione di Dio nella storia, dall’in-principio fino a quando la storia stessa troverà il suo compimento. Per i cristiani, quindi, c’è una storia di salvezza grazie a un’azione di Dio - acclamato già da Israele come Goel, «Redentore», nell’uscita dall’Egitto - che ha il suo culmine nell’incarnazione, nell’umanizzazione di suo Figlio.

Il Dio dei cristiani è il Dio che salva, che si prende cura del sofferente; è il compassionevole che accorre dove c’è la vittima, le si fa vicino e non l’abbandona neanche al di là della morte. È quanto ha fatto Gesù - il cui nome significa «il Signore salva» - con le persone che incontrava: è passato tra gli uomini salvando le vite, come ci testimoniano i Vangeli con la loro narrazione di storie personali e di relazioni con Gesù. E avendo vissuto l’amore fino all’estremo e senza contraddizioni, Gesù quale Figlio è stato risuscitato dal Padre in modo che l’amore di Dio, l’amore che è Dio vincesse la morte. L’evento dell’alba pasquale sigilla la presenza della salvezza autentica: Gesù risorto ha trionfato sulla morte ed è veramente il Kyrios, il Signore della Chiesa e del cosmo. Questa è la fede cristiana e la declinazione della salvezza cristiana, oggi non capìta neppure da molti cristiani che non osano credere nella risurrezione di Gesù, nella vittoria dell’amore sulla morte e sovente preferiscono pensare alla salvezza come realizzazione di sé, guarigione, felicità da acquisire nell’istante che passa, speranza terapeutica di tutti gli aspetti della realizzazione di sé. Così l’attesa della salvezza si è fatta individualistica: ciascuno si limita a sperare per sé, per la realizzazione dei propri interessi, identificando la salvezza con una promessa personale di vita senza gli altri o persino contro gli altri.

Questa deriva dell’idea di salvezza va denunciata con chiarezza senza pertanto misconoscere le molteplici ferite che affliggono l’esistenza quotidiana, le sofferenze nascoste sotto la superficie patinata di una società costantemente intenta a darsi un’immagine luccicante di illusioni. Ecco perché la storia della salvezza va coniugata con la salvezza delle storie: già qui e ora si può sperimentare la salvezza come arte del vivere quotidiano, una salvezza sì personale, ma anche solidale con gli altri e con il cosmo. È quanto ha testimoniato l’esistenza terrena di Gesù, il suo percorso di ricerca del senso della vita, della liberazione dalla morte.

La fede cristiana pensa dunque che la salvezza è opera di Dio, che l’uomo non si salva da se stesso, che questa salvezza ha avuto la sua pienezza in Gesù Cristo, l’unico salvatore del mondo, al quale competerà l’atto finale della storia, il «giudizio» che mostrerà come la salvezza è stata offerta a tutti ed è da tutti perseguibile, ma rivelerà anche chi potrà parteciparvi, in base alle scelte operate durante la propria vita, scelte secondo l’amore, che portano alla via della vita, o scelte contro l’amore, che conducono sulla via della morte e del nulla. Purtroppo oggi nella Chiesa questa predicazione sul giudizio escatologico è carente rischiando così non solo di dimenticare l’orizzonte della storia e le realtà ultime, ma anche di smarrire la comprensione della vera e definitiva salvezza.

Un filosofo ateo come Adorno ha osato pensare la liberazione per tutti e non a caso ha concluso che questa potrebbe esserci se ci fosse un giudizio finale, una risurrezione dei morti che introducesse le vittime della storia in una condizione di salvezza e di restituzione all’integrità. Questa per i cristiani è una convinzione essenziale della fede: se infatti Cristo non è risorto, se non ci sarà giudizio finale, vana è la nostra fede e noi cristiani siamo da compiangere come i più miserabili (cfr. Prima Lettera ai Corinti 15, 17-19). A questa concezione cristiana si opposero ben presto altre letture della salvezza o altre salvezze, come quella dichiarata dalle «gnosi», dove la salvezza consiste in una presa di coscienza da parte dell’uomo di se stesso e della sua identità divina originale avente in sé, senza Dio, una capacità di redenzione. Oggi, sulla scia delle gnosi, attraversano la nostra cultura molte concezioni di salvezza che negano o attenuano l’azione di salvezza del Dio vivente nella storia: poco attente alla «storia di Gesù di Nazareth», sono portate a relegare l’evento della croce e della risurrezione di Gesù a semplice eloquenza dell’amore. Se la vicenda della rivelazione di Dio da Abramo a Mosè fino a Gesù è ridotta a una storia particolare, che riguarda un tempo e un popolo particolare, la si coglie come vicenda incapace di portata universale, come invece l’ha sempre letta la tradizione cristiana.

È per questo che, senza voler giudicare eretico Vito Mancuso né tanto meno volerlo condannare, ho letto i suoi due ultimi libri come appartenenti alla galassia di una gnosi oggi risuscitata. La fede cristiana, e non solo quella cattolica, è invece convinta che Gesù di Nazareth è stato ed è «l’immagine del Dio invisibile», «l’esegesi del Padre», il Figlio di Dio fattosi uomo, il giusto condannato e crocifisso perché in un mondo ingiusto questa è la fine che spetta al giusto. Sì, Gesù ha vissuto l’amore e la giustizia fino all’estremo e ci ha insegnato a vivere così quale vero uomo, l’uomo come Dio lo ha pensato nel crearlo. Con la risurrezione Dio ha mostrato che l’amore vissuto dall’uomo Gesù vince la morte e che dunque la salvezza è data a tutti quelli che si conformano a lui. Ecco perché, se nel mondo non ci fosse la Chiesa, verrebbe meno il segno e lo strumento del piano di Dio di riunire tutti gli uomini nell’unico corpo di Cristo, così che «l’uomo diventi Dio», secondo l’adagio dei padri orientali. Ma a questa salvezza possono partecipare tutti gli uomini di tutte le epoche e di tutte le culture quando, percorrendo vie di umanizzazione, si rendono conformi a Dio. È quanto ha rivelato Gesù nel discorso sul giudizio universale nel Vangelo secondo Matteo. L’evento della morte-risurrezione di Gesù per i cristiani è l’unico evento di salvezza, un evento di portata universale: «Cristo è morto per tutti - ricorda il concilio - e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).

Tutti gli esseri umani, non solo i cristiani, non solo quelli che sono nella Chiesa, ma anche quelli «extra ecclesia» possono essere salvati da Cristo e la salvezza ha destinazione cosmica. Questa visione della storia di salvezza non si nutre di «miserabili artifizi, né di salti logici clamorosi», ma nasce dalla visione consegnataci dall’Antico e dal Nuovo Testamento in cui un popolo marginale, Israele, un ebreo marginale, Gesù, una comunità marginale come la Chiesa non sono una delle storie possibili, ma la storia scelta da Dio per fare alleanza con tutta l’umanità, perché il suo Nome possa regnare come speranza di salvezza per tutti quelli che nella libertà e per amore aderiscono alla buona notizia o all’immagine di Dio impressa per sempre da Dio stesso in ogni uomo fin dalla creazione. La storia del popolo di Dio, la vicenda terrena di Gesù è particolare, ma con la sua morte e risurrezione Gesù è anche morto all’appartenenza ristretta a un gruppo particolare, per rinascere all’universalità, a una presenza diffusa ovunque dal suo Spirito santo. La salvezza passa sì attraverso una storia particolare, ma è destinata e si estende universalmente.



ENZO BIANCHI - La Stampa 3 maggio 2009.

30/04/09

Mancuso vs. Bianchi - Una disputa sulla Salvezza.


Credo che molti di voi avranno letto, pochi giorni fa, martedì per l'esattezza, l'articolo in prima pagina su La Repubblica, nel quale Vito Mancuso risponde a Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, che su Famiglia Cristiana aveva espresso critiche e riserve sul libro scritto a quattro mani dal teologo del San Raffaele insieme a Corrado Augias, "Disputa su Dio".

Chi non l'ha letto può recuperarlo qui .

Mi piacerebbe parlarne con più calma perchè sono piuttosto perplesso, anzi parecchio perplesso dalla deriva di sovra-esposizione mediatica che sta da settimane ormai attanagliando il nostro buon teologo.Oltretutto anche certe sue posizioni ultime non mi piacciono e non mi convincono, e non ho difficoltà a dire che nella disputa mancuso vs. bianchi, sono dalla parte di Bianchi. In realtà la polemica sulla salvezza extra ecclesiam di Mancuso mi sembra un po' pretestuosa.

Specie laddove si tira fuori il trito argomento di coloro che sono vissuti prima di Cristo e di coloro che non hanno conosciuto o non conoscono Cristo.

Mi sembra che Gesù ripete nei Vangeli, e i fedeli lo ripetono tutte le volte che facciamo la comunione, che Lui è venuto per salvare IL MONDO, e per togliere i PECCATI DEL MONDO. Dunque, se Egli salva il MONDO, salva potenzialmente e concretamente tutto il mondo anche quello che è venuto prima di lui e quello che non conosce Lui.

E mi sembra che Mancuso faccia confusione e sovrapponga in modo assai disinvolto la Chiesa degli uomini con la Chiesa di Cristo. Ma questo discende proprio da un suo presupposto che mi sembra carente: egli cioè fa teologia molto spesso prescindendo dalla centralità della figura del Cristo, e della persona di Cristo, cosa che per un cristiano è assai frustrante, e che invece per atei/agnostici/razionalisti è quanto mai suadente, visto che è proprio l'argomento Cristo ad essere oggi quanto mai 'scandaloso' e quanto mai ' politically in-correct'.

Ecco, non vorrei che tutto questo fosse un po' .. studiato a tavolino (ferma restando la stima per il brillante e colto teologo..)


.

24/04/09

La crisi, il denaro, la ricchezza, i cristiani e... Gesù.


Devo dire che mi ha fatto molto piacere sentire dalla bocca del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, a margine di un incontro con la stampa, a Mestre, queste parole, quando un intervistatore gli ha chiesto di commentare l'attuale sconvolgente crisi economica:


"Come invita il messaggio cristiano, bisogna avere sempre una coscienza chiara, capace, anche quando e' il caso e in forma misurata, dI denunciare le contraddizioni di cio' che non va. Adesso e' molto importante, realmente, nel senso nobile del termine, che le regole del mondo della finanza vengano riscritte, come mi pare si sta tentando di fare. E mi sembra che il criterio di fondo per riscrivere queste regole sia quello di non dimenticare, come si e' dimenticato, che il valore numero uno, anche nell'intrapresa finanziaria, ha da essere la persona e la persona in relazione a cui bisogna subordinare il resto".

Mi dispiace soltanto che parole di questo tono si siano sentite raramente - anche in ambito di gerarchie cattoliche - negli anni in cui tutto è stato sacrificato alla logica del profitto e del mercato, in occidente, con i risultati che tutti ormai abbiamo sotto gli occhi. Eppure, per un cristiano non dovrebbe essere difficile, anche soltanto aprendo i Vangeli, sapere che senso abbia la ricchezza materiale, di beni e di denaro, su questa Terra. Come sappiamo, Gesù è l’antitesi di Satana: alla bramosia dei beni materiali e del potere sulla natura e sull’uomo, Gesù sceglie come valore supremo “l’essere”. Gesù compie questa scelta nel deserto, dove non ci sono comodità né ricchezze, ma solo le cose strettamente necessarie alla sopravvivenza.


Di qui la sua scelta a una vita povera, itinerante e senza sicurezze, tanto da definirsi come “uno che non ha dove posare il capo” (Lc 9,58).Egli vive per primo e in pienezza quanto insegnerà: “... che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). Il suo distacco dalle ricchezze è totale, radicale. Egli “cerca innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia” e “liberamente” sceglie una vita che gli permette di appartenere totalmente alla sua missione e di testimoniare tutta la sua fiducia nel Padre.


Egli guarda gli uccelli del cielo e i gigli del campo: sa di valere più di loro, per questo “cerca prima il regno e la sua giustizia”, sicuro che il Padre non gli lascerà mancare il necessario; si affiderà in continuità al Padre; egli non porta con sé né borsa né bisaccia e si accontenta di quello che gli danno (vedi Lc 10,3.8).


Accanto a lui, uniti alla sua missione, ci sono sempre persone (discepoli e discepole) che lo seguono e che lo assistono con i loro beni (8,3). E quando spezza il pane rende grazie, riconosce che tutto è dono del Padre che lo sostenta nel suo cammino. Gesù sa, che solo nel vivere distaccato da ogni bene materiale, può godere di quella libertà che gli permette di vivere in pienezza la sua missione: “annunciare il regno di Dio” (Lc 4,43); essere con gli altri e per gli altri, cioè “servo”.


Sarebbe bello - anche se ahimè appare oggi ancora del tutto utopistico - immaginare una economia fatta dagli uomini non per acuire e consolidare i propri privilegi, ma costruita per essere 'serva' degli altri e per gli altri.


( ringrazio per il contributo dato a questa meditazione il portale http://www.donbosco-torino.it )

20/04/09

Oggi, 39 anni dalla morte di Paul Celan.

Il 20 aprile del 1970 moriva tragicamente, con un tuffo nella Senna, uno dei più grandi uomini del Novecento, Paul Celan. Nato a Cernauti, in Romania, nel 1920, è stato un poeta grandissimo, la cui opera ancora oggi rifulge come una delle voci più autentiche e moderne della letteratura contemporanea.


Una esistenza tragica, contrassegnata dalla costante fuga - lui ebreo - prima dalle atrocità del nazismo (ma perde sia il padre che la madre, fucilata in un campo di concentramento), poi da quelle del comunismo.


Un pensiero profondissimo che ha ispirato tutta la sua opera, con la frequentazione ravvicinata delle personalità più importanti della riflessione filosofica del secolo, prima fra tutte quella di Martin Heidegger.


Paul Celan è una voce cara ai cristiani. Le sue poesie tragiche, vere, dolenti, confortanti, aprono ogni volta il nostro cuore. Lo ricordiamo qui, con questa poesia, tratta da AtemKristall:


Nei solchi di quella moneta
celeste tra stipite e porta
tu pressi il Verbo, da cui
mi srotolai
allorché con pugni tremanti
smantellai tegola dopo tegola,
sillaba dopo sillaba,
il tetto sopra di noi, per amor
del rame luccicante
nella ciotola della questua
lassù.



notizie su Paul Celan:


.

19/04/09

Benedetto XVI, l'82mo compleanno, e il nazismo - Il Papa si sente chiamato a sradicare i germi ancora vivi della ideologia distruttiva.

Anche se i media non amano molto questo pontificato, e continuano ad interessarsi unicamente di questioni pur importanti come la contraccezione in Africa, o la revoca ai lefebrviani, Benedetto XVI continua, silenziosamente a condurre certe sue battaglie, anche nei giorni in cui si festeggia il suo 82mo compleanno e il 4.o anniversario del suo pontificato.

Come Papa Wojtyla ha interpretato la sua ascesa al Pontificato anche come una chiamata per l'intera Polonia a riscoprire la propria dignita' offuscata dalla dittatura comunista, il Pontefice tedesco si sente chiamato a sradicare i germi ancora vivi del nazismo, come spiega l'agenzia di stampa AGI.

Negli ultimi mesi di questo quarto anno di Pontificato, Benedetto XVI e' tornato molte volte a parlare del nazismo, un'ideologia che ha causato la Shoah e la seconda guerra mondiale ma anche tante sofferenze al popolo tedesco".

La Shoah induca l'umanita' a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell'uomo, ha auspicato al termine dell'udienza di mercoledi' 28 gennaio, riprendendo la profonda meditazione del suo discorso del giugno 2005 nel campo di concentramento di Auschwitz.

Non ha solo condannato ogni forma di oblio e di negazione della tragedia dello sterminio di sei milioni di ebrei, ma ha richiamato i drammatici interrogativi che questi eventi pongono alla coscienza di ogni uomo e di ogni credente. "Perche' - come ha sottolineato il portavoce vaticano Federico Lombardi - la fede nella stessa esistenza di Dio che viene sfidata da questa spaventosa manifestazione della potenza del male. La piu' evidente per la coscienza contemporanea, anche se non la sola. Benedetto XVI lo ha riconosciuto lucidamente nel discorso di Auschwitz, facendo sue le domande radicali dei salmisti a un Dio che appare silente ed assente".

Del nazismo il Papa ha parlato anche a partire dalla propria esperienza personale. "La nostra vita e' stata segnata dalle sofferenze del nazismo e della guerra", ha ricordato il 17 gennaio parlando in occasione del Concerto offerto dalla diocesi di Ratisbona per l'85esimo compleanno di suo fratello,
mons. Georg. La famiglia Ratzinger fu infatti vittima, come tante altre in Germania, della macchina di morte del regime nazista contro "i malati o i difettosi": un cugino, poco piu' giovane di Joseph e Georg, nato con la sindrome di Down, fu portato via dalla sua casa nella Baviera sud-orientale in base alle nuove disposizioni del Terzo Reich, che proibivano ai figli handicappati di rimanere coi propri genitori.

Di fronte alle vibrate proteste dei familiari, gli inviati del Reich si mostrarono inflessibili: nessuno vide mai piu' il ragazzino. Molto tempo dopo la famiglia ricevette la notizia che il piccolo era morto. Questo dramma ha segnato profondamente entrambi i fratelli Ratzinger.

Appena un mese dopo quel Concerto, il 21 febbraio, incontrando la Pontificia Accademia della Vita in occasione di un simposio sulle nuove frontiere della genetica, il Papa ha denunciato con forza il rischio di un ritorno a forme di eutanasia eugenetica che il mondo ha gia' conosciuto ad esempio nell'antica Roma, dove i bambini handicappati venivano gettati dalla Rupe Tarpea, e nella Germania nazista.

fonte AGI : http://www.agi.it/

nella foto: Joseph Ratzinger studente di teologia a Frisinga.





18/04/09

Clonazione - L'allarme di Padre Giertych .

Sono personalmente atterrito di fronte a certi scenari che può intraprendere la ricerca scientifca nel campo della clonazione umana. Trovo perciò quanto mai interessante pubblicare questo allarme lanciato da padre Giertych, attento ossevatore di questo campo.

"La clonazione umana incontra l'opposizione disgustata di tutti coloro, cristiani e non, che percepiscono spontaneamente l'inalienabile dignita' dell'essere umano". Ma ugualmente, lamenta sull'Osservatore Romano padre Wojciech Giertych, teologo della Casa Pontificia, in molti laboratori si continua a lavorare a questo progetto, tanto che siamo davanti a quella che appare come una "incombente prospettiva che genera giustamente la risposta estremamente allarmata dell'umanita'".

E se nel campo dell'educazione "un programma di formazione che neghi l'individualita' e lo sviluppo delle virtu' personali e che richieda solo un'esatta imitazione di un'identita' imposta" sarebbe qualificato come "essenzialmente inumano", ben maggiori riserve suscita l'idea della fabbricazione in laboratorio di cloni uguali in tutto al genitore clonato o anche semplicemente "prodotti" per esigenze terapeutiche, cioe' "con un patrimonio genetico prefissato, da cui si potrebbero raccogliere cellule staminali embrionali per la produzione di farmaci" da utilizzarsi a favore di altre persone "per superare il problema dell'incompatibilita' immunologica nei trapianti".

La storia - afferma il religioso domenicano - e' piena di tragici esempi di ideologie che sono nate da menti chiuse nell'orgoglio intellettuale, non disponibili ad accettare, con un atteggiamento umile, la verita' della realta'". Citando il recente documento della Congregazione della Dottrina della Fede intitolato "Dignitas personae", padre Giertych ricorda che "gli interventi tecnici che distorcono la natura e la finalita' della procreazione rappresentano un tragico attacco alla dignita' umana", in quanto l'uomo "non puo' essere trattata allo stesso livello della zootecnia: l'adattamento dei processi riproduttivi in piante e animali intrapreso per esigenze umane e reso possibile dagli sviluppi della biotecnologia diviene inammissibile se applicato alla procreazione umana".








12/04/09

E' risorto !


Anche oggi risorge nel cuore degli uomini. Anche oggi, e sono passati duemila anni. Intere generazioni hanno portato consapevolmente o inconsapevolmente dentro le loro storie, la fatica di tutti i giorni, le vite di anni e anni, le Sue parole, l'esperienza della Sua presenza viva, e l'hanno trasmessa alle generazioni future, fino a noi, uomini del ventunesimo secolo.

Anche oggi lo scandalo della pietra rotolata è inaccettabile per molti, ma come ha detto il Papa pochi minuti fa, nel messaggio Urbi et Orbi, i cristiani sono 'follemente' convinti che questa non sia un mito ne' un sogno, non una visione ne' un'utopia, e nemmeno una favola, ma un evento unico ed irripetibile.

E sanno che senza questa 'follia' lo stesso Cristianesimo - e tutta la loro fede con esso - non avrebbe alcun senso.

Sì, Cristo è risorto. Apparve alla Maddalena, apparve ai discepoli: essi lo hanno testimoniato. E molti di loro, dopo sono morti per testimoniarlo. A questo crediamo. Questa è la nostra speranza in vita, e in morte e dopo la morte.

Buona Pasqua a tutti !
.