28/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 6 - CONVERSAZIONE.


Siccome, come appare del tutto evidente e come aveva già intuito il saggio Epicuro 300 anni prima di Cristo, dalla pòlis (cioè da tutto ciò che è pubblico, istituzione pubblica, struttura pubblica) non potrò aspettarmi il perseguimento della causa della felicità umana, e quindi della mia personale felicità, so già che io dovrò assumermi in prima persona la responsabilità della mia felicità.

Per essere felice e offrire una vita degna alla mia anima, dovrò ricordarmi dell’importanza della conversazione.

Un uomo incapace di conversare con un amico difficilmente potrà essere felice.

La conversazione tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri è ciò che di meglio la vita ha da offrirmi.

Per fare questo dovrò imparare ad ascoltare.

Le conversazioni migliori sono quelle in cui c’è uno scambio di idee e in cui si mette alla prova la verità.

Una conversazione intelligente e aperta nel cuore con una persona amica è l’antidoto contro qualsiasi dolore, l’incoraggiamento per qualsiasi impresa, la spinta a migliorarsi e a crescere, a comprendere qualcosa in più del grande mistero in cui sono calato.

Nella conversazione intelligente, proficua e piacevole tra amici ritroverò sempre il senso della mia natura veramente umana.

Come diceva Blaise Pascal sono solo le conversazioni che formano l’intelletto.

26/07/11

La tragedia di Oslo - qualche considerazione.



Non riesco a immaginare quale sarà il mio stato d’animo durante l’operazione. Probabilmente scatterà durante un ciclo di steroidi e, per di più, sotto l’effetto di efedrina. In questo modo cresceranno di almeno il 50-60% (forse il 100%) aggressività, prestazioni fisiche e concentrazione mentale. L’iPod al massimo volume mi aiuterà a sopprimere la paura, se necessario... Ho un corpo più o meno perfetto. Sono felice, il mio morale è al massimo per come le cose procedono. Ho iniziato un nuovo ciclo di steroidi per accrescere la massa muscolare: spero di superare gli attuali 90 kg e arrivare a 100, o almeno a 95. La mia psiche è estremamente forte, più forte di chiunque io abbia mai conosciuto.

Sono le parole che Anders Behring Breivik, lo stragista di Oslo e dell'isola di Utoya aveva scritto nei suoi deliranti diari.

Emerge chiaramente che la necessità per Breivik, per potersi abbandonare all'orrore e in definitiva al male, era quello di turarsi gli occhi - steroidi ed efedrina che bloccano le percezioni reali rendendoti simile ad una bestia - e turarsi le orecchie - bombardandosi con una musica (non importa quale) sparata al massimo volume.

Gli occhi deformati dalle droghe chimiche consentono - hanno consentito - di non vedere l'essere umano che aveva di fronte.

Le orecchie murate dal suono consentono di non ascoltare le invocazioni umane di pietà, i lamenti dei feriti, le agonie dei moribondi.

E' questo, dunque che oggi come sempre, permette al male di esistere: la cancellazione della percezione umana, che pure ad ogni uomo è data dalla nascita.

La dis-umanizzazione che permette il male parte da questo, sempre.

Lo aveva capito e descritto in modo esemplare S.Kubrick in quel profetico film 'A Clockwork Orange' dove l'ultraviolenza gratuita - e puramente 'estetica' -  passavano per le stesse strade (droghe per gli occhi, musica per le orecchie).

Non a caso in quel film, anche il violento, terribile processo di rieducazione di Alex - la famosa 'cura Ludovico' - passava ancora per le stesse strade.  All'a-morale iperviolento Alex venivano - con violenza - per forza tenuti aperti gli occhi (per guardare in faccia l'orrore), venivano per forza aperte le orecchie.

Col risultato però, di trasformarlo, all'opposto in un docile disadattato.

Oggi, siamo a quel punto.  L'unico vero antidoto alla violenza e al male resta solo e soltanto uno: quello di mantenere sempre - sempre - gli occhi e le orecchie aperte.  Di non chiudere mai gli occhi, di non tapparsi mai le orecchie. Mai.

Fabrizio Falconi

25/07/11

"L'infinita idiozia del Male" - di Claudio Magris.





Propongo per i lettori del blog, la più lucida e condivisibile analisi che ho letto sui terribili fatti di Norvegia di questi giorni che ci costringono ancora una volta a interrogarci sulla natura del male umano. L'articolo di Claudio Magris è comparso oggi sul Corriere della Sera.


Finché non emergeranno inoppugnabili - per ora altamente improbabili - prove di una cospirazione terroristica, l'inaudito massacro norvegese va considerato un fatto di cronaca nera, ancorché di immani proporzioni. Esistono certo nel mondo tante e antitetiche associazioni terroristiche capaci di qualsiasi efferatezza, ma esiste anche il crimine - ancor più misterioso e più inquietante proprio perché spesso apparentemente immotivato - che nasce, si organizza e si consuma nella mente di un solo individuo, all'infuori di ogni pur delirante progetto politico.

Come ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista, cercare sempre il complotto (a suo modo razionale pur nella sua perversità), la spiegazione politica e sociologica, un preciso disegno collettivo, è un modo inconsapevole di rassicurarsi, identificando un ordine pur abbietto; un modo di abbandonarsi a fantasticherie su trame enigmatiche, fondamentalmente paurose ma anche involontariamente gratificanti, come è spesso gratificante soffermarsi sulle vaghe immagini dell'incubo, dell'orrore e della paura. Interpretare o cercare di interpretare dà sempre conforto, quando non addirittura supponente compiacimento; dinnanzi a tanti delitti ancora insoluti i pareri sulle loro più o meno nascoste motivazioni sembrano più importanti (e occupano più spazio nei giornali) delle indagini, che invece sono in quel momento la prima e forse l'unica cosa che conti.

Certamente, come diceva uno strombazzato e spesso pappagallesco ma veritiero slogan sessantottesco, «tutto è politico». Nessun individuo arriva dalla luna. Ognuno è intessuto del mondo in cui vive, sia egli un solitario misantropo o il più socievole degli uomini; vive nel mondo e almeno in parte lo assorbe, mescola al proprio dna ciò che penetra consapevolmente o inconsapevolmente in lui dalla realtà esterna. Non c'è idea, passione, abitudine, desiderio, paura, comportamento che sia unicamente nostro; è vero che, come dicevano i filosofi Scolastici, l'individuo è ineffabile o almeno che c'è in ognuno qualcosa di ineffabile, ma anche questa imprendibile e mobile ombra del nostro cuore è intessuta di socialità.

Detto questo, resta una netta differenza tra il gesto individuale di una persona e un progetto, collettivo anche se messo in atto individualmente, di un'organizzazione. L'omicida norvegese sembra assimilabile, con alta probabilità, ai Landru o a Jack lo Squartatore - pure essi, come tutti, figli del loro tempo - piuttosto che agli assassini dell'Italicus o di Piazza Fontana. Sarebbe infame usarlo per infangare l'uno o l'altro movimento politico. Il suo gesto atroce mostra la continua latenza del male, la sua possibilità di scatenarsi in qualsiasi inatteso momento; rivela la nostra convivenza quotidiana, gomito a gomito, con il male, sempre in agguato e talora spaventosamente in azione.

Quella macelleria di esseri umani mostra pure l'infinita banalità e idiozia del male e della violenza, che tante volte ci vengono invece mostrati quasi avvolti di seduzione, espressioni di chissà quali infere ma profonde verità; il coltello di Jack lo Squartatore sembra aver affascinato come la spada di un angelo diabolico tante persone, anche se non certo il ventre squarciato e le sofferenze delle donne da lui uccise, le uniche, vere protagoniste di quella tragica storia, in cui lui è una sia pur sciagurata comparsa. È una vergogna, pur inevitabile, mandare a memoria il nome dell'assassino norvegese e non quelli delle sue vittime.

Quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa assomigliare quell'assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio. Naturalmente anch'egli è un uomo la cui umanità non si esaurisce nei suoi crimini, uomo che va perseguito ma anche tutelato secondo la legge uguale per tutti, anche per gli efferati assassini; un uomo che probabilmente avrà avuto le sue ossessioni, le sue sofferenze, le sue paure. Si può e si deve avere rispetto - a parte la qualificazione giuridica dei suoi atti e la pena da essi richiesta - perfino per lui, ma non - secondo la banale retorica del male - perché è un assassino, bensì nonostante sia un assassino. Il suo delitto è la cosa non solo più orrenda, ma anche più stupida, più meccanica, più ottusa della sua vita. L'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito «un fondamentalista cristiano», termine privo di qualsiasi senso. Spesso, fra l'altro, si identifica erroneamente il fondamentalismo con l'integralismo, specialmente religioso, di una o di un'altra fede (oggi soprattutto quella islamica), e in generale con una forma particolarmente intollerante di tradizionalismo religioso. Il fondamentalismo ha poco o nulla a che fare con la tradizione, anche con quella più gelosamente custode dell'osservanza e dell'immobilità di un credo. Il fondamentalismo non è un fenomeno tradizionale, radicato nel passato, ma è un fenomeno squisitamente moderno, caratteristico delle società di massa e della globalizzazione, così come - per fare un esempio - il fascismo è un fenomeno totalitario moderno radicalmente diverso dagli autoritarismi del passato.

Quel dito meccanicamente omicida non dovrebbe indurre a riflessioni sulle società ricche e tranquille come quella norvegese o a disquisizioni del genere. Altre forme del male - queste sì politiche, sociali, collettive - giungono non solo da società arretrate e barbariche, bensì pure da società aperte e civili, considerate modelli di democrazia quali ad esempio l'Olanda o certi Paesi scandinavi in cui avanzano aggressivi movimenti xenofobi in aperto contrasto con la tradizione dei loro Paesi. Se la xenofobia è più forte in Olanda che in Spagna, ciò deriva forse dal fatto che la cultura di quest'ultima, come di altri Paesi, ha conservato più a fondo quel senso sacro della vita che distingue fortemente i molti, moltissimi valori che devono essere messi in discussione da quei due o tre valori essenziali (per esempio l'uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dall'appartenenza sessuale, etnica, religiosa o di altro genere) che dobbiamo considerare come assoluti, non più discutibili e non più negoziabili. Molto, quasi tutto, deve essere optional , ma non tutto. Quando «tutto è possibile», come scriveva con orrore Dostoevskij, il mondo diventa orribile. Ma non si può fare di questo una colpa all'assassino norvegese, né fondamentalista né cristiano; è sufficiente addebitargli oltre 90 omicidi.


24/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 5 - RESPONSABILITA'



Dovrò ricordare che niente nasce e cresce senza responsabilità.

La cura è ciò che mi distingue dall’indistinto essere.

Curare vuol dire vivere due vite: la mia e quella ci ciò che curo.  Non potrò mai farmi scudo della stanchezza, né cercherò di obiettare ‘così fan tutti.’

Cercherò di dimostrare che la mia vita ha un senso, non sperperando il mio talento, ricco o misero che sia.

C’è un filo rosso che lega la presenza della mia vita a quella dei miei predecessori: senza di loro io non sarei esistito, senza la loro cura io nemmeno avrei mosso un piede su questa terra.

La stessa cura io la eserciterò fino alla fine per ciò che ha diritto a crescere e prosperare grazie alla mia esistenza.

Non dirò ‘non mi riguarda’, ‘non mi appartiene’, ‘non mi interessa’.  

Non butterò via il ramo con il frutto. Senza curare il ramo, nessun frutto potrà mai crescere.

Io invecchierò portando il peso del mondo, e questo peso, nel confine della mia ombra terrestre, cercherò di alleggerire.  Incontrando, visitando, ascoltando.

Ognuno, come scrisse Saint-Exupéry – è responsabile di tutti. Ognuno da solo è responsabile di tutti. Ognuno è l’unico responsabile di tutti.

Fabrizio Falconi

foto di Francesco Rosa - 2011. 

04/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 4 - AMORE



Ricomincerò ogni giorno dall’inizio.

E l’inizio è il primo sorriso ricevuto sepolto nella mia infanzia. Ogni inizio è un sorriso di infanzia e se non saprò ritrovarlo nei giorni che vivo, il mio tempo sarà del tutto sprecato.

Un no non è uguale a un sì, e un concedersi non è uguale a un negarsi.

Quel che ho imparato potrò restituirlo in forma d’amore soltanto se avrò imparato a stare da solo. 
Il silenzio e la prudenza sono le costellazioni che mi guideranno da te.

Quando arriverà la notte, forse saremo pronti. 

E lo saremo soltanto se il mio fuoco avrà bruciato quel che c’è da bruciare ed io sarò pronto a ricominciare con te.

Dovrò ricordare che ogni amore, in questa vita, nascerà dall’essere svegli.

La situazione paradossale per un gran numero di persone, oggi, scriveva Erich Fromm, è quella di essere mezzo addormentate quando sono sveglie e mezzo sveglie quando vogliono dormire.   Essere ben desti è condizione indispensabile per non annoiarsi e in verità, non annoiarsi e non annoiare è una delle condizioni principali per amare.  Essere attivi nel pensiero, nel sentimento, con gli occhi e con gli orecchi, durante tutto il giorno, evitare di perdere tempo, è condizione indispensabile per la pratica d’amare.

Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo. 

01/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 3: NATURA.


Devo essere consapevole del momento storico, sempre.  La mia vita è inserita nella storia del mondo. 

 E la storia del mondo – lo dicono i fatti che solo i ciechi non  vogliono vedere – è a un punto cruciale: l’uomo, che ha colonizzato tutta terra, la sta barbaramente sfruttando fino alla fine, rischiando di distruggerla definitivamente.

Il tempo rimasto è pochissimo.

Il seminario di Oxford di aprile ha constatato che per gli oceani e i mari del mondo è iniziata una estinzione di animali senza precedenti.  Inquinamento, acidificazione, pesca selvaggia, riscaldamento.

Sulla terraferma non va molto meglio, anzi. Cementificazione, deforestazione, distruzione degli ecosistemi, megalopoli, povertà diffusa, mancanza di materie prime, fame.

Cosa potrò mai fare io per tutto questo, contro l’avidità sfrenata e l’ingiustizia ?

Dovrò soltanto assistere ?

No, la mia parte di mondo – che è il mio materiale biologico e il mio spirito, cioè la parte di me che non è visibile -  mi spinge e mi spingerà continuamente a fare il possibile, l’umanamente possibile ora, e nel futuro, per salvare il salvabile. Per salvare e proteggere la meravigliosa bellezza della terra.

Debbo farlo per consegnare un futuro ai miei figli e alle generazioni che verranno dopo di me, che hanno diritto a vivere in un pianeta abitabile, e bello.

Per far questo, so già che non basterà migliorare me stesso. Dovrò uscire fuori, unirmi ad altre persone, comprendere insieme quanto tutto ciò è importante. Non potrò più stare fermo.

Come scrive James Hillman ne Il linguaggio della vita, credo che lavorare solo su se stessi, o al massimo sui rapporti personali, non sia affatto sufficiente.  Se le stanze in cui viviamo hanno una forma sbagliata e sono costruite con materiali scadenti; se indossiamo vestiti sintetici e respiriamo aria inquinata, con un contenuto ionico sbagliato; se dormiamo tra lenzuola sintetiche studiate per non doverle stirare invece che per aiutarci a dormire bene, e i cibi sono alterati, le conversazioni insulse e le città rumorose... Se il mondo intero è ammalato, non possiamo illuderci di guarirlo instaurando un buon dialogo terapeutico e andando in cerca dei significati profondi.  Non è più una questione di significato, ma di sopravvivenza.

29/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 2: DOMANDE.


Dovrò ricordarmi di non smettere mai di farmi domande.

Dovrò ricordarmi che ogni crescita, ogni apprendimento, ogni saggezza,  nasce da una domanda.

Dovrò ricordarmi che i bambini crescono facendo domande, e possono crescere solo e soltanto se qualcuno risponde alle loro domande, e soprattutto le prende in considerazione.

Il silenzio dopo una domanda può ferire, ma la domanda va posta lo stesso.

E le domande, sono, spesso – se sincere – più importanti delle risposte.

Quando si smette di farsi domande, si perde umanità.  Quando si smette di farsi domande  l’uomo diventa dis-umano. 

Non è un caso, forse, che le domande sono del tutto assenti nei discorsi degli uomini di governo, e nei dogmatici di ogni credo o bandiera, capaci di fornire solo risposte.

Invece le domande servono per ‘allenare’ la coscienza a riconoscere sempre cosa è bene e cosa è male. 

Come scriveva Don Giussani, “La domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà… E se è vera (cioè sincera) aggiunge bellezza anche alla bellezza più grande.” 

28/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 1- UMILTA’.


Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

19/06/11

Imparare a stare soli per prepararsi ad amare veramente.




L'uomo moderno crede di perdere qualcosa – il tempo – quando non fa le cose in fretta; eppure non sa che cosa fare del tempo che guadagna, tranne che ammazzarlo.

Così scriveva Erich Fromm in quel fortunatissimo libro - quasi una sorta di Bibbia per una intera generazione - che è L'arte di amare (pag.119).

Osservando i tempi confusi, la confusione di pensiero (che genera confusioni di emozioni e di sentimenti)  si resta colpiti dalla pre-veggenza di Fromm, del quale molte sentenze sembrano oggi chiarissimamente evidenti.

In quell'altro suo 'testo capitale' che è L'arte di vivere, Fromm partiva dall'analisi delle regole compulsive che regolano la società dei capitali, la società dei profitti.


È un dato di fatto che la maggior parte degli uomini siano oggi impiegati o simili di livello più o meno alto, che fanno ciò che qualcuno dice loro di fare o che è imposto dalle regole, evitando di provare sentimenti, perché i sentimenti disturberebbero il funzionamento armonico della macchina.

Il tratto distintivo di ogni società industriale è il suo corretto funzionamento, giacché ogni intoppo, ogni frizione nel meccanismo della macchina è uno spreco di denaro. Così gli uomini devono esercitarsi a provare quante meno emozioni sia possibile, perché le emozioni costano denaro.


Questa dis-abitudine alle emozioni alla quale abbiamo ridotto le nostre vite, è per Fromm la causa anche della nostra incapacità di amare, e di costruire relazioni stabili nel tempo, in un lungo tempo d'amore.

Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d'amare. Ma essere soli vuol dire imparare a conoscersi. Cioè fare i conti con le proprie disarmonie, con le ombre, con i lati peggiori, con le aperture e le risorse inaspettate, che costano fatica.  

E' però l'unica strada, avverte Fromm.

Perché se si gioca tutto sul piano del possesso, del tutto e subito, del 'meno emozioni possibili', la strada non potrà che essere lastricata di delusioni. Perché tutte le forme di unione sessuale hanno tre caratteristiche: sono intense, e perfino violente; coinvolgono tutto l'essere, mente e corpo; sono periodiche e transitorie.

Perché L'amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo. 

Ma chi, oggi, ha la forza e la pazienza, e l'educazione mentale di ascoltare se stesso, i propri desideri, ma soprattutto la capacità di essere e di dare ?  Senza questo, non si va lontani. La girandola delle passioni ci lascia l'amore in bocca, stancamente ci lascia naufragare nel lago di un tempo insensato.

Eppure ogni bellezza è lì, nella conoscenza di sé, nel canto liberato della nostra psiche. Che solo si completa -   quello che una volta si chiamava il gioco delle anime - nel prudente avvicinamento, nell'addomesticamento, nella conoscenza reale reciproca.

La psiche non ha mai detto che il sesso è la radice di tutto - scrive James Hillman ne il Linguaggio della Vita - è stato Freud a sostenerlo. La psiche dice di essere 'lei' la radice; 'lei' le sue immagini' .

Fabrizio Falconi

16/06/11

'Considerate ciò che c'è sulla terra !'


Nei giorni scorsi il Vicariato di Roma ha diffuso due dati che, mi sembra, siano passati un po’ sotto silenzio e che invece forse vale la pena di meditare. Sono due dati piuttosto eloquenti che riguardano la città simbolo del cattolicesimo:
1. i matrimoni celebrati con rito religioso a Roma si sono, nel giro del ventennio 1990-2010 quasidimezzati (da circa 8,500 a 5000), mentre quelli civili sono rimasti invariati.
2. 1 bambino su 2 che nasce oggi a Roma, non viene battezzato (14.000 battezzati su 25.200 nel 2010).   Questi dati vanno ad aggiungersi ad un terzo, secondo il quale poco meno del 10% della popolazione partecipa più o meno saltuariamente alla messa domenicale.
I dati potrebbero essere tranquillamente allargati al resto del paese e manifestano quel che già appare evidente e cioè una scristianizzazione in atto – già piuttosto avanzata – della società italiana.
I numeri sono importanti ma di per sé non spiegano tutto. Qualcuno, analizzandoli, anzi vi troverà perfino aspetti positivi: meglio pochi cristiani ma convinti, si dirà, pochi cristiani che credono veramente e che ricominciano daccapo, piuttosto che un cristianesimo ‘di massa’, ma costruito su formalismi, non sentito, e tutto sommato dannoso perché ipocrita.
E però, comunque la si rigiri, i dati sono inequivocabili: Cristo è scomparso – anche come problema, come questione, come interrogativo – per una grande parte di persone, che stanno diventando rapidamente maggioranza.
Ecco: ma perché questo è successo ?  Certamente non è questo un luogo dove si possa tentare un’analisi seria di un fenomeno che ha radici antropologiche, culturali, sociali, complessissime.
Per quanto mi riguarda poi, non vorrei dare risposte – che non ho, ma suscitare domande.
La mia domanda è questa: ma non sarà che il mondo – il nostro mondo – sta diventando meno cristiano perché, molto semplicemente, Cristo è scomparso dalle nostre vite ?
Non sarà che sta finalmente trionfando quel sistema secondo cui la fede è sostanzialmente un fatto privato (il contrario, mi sembra di quanto è stato fondamentalmente e storicamente il cristianesimo) ?
Non sarà che la scristianizzazione dipende semplicemente che il nome di Cristo – e le parole che lui ha professato – sono scomparse dai comportamenti collettivi, pubblici, sociali ?
“Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni” – constatava amaramente Lev Tolstoj nelle sue‘Confessioni’ – “è assolutamente impossibile  capire se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi.”
Se una persona si professa ‘di fede’, e cioè cristiana, diceva in sostanza Tolstoj, ma non è intelligente, non è onesta, non è buona, non è retta, non ha sentimento etico (tutte manifestazioni che si sostanziano in comportamenti pubblici), costui, che cristiano è ?
Se il nostro cristianesimo serve a farci stare bene, a farci sentire migliori, più buoni,  ma non produce nullaper il mondo, per il resto della collettività – se addirittura lo stesso nome di Cristo è tabù (io stesso lo sento pronunciare pochissimo anche dagli stessi religiosi, fuori dai riti e dalle messe), cancellato dal consesso della vita comune – a cosa serve ?
Sono le stesse domande che si poneva Dietrich Bonhoeffer in anni cruciali, nei quali il nome di Cristo oltre ad essere tabù rischiava di generare di per sé, una condanna a morte.
Bonhoeffer la sua scelta la fece, e già nel 1932, intravvedendo che la semplice scelta di un cristianesimo timido e individuale avrebbe portato conseguenze tragiche per l’intera società in cui viveva.  Togliere Cristo di mezzo, infatti, relegarlo nei nostri spazi privati, gli sembrava una limitazione colpevole, una rinuncia che tradiva lo spirito stesso dei Vangeli, la parola più rivoluzionaria mai udita su questa terra, per l’uomo e per il mondo.
“Considerate ciò che c’è sulla terra !” scrisse “Da ciò dipendono molte cose: se noi cristiani abbiamo forza sufficiente per testimoniare al mondo che non siamo visionari o sognatori.  Che non lasciamo che le cose rimangano come sono, che la nostra fede non è veramente quell’oppio che ci rende felici in un mondo ingiusto.  Ma che noi, proprio perché tendiamo a ciò che è lassù, protestiamo tanto più ostinati e risoluti su questa terra.”
Fabrizio Falconi

10/06/11

Ervin Laszlo: "Stiamo provocando il divorzio uomo-natura. Siamo a un bivio: o una svolta sostenibile o sarà autodistruzione."



Credo sia molto istruttivo ascoltare la voce di Ervin Laszlo, grande filosofo ungherese, fondatore della teoria dei sistemi.

Ormai, secondo il filosofo, siamo completamente interdipendenti a livello planetario - potremmo dire che si è realizzata la profezia di Lao-Tse secondo cui un battito d'ali qui può provocare un terremoto dall'altro lato del pianeta - ed è quindi necessaria la formazione di una coscienza planetaria che attui la svolta verso un'economia sostenibile. L'uomo va infatti verso l'autodistruzione, continuando ad introdurre elementi non naturali nel mondo, come il nucleare.

Stiamo provocando, insomma, una sorta di divorzio uomo-natura nonostante non vi siano mai state nella storia tante possibilità a livello economico, manageriale e tecnologico per cambiare veramente il modello di sviluppo. Per Laszlo, allora, la rivoluzione deve partire dalla società, dai cittadini, che anche singolarmente grazie al web, possono aiutare a creare questa nuova coscienza planetaria.


Qui l'originale dell'intervista a Laszlo realizzata dal sito Affari Italiani nel corso del convegno dell'8 giugno a Milano intitolato: "Nutrire il pianeta di immaterialità".

06/06/11

Baumann ieri a Trento: "Stiamo disimparando a riconoscere il dolore, il dolore morale."


Il sociologo di origini polacche Zygmunt Bauman, teorico della "società liquida", ha concluso ieri il festival dell'Economia di Trento 2011 con parole di fuoco. "Abbiamo sulle nostre spalle un fardello incredibile, che include i nostri obblighi morali, i nostri naturali impulsi ad occuparci degli altri, e cerchiamo di sgravarcene con i tranquillanti morali offerti dai negozi, dai supermercati".

"Entro il 2020 i prezzi degli alimenti raddoppieranno - ha spiegato il sociologo polacco - e gia' oggi vi è un aumento della disuguaglianza a livello globale, per certi versi incredibile. Il paese più ricco, il Qatar, ha uno standard 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. Il 20% più ricco dell'umanità controlla il 75% della ricchezza, il 20% più povero il 2%. Fino a 30-40 anni fa il trend era diverso, il divario fra i paesi sembrava destinato a colmarsi".    

Secondo il sociologo polacco ci sono "due fattori fondamentali, più culturali e sociali che economici, dietro questo: il voler godere di una vita ricca, abbiente che ci porta a vivere al di sopra dei nostri mezzi sulle spalle dei nostri figli; e la questione della risoluzione dei conflitti sociali, anche quelli legati alla diseguale distribuzione dei beni, aumentando la produzione, il pil. Quando il pil cala non viene messa a rischio la sopravvivenza alimentare - ha chiarito - ma nonostante ciò si sviluppa il panico, perchè la gestione dei conflitti è tutta basata sull'aumento della produzione e del consumo.    

Per Bauman oggi vi è "un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità . Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari mentre il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia  sfumato.

Siamo sempre al lavoro, abbiamo l'ufficio sempre in tasca. Al tempo stesso disimpariamo altre abilità 'primarie'. Ad esempio  a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perch è esso è  un sintomo che ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani.

Improvvisamente abbiamo persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici che abbiamo in internet. L'obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti.

Così, il limite è stato superato mercificando la moralità . Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione".

A corredo di queste parole su cui sarà, credo, utile per tutti meditare vorrei aggiungere che forse il primo passo di quel cammino autenticamente umano di cui parla Baumann potrebbe essere quello di ripartire da queste parole di Etty Hillesum, che nel silenzio e nell'ascolto di se stessa, fuori dai condizionamenti bui e terrificanti di quegli anni, trovava ogni volta quella forza di ripartire e di non perdersi. Così scriveva Etty:

'L'unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa.'

03/06/11

Tree of Life - Una bellezza che sussurra.



Ho visto il nuovo film di Terence Malick preparato dai pareri degli amici o conoscenti che l’avevano già visto, e che erano sostanzialmente spaccati in due fazioni: - capolavoro per gli uni; - polpettone intollerabile a base di melassa per gli altri.

Mi sono dimenticato di questi pareri quando il film è cominciato. E, come sempre mi accade di fronte ad un’opera, ho cercato di spegnere i pre-giudizi e lasciare aperti cuore e mente, per vedere cosa mi arrivava.

Tree of life è secondo me un film coraggioso e interessante, pieno di ‘anima’ se così si può dire, anche se non immune da pecche. Le pecche, in un film come questo, sono importanti quasi quanto le cose riuscite.

Tree of life è coraggioso e ambizioso perché iscrive una vicenda privata ordinaria – una famiglia media americana, padre madre e tre figli maschi – nel tutto della creazione.

Non c’è privato, dice Malick, perché è solo la nostra prospettiva molto limitata che ci porta a pensare di essere distinti dal resto del mondo, dalla storia intera del mondo.

E’ qualcosa che mi tocca molto da vicino. Quando sono diventato padre ho capito che io sono semplicemente un punto della linea. Ma il punto della linea – come è evidente anche dai fondamenti euclidei – E’ la linea stessa.

E’ la linea stessa, il punto, anche se ne è infinitesima porzione. E’ importante il punto. Perché ogni punto fa sì che la linea non sia spezzata. E sia, per l’appunto, una linea.

Il discorso religioso, secondo me, in questo film di Malick, non è centrale. Non lo è, nel senso che Tree of Life è un film di domande, e non di risposte.

Sono le domande che vengono recitate come un mantra in sottofondo durante il film – e che si rivolgono ad un Tu che non risponde – a fornire forse la cornice di una risposta possibile. Lo scopriremo alla fine.

Le domande della vita sono quelle di ognuno di noi. Sono quelle che riguardano i protagonisti di questa vicenda, dei quali scopriamo la storia, nonostante non vi siano che tre o quattro dialoghi in tutto il film. Eppure, è chiarissimo: la madre, figura bellissima, si immola, crede e contiene, è depositaria di ogni segreto e di ogni lutto. Il padre è il solito padre. Vuol bene, ma a un certo punto della vicenda, rovina tutto. Non è capace di controllare le sue ferite. Deve farsi schermo dell’autorità per imporsi. Deve farsi odiare, per essere. E i figli e la stessa moglie lo odieranno, come è giusto che sia.

Poi c’è l’imponderabile: uno dei figli muore a 19 anni. Lo sappiamo all’inizio del film, ma non sappiamo nemmeno perché. Sappiamo solo che succede e questo è l’importante.

Il vuoto inaccettabile di un dolore che non si può gestire, a cui non si può trovare posto, è il fardello che il fratello superstite – che da grande ha il volto di Sean Penn – si porterà dietro per sempre.

Come inscrivere ciò che è dato – e ingiusto, inaccettabile, come la morte di un figlio – in un contesto che abbia un senso, che non porti semplicemente alla conclusione più ovvia: ‘tutto è follia ?’

In questo senso il film di Malick non mi sembra né condito di melassa – non c’è, mi pare, nessuna consolazione preconfezionata – né volontaristico.

La domanda resta: a Malick non interessa dare risposte, interessa dire: ciò che ti turba NON è il tuo fardello, non è il tuo inciampo. Ciò che ti turba è la natura stessa del grande gioco in cui sei calato, in cui il tuo essere è heideggerianemente gettato.

Se non si capisce questo, dice Malick, se non si comprende l’esistenza di una storia e di un tutto, NULLA ha senso.

Il senso deriva dalla domanda che si ripete e nella stessa eco che produce, una eco che accompagna non solo l’uomo, ma il sorgere dei soli, la nascita del tempo, ogni cosa visibile e invisibile.

E’ solo grazie a questa eco – se le si permette di diffondersi – che la nostra crescita o maturità può trovare altre vie rispetto alla deriva nullista che sembrerebbe allora inevitabile. Il percorso di una Sapienza che questa eco contiene serve ad orizzontarsi. L’uomo non è mai stato del tutto solo con i suoi fantasmi. L’uomo è una storia. E nella storia ci sono gli uomini da cui ha imparato e quelli a cui imparerà. La vita è una meravigliosa e terribile prova che nessuno può vivere al posto nostro. La forza di una vibrazione finale ci impone di com-patire insieme agli altri. In questo – nei minuti finali del film è evidente, non è sogno, è cuore è realtà – nasce una nuova bellezza. Una bellezza che tutto contiene – anche il dolore, la perdita e la malinconia – una bellezza che sussurra: ‘nulla è perduto per sempre.’

Fabrizio Falconi

01/06/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 5


Comunque sia il gioco delle interpretazioni si può continuare all’infinito.
Quel che ci interessa accennare è la svolta avvenuta nel 1936 a Pompei, quando, durante gli scavi, un esemplare del Quadrato fu rinvenuto su una delle colonne della Palestra Grande. La scoperta, vero e proprio evento per gli archeologi, ha retrodatato l’invenzione del Quadrato Magico almeno al 79 dopo Cristo, e ha rinforzato una serie di teorie riguardante la controversa presenza dei cristiani a Pompei, nell’anno dell’eruzione.

Questo perché al Quadrato si è attribuito da più parti una sicura rilevanza di simbolo cristiano, legato al culto dei morti e alla Risurrezione.
Incredibile a credersi infatti, il Quadrato misterioso contiene al suo interno, come una fantastica scatola cinese, un ulteriore piccolo prodigio.
Tutte le parole del Quadrato, messe insieme – anagrammate - formano due Paternoster incrociati con due lettere alle estremità della croce, due A e due O, che rappresenterebbero due Alfa e Omega.

31/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 4


Lo dice, in modo ancora più esplicito, in modo ancora più secco, deciso, un altro grande poeta di questo secolo, Edmund Jabès ( Il Cairo 1912- Parigi 1991 ), nel suo ‘Libro dell’Ospitalità’.
Il rifiuto della morte è forse l’affermazione del nome, il suo avvento. Eppure: nominare non vuol dire concedere alla morte un nome ?

- … un nome a quel che è ? A quel che, ormai, è stato.

“ Maestro mio – diceva un saggio – han creduto, dal momento che no erano d’accordo con te, di sotterrare un vivo. Non sapevano che sotterravano un seme. “

…Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.



Colui che conosce il mio nome lo rivela a me.

30/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 3


In qualche caso l’Epitaffio è qualcosa di ancora ulteriore. Le parole usate come iscrizione funebre sono quelle pronunciate dallo stesso morente. Questo è avvenuto, avviene ancora oggi quando quelle parole rimandano ad un segno particolare, significativo.

Sembra ad esempio che le ultime parole pronunciate da Karl Barth il 10 dicembre del 1968 poco prima di morire, e incise quindi sulla sua lapide siano state queste:

Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi. Essi vivono tutti per Lui. Dagli apostoli fino ai padri dell’altro ieri, e di ieri.

Straordinario. Barth cita l’evangelo di Luca ( 20,38 ): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui.

E sceglie proprio un passo cruciale: un passo dove il Cristo sembra quasi ‘penalizzare’ i morti, in favore dei vivi. Ma poi, appena si prova a rileggere la frase, a farne fermentare il senso, si capisce invece che questa frase spiega invece proprio quel senso di ‘soglia’ di cui parla anche la De Monticelli: i morti, secondo il Cristo, sono vivi, attraverso la morte sono vivi, e vivono per Dio.

I vivi diventeranno morti e devono vivere per Dio, seguendo proprio l’esempio dei morti, di coloro che hanno oltrepassato la soglia.

In questo senso l’epitaffio di Karl Barth, le ultime parole pronunciate prima di morire, rappresentano una sorta di testamento esemplare, per uno dei più grandi e tormentati teologi dell’era moderna.

29/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 2


In epoca romana le iscrizioni erano privilegio delle classi patrizie, certo. I poveri, gli schiavi, morivano ‘senza nome’ e ‘senza parole ‘. Anche in questo vi era una pretesa di determinazione di classe tra chi lo spirito lo aveva, e poteva trasmetterlo, potendo continuare a vivere nella comunità dei vivi, attraverso le parole, e chi aveva negata questa possibilità, essendo ritenuto di classe – e di spirito – inferiore.

Queste iscrizioni, quelle numerosissime un tempo che si leggevano per esempio lungo la via Appia, continuano a riportarci ancora oggi, quando noi passanti di duemila anni dopo ci imbattiamo, il dolore, il rimpianto, lo stile di vita, lo scherzo persino nella morte, qualcosa di ineffabile, e allo stesso tempo di molto concreto, che riguarda quel luogo della morte.

Gli esempi sono tanti, e bellissimi.

Ne citiamo qualcuno:

• L’iscrizione a un tale Sesto Perpenna Fermo:

ho vissuto come ho voluto: per quale ragione sia morto, lo ignoro.
( vixi quaedammodum voluit; quare mortuus sum, nescio )