28/08/11

'Haiku'






Haiku 


Passava tutto il suo tempo
a cercar di capire
cosa volesse lui dalla vita 


e mai - circostanza che lo avrebbe illuminato 
non poco - 
cosa la vita volesse da lui. 


© Fabrizio Falconi - 28 agosto 2011

25/08/11

La crisi che viviamo e la chiamata politica e spirituale. "Segnare una svolta" - di Alberto Melloni.


E' un testo breve, ma veramente illuminante questo che vi riporto, di Alberto Melloni, sul Corriere della Sera di pochi giorni fa.  Il momento di crisi per tutto l'Occidente - e il mondo - è un ripensamento globale della nostra vita. Come ogni 'crisi' è anche una 'occasione', un punto di svolta e di scelte, dalle quali dipenderà il nostro futuro.  Un momento cruciale che impone agli spiriti intelligenti, di muoversi, di non starsene più fermi nei propri freschi o angusti cortili. Ecco l'articolo.


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall' Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.


In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ' 29 e nell' 89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un' era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta. Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale.


 E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall' oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine. Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che - parlando in tedesco e pensando in cattolico - hanno dato all' Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall' egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall' euforia dei crocifissi e dall' ossessione dei diritti dei gay.


La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa - nel VI secolo si diceva, ma anche nell' XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio - è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall' atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti.


 Oggi questo atto - reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche - tarda a farsi sentire. Eppure solo l' intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un' Europa poco amata, non finisce l' euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un' opportunità di giustizia o l' anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c' è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia. Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l' afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà.


Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.

Alberto Melloni, Il Corriere della Sera, 20,8,2011.

12/08/11

Lo stupore e la dialettica di Pavel A.Florenskij




Ho finito di leggere pochi giorni fa lo splendido nuovo volume uscito dalla Quodlibet e che aggiunge una nuova perla alle pubblicazioni di Pavel A. Florenskij. 
Mano a mano che conosciamo la sua opera, io credo, ci addentriamo meglio in un pensiero filosofico straordinario, complesso e illuminante, sebbene ancora in italia poco conosciuto. 
"Stupore e dialettica" si chiama il libriccino, che consiglio veramente a tutti. Un modo per accostarsi al piacere estetico e sostanzioso della filosofia come strumento di conoscenza, e strumento spirituale.
Questa è la recensione che ne ha fatto oggi sul Fatto Quotidiano nel supplemento 'Saturno' Marco Filoni.

GLI EPITETI si sprecano. I suoi contemporanei lo paragonavano al genio di Leonardo da Vinci per i suoi interessi poliedrici. Altri parlavano di un Pascal russo per la sua sensibilità teologica e religiosa, capace di esprimersi nei più diversi campi dello scibile umano. Dalla matematica alla fisica, dall’iconologia alla filosofia, ma anche estetica, ingegneria elettronica, simbologia e semiotica.

Questi sono soltanto alcuni dei temi che ha trattato nella sua breve vita il russo Pavel A. Florenskij, sacerdote ortodosso morto fucilato dopo 5 anni di rieducazione in un gulag sovietico, nel 1937, a soli 55 anni. Florenskij è considerato, a ragione, uno dei maggiori pensatori del XX secolo. Come scriveva il suo amico Sergej Bulgakov, la perfetta padronanza dei suoi interessi nel campo del sapere era tale che la grandezza della sua erudizione «non si può nemmeno stabilire per mancanza in noi di capacità equivalenti».

Negli ultimi anni questo geniale e straordinario pensatore sta venendo alla luce, anche in Italia, grazie alla pubblicazione di alcune sue opere. Già le lettere inviate durante la prigionia nel gulag avevano commosso i lettori italiani (uscite da Mondadori con il titolo Non dimenticatemi).

Ora invece appaiono due importanti tasselli dell’immensa opera del russo. Il primo volume, La concezione cristiana del mondo (curato da Antonio Maccioni per Pendragon), raccoglie i corsi tenuti da Florenskij fra la fine dell’estate e l’autunno del 1921 all’Accademia teologica di Mosca. Pagine che sono da leggere anche come una preziosa testimonianza di resistenza e profonda onestà intellettuale: in un momento in cui, all’indomani della rivoluzione bolscevica, vi era la smobilitazione totale e la nazionalizzazione dei beni religiosi, Florenskij non rinuncia a un ciclo di lezioni a carattere teologico. E nemmeno rinuncia all’abito talare, nonostante l’esplicito divieto, con il quale si presenterà anche nei vari contesti professionali ai quali le autorità politiche lo obbligheranno.

Ma una definizione ancora più chiara, sul piano teorico, arriva dall’aureo libello Stupore e dialettica, in libreria per Quodlibet (ottimamente tradotto da Claudia Zonghetti e altrettanto ben curato da Natalino Valentini, il nostro maggior esperto di Florenskij, che firma un’utile introduzione e una completa notizia biografica). Questo libro, nato come sezione di un’opera più ampia (Agli spartiacque del pensiero), è un’intensa riflessione sulla dialettica. Ma quale dialettica? Il ritmo della vita, risponde Florenskij, ovvero la filosofia nella sua espressione dialogica attraverso la parola. “Pensiero in crescita”, “pensiero vivo”, perché appunto la filosofia è vita, riflessione immediata fortemente e direttamente legata alla realtà. Questo percorso tracciato dal russo conduce al riconoscimento dello stupore come fonte del pensiero: la meraviglia delle cose reali apre a un’esperienza di conoscenza ed è un principio di verità. Pagine molto belle, che nella loro lungimiranza anticipano molti temi di ermeneutica e di filosofia del linguaggio novecenteschi. Ancora una volta, leggere Florenskij è fonte di stupore.

Marco Filoni - IL FATTO. 

09/08/11

Zygmunt Bauman: la globalizzazione detesta i vincoli, un po’ come la malavita. La finanza è fuori controllo.





Credo bisognerà riflettere molto su questa intervista rilasciata da Zygmut Bauman a Andrea Malaguti della Stampa di Torino su quel che sta succedendo all'economia mondiale. Illuminante.


"Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo».

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?». Leeds, Inghilterra del Nord, prima periferia di questo mostro urbanistico da ottocentomila abitanti, otto minuti a piedi dall’Università. In una villetta bianca, su tre piani, circondata da una vegetazione selvaggia, Zygmunt Bauman, 86 anni, sociologo della società liquida, si siede nel salotto soffocato dai libri che fu di sua moglie Janina. «Abbiamo vissuto assieme 63 anni. Non smetterò mai di amarla». Scivola su una poltrona di pelle verde di fianco alla scrivania sistemata nel bovindo. Una luce malata inonda le vetrate che guardano il giardino. Il suo studio è al piano di sopra. E’ un uomo sottile, elegante, lungo, con un viso antico, vestito di scuro. Un girocollo grigio da esistenzialista, la giacca nera, una corona di capelli bianchi che arrivano alle spalle, la pipa rigirata tra le dita sottili, nodose, annerite dal tabacco. Ha appena finito di sfogliare il New York Times. Sul tavolino tondo, di noce, ha preparato delle fragole con la panna. «Col succo d’arancia sono straordinarie». Accavalla le gambe. «Non mi stupisce affatto quello che sta succedendo a Obama».

Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva - fa? - la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni».

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 8. BENE E MALE.




Non resterò confuso, non mi farò trascinare dalla corrente mai.

Sarà questo uno dei punti fondamentali. Il flusso della corrente non permette di fermarsi e dentro la corrente, non al di fuori di essa, è molto facile smarrire se stessi. 

Non resterò eternamente confuso, non resterò a chiedermi chi sono. Non farò quello che fanno gli altri. 

Trascinato dal flusso della corrente sarà infatti inevitabile perdere ogni riferimento, pensare di non poter più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. 

Ma nella essenza del mio essere umano io ritroverò sempre le ragioni della distinzione che permette di orientarsi. L’essenza del mio essere umano è il mio centro.

Ed è lo stesso centro che orientava il cammino dell’Uomo sui ghiacciai di Similaun, 5000 anni fa. E’ lo stesso centro a cui attinge una madre a cui nasce un figlio. Lo stesso centro a cui fa appello un vecchio nell’ora della morte.

Ad ogni latitudine, in ogni epoca.

Il grano e la gramigna non sono una invenzione, semplicemente esistono, e questo è il grande mistero della esistenza: la differenziazione. Che qualcuno chiama libero arbitrio.

So che ha a che fare con la conoscenza di me, con l’allontanamento o la vicinanza che saprò mantenere, dalla capacità che avrò di ascoltare il mio centro‎.

Come scrive Carl Gustav Jung, ci sforziamo di raggiungere il buono e il bello, ma al tempo stesso afferriamo anche il malvagio e il brutto, poiché nel pleroma essi formano un tutt'uno col buono e col bello. Se invece restiamo fedeli alla nostra essenza, cioè alla differenziazione, allora ci differenziamo dal buono e dal bello, e perciò anche dal malvagio e dal brutto, e non cadiamo nel pleroma, ossia nel nulla e nel dissolvimento.


Fabrizio Falconi

03/08/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 7. FEDELTA'




Non dovrò sforzarmi per essere fedele.

La fedeltà come costrizione non ha senso. La fedeltà è una scelta libera. Perché libero sono io che vivo, e solo vivendo libero posso scegliere di essere fedele.

Sarò soprattutto fedele ai ricordi. Non li lascerò appassire come germogli che nessuno ha curato. Senza questa prima fedeltà, non sarò in grado nemmeno di riconoscermi e di sapere chi sono.

Fedele a ciò che gli altri hanno fatto di me, con l’istinto umano dell’amore e della crescita. Non li dimenticherò, li porterò in ogni giorno in forme traslucide di pensiero, in ombre misteriose di gesti e di sapienza.

Sarò poi fedele a me stesso e a quel che ho scoperto di me. Ma sarò fedele anche ad ogni nuova scoperta. Non la tradirò, voltandomi, nascondendomi.

Soltanto così potrò crescere, sviluppare i miei rami, le mie foglie, radicarmi e protendermi verso l’alto: questa è la missione di ogni essere vivente.

Sarò fedele all’amore. Non penserò di possederlo, non penserò di vantarlo: sarò semplicemente fedele nella cura.

Sarò fedele alla mia anima. La ascolterò, la starò a sentire, la chiamerò, mi risponderà, parleremo. Anche quando sarà difficile. Questo sarà, in fin dei conti, vivere.

Credo in te, anima mia, scriveva Walt Whitman, l’altro che io sono non deve umiliarsi di fronte a te, e tu non devi umiliarti di fronte a lui.

Fabrizio Falconi

28/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 6 - CONVERSAZIONE.


Siccome, come appare del tutto evidente e come aveva già intuito il saggio Epicuro 300 anni prima di Cristo, dalla pòlis (cioè da tutto ciò che è pubblico, istituzione pubblica, struttura pubblica) non potrò aspettarmi il perseguimento della causa della felicità umana, e quindi della mia personale felicità, so già che io dovrò assumermi in prima persona la responsabilità della mia felicità.

Per essere felice e offrire una vita degna alla mia anima, dovrò ricordarmi dell’importanza della conversazione.

Un uomo incapace di conversare con un amico difficilmente potrà essere felice.

La conversazione tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri è ciò che di meglio la vita ha da offrirmi.

Per fare questo dovrò imparare ad ascoltare.

Le conversazioni migliori sono quelle in cui c’è uno scambio di idee e in cui si mette alla prova la verità.

Una conversazione intelligente e aperta nel cuore con una persona amica è l’antidoto contro qualsiasi dolore, l’incoraggiamento per qualsiasi impresa, la spinta a migliorarsi e a crescere, a comprendere qualcosa in più del grande mistero in cui sono calato.

Nella conversazione intelligente, proficua e piacevole tra amici ritroverò sempre il senso della mia natura veramente umana.

Come diceva Blaise Pascal sono solo le conversazioni che formano l’intelletto.

26/07/11

La tragedia di Oslo - qualche considerazione.



Non riesco a immaginare quale sarà il mio stato d’animo durante l’operazione. Probabilmente scatterà durante un ciclo di steroidi e, per di più, sotto l’effetto di efedrina. In questo modo cresceranno di almeno il 50-60% (forse il 100%) aggressività, prestazioni fisiche e concentrazione mentale. L’iPod al massimo volume mi aiuterà a sopprimere la paura, se necessario... Ho un corpo più o meno perfetto. Sono felice, il mio morale è al massimo per come le cose procedono. Ho iniziato un nuovo ciclo di steroidi per accrescere la massa muscolare: spero di superare gli attuali 90 kg e arrivare a 100, o almeno a 95. La mia psiche è estremamente forte, più forte di chiunque io abbia mai conosciuto.

Sono le parole che Anders Behring Breivik, lo stragista di Oslo e dell'isola di Utoya aveva scritto nei suoi deliranti diari.

Emerge chiaramente che la necessità per Breivik, per potersi abbandonare all'orrore e in definitiva al male, era quello di turarsi gli occhi - steroidi ed efedrina che bloccano le percezioni reali rendendoti simile ad una bestia - e turarsi le orecchie - bombardandosi con una musica (non importa quale) sparata al massimo volume.

Gli occhi deformati dalle droghe chimiche consentono - hanno consentito - di non vedere l'essere umano che aveva di fronte.

Le orecchie murate dal suono consentono di non ascoltare le invocazioni umane di pietà, i lamenti dei feriti, le agonie dei moribondi.

E' questo, dunque che oggi come sempre, permette al male di esistere: la cancellazione della percezione umana, che pure ad ogni uomo è data dalla nascita.

La dis-umanizzazione che permette il male parte da questo, sempre.

Lo aveva capito e descritto in modo esemplare S.Kubrick in quel profetico film 'A Clockwork Orange' dove l'ultraviolenza gratuita - e puramente 'estetica' -  passavano per le stesse strade (droghe per gli occhi, musica per le orecchie).

Non a caso in quel film, anche il violento, terribile processo di rieducazione di Alex - la famosa 'cura Ludovico' - passava ancora per le stesse strade.  All'a-morale iperviolento Alex venivano - con violenza - per forza tenuti aperti gli occhi (per guardare in faccia l'orrore), venivano per forza aperte le orecchie.

Col risultato però, di trasformarlo, all'opposto in un docile disadattato.

Oggi, siamo a quel punto.  L'unico vero antidoto alla violenza e al male resta solo e soltanto uno: quello di mantenere sempre - sempre - gli occhi e le orecchie aperte.  Di non chiudere mai gli occhi, di non tapparsi mai le orecchie. Mai.

Fabrizio Falconi

25/07/11

"L'infinita idiozia del Male" - di Claudio Magris.





Propongo per i lettori del blog, la più lucida e condivisibile analisi che ho letto sui terribili fatti di Norvegia di questi giorni che ci costringono ancora una volta a interrogarci sulla natura del male umano. L'articolo di Claudio Magris è comparso oggi sul Corriere della Sera.


Finché non emergeranno inoppugnabili - per ora altamente improbabili - prove di una cospirazione terroristica, l'inaudito massacro norvegese va considerato un fatto di cronaca nera, ancorché di immani proporzioni. Esistono certo nel mondo tante e antitetiche associazioni terroristiche capaci di qualsiasi efferatezza, ma esiste anche il crimine - ancor più misterioso e più inquietante proprio perché spesso apparentemente immotivato - che nasce, si organizza e si consuma nella mente di un solo individuo, all'infuori di ogni pur delirante progetto politico.

Come ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista, cercare sempre il complotto (a suo modo razionale pur nella sua perversità), la spiegazione politica e sociologica, un preciso disegno collettivo, è un modo inconsapevole di rassicurarsi, identificando un ordine pur abbietto; un modo di abbandonarsi a fantasticherie su trame enigmatiche, fondamentalmente paurose ma anche involontariamente gratificanti, come è spesso gratificante soffermarsi sulle vaghe immagini dell'incubo, dell'orrore e della paura. Interpretare o cercare di interpretare dà sempre conforto, quando non addirittura supponente compiacimento; dinnanzi a tanti delitti ancora insoluti i pareri sulle loro più o meno nascoste motivazioni sembrano più importanti (e occupano più spazio nei giornali) delle indagini, che invece sono in quel momento la prima e forse l'unica cosa che conti.

Certamente, come diceva uno strombazzato e spesso pappagallesco ma veritiero slogan sessantottesco, «tutto è politico». Nessun individuo arriva dalla luna. Ognuno è intessuto del mondo in cui vive, sia egli un solitario misantropo o il più socievole degli uomini; vive nel mondo e almeno in parte lo assorbe, mescola al proprio dna ciò che penetra consapevolmente o inconsapevolmente in lui dalla realtà esterna. Non c'è idea, passione, abitudine, desiderio, paura, comportamento che sia unicamente nostro; è vero che, come dicevano i filosofi Scolastici, l'individuo è ineffabile o almeno che c'è in ognuno qualcosa di ineffabile, ma anche questa imprendibile e mobile ombra del nostro cuore è intessuta di socialità.

Detto questo, resta una netta differenza tra il gesto individuale di una persona e un progetto, collettivo anche se messo in atto individualmente, di un'organizzazione. L'omicida norvegese sembra assimilabile, con alta probabilità, ai Landru o a Jack lo Squartatore - pure essi, come tutti, figli del loro tempo - piuttosto che agli assassini dell'Italicus o di Piazza Fontana. Sarebbe infame usarlo per infangare l'uno o l'altro movimento politico. Il suo gesto atroce mostra la continua latenza del male, la sua possibilità di scatenarsi in qualsiasi inatteso momento; rivela la nostra convivenza quotidiana, gomito a gomito, con il male, sempre in agguato e talora spaventosamente in azione.

Quella macelleria di esseri umani mostra pure l'infinita banalità e idiozia del male e della violenza, che tante volte ci vengono invece mostrati quasi avvolti di seduzione, espressioni di chissà quali infere ma profonde verità; il coltello di Jack lo Squartatore sembra aver affascinato come la spada di un angelo diabolico tante persone, anche se non certo il ventre squarciato e le sofferenze delle donne da lui uccise, le uniche, vere protagoniste di quella tragica storia, in cui lui è una sia pur sciagurata comparsa. È una vergogna, pur inevitabile, mandare a memoria il nome dell'assassino norvegese e non quelli delle sue vittime.

Quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa assomigliare quell'assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio. Naturalmente anch'egli è un uomo la cui umanità non si esaurisce nei suoi crimini, uomo che va perseguito ma anche tutelato secondo la legge uguale per tutti, anche per gli efferati assassini; un uomo che probabilmente avrà avuto le sue ossessioni, le sue sofferenze, le sue paure. Si può e si deve avere rispetto - a parte la qualificazione giuridica dei suoi atti e la pena da essi richiesta - perfino per lui, ma non - secondo la banale retorica del male - perché è un assassino, bensì nonostante sia un assassino. Il suo delitto è la cosa non solo più orrenda, ma anche più stupida, più meccanica, più ottusa della sua vita. L'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito «un fondamentalista cristiano», termine privo di qualsiasi senso. Spesso, fra l'altro, si identifica erroneamente il fondamentalismo con l'integralismo, specialmente religioso, di una o di un'altra fede (oggi soprattutto quella islamica), e in generale con una forma particolarmente intollerante di tradizionalismo religioso. Il fondamentalismo ha poco o nulla a che fare con la tradizione, anche con quella più gelosamente custode dell'osservanza e dell'immobilità di un credo. Il fondamentalismo non è un fenomeno tradizionale, radicato nel passato, ma è un fenomeno squisitamente moderno, caratteristico delle società di massa e della globalizzazione, così come - per fare un esempio - il fascismo è un fenomeno totalitario moderno radicalmente diverso dagli autoritarismi del passato.

Quel dito meccanicamente omicida non dovrebbe indurre a riflessioni sulle società ricche e tranquille come quella norvegese o a disquisizioni del genere. Altre forme del male - queste sì politiche, sociali, collettive - giungono non solo da società arretrate e barbariche, bensì pure da società aperte e civili, considerate modelli di democrazia quali ad esempio l'Olanda o certi Paesi scandinavi in cui avanzano aggressivi movimenti xenofobi in aperto contrasto con la tradizione dei loro Paesi. Se la xenofobia è più forte in Olanda che in Spagna, ciò deriva forse dal fatto che la cultura di quest'ultima, come di altri Paesi, ha conservato più a fondo quel senso sacro della vita che distingue fortemente i molti, moltissimi valori che devono essere messi in discussione da quei due o tre valori essenziali (per esempio l'uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dall'appartenenza sessuale, etnica, religiosa o di altro genere) che dobbiamo considerare come assoluti, non più discutibili e non più negoziabili. Molto, quasi tutto, deve essere optional , ma non tutto. Quando «tutto è possibile», come scriveva con orrore Dostoevskij, il mondo diventa orribile. Ma non si può fare di questo una colpa all'assassino norvegese, né fondamentalista né cristiano; è sufficiente addebitargli oltre 90 omicidi.


24/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 5 - RESPONSABILITA'



Dovrò ricordare che niente nasce e cresce senza responsabilità.

La cura è ciò che mi distingue dall’indistinto essere.

Curare vuol dire vivere due vite: la mia e quella ci ciò che curo.  Non potrò mai farmi scudo della stanchezza, né cercherò di obiettare ‘così fan tutti.’

Cercherò di dimostrare che la mia vita ha un senso, non sperperando il mio talento, ricco o misero che sia.

C’è un filo rosso che lega la presenza della mia vita a quella dei miei predecessori: senza di loro io non sarei esistito, senza la loro cura io nemmeno avrei mosso un piede su questa terra.

La stessa cura io la eserciterò fino alla fine per ciò che ha diritto a crescere e prosperare grazie alla mia esistenza.

Non dirò ‘non mi riguarda’, ‘non mi appartiene’, ‘non mi interessa’.  

Non butterò via il ramo con il frutto. Senza curare il ramo, nessun frutto potrà mai crescere.

Io invecchierò portando il peso del mondo, e questo peso, nel confine della mia ombra terrestre, cercherò di alleggerire.  Incontrando, visitando, ascoltando.

Ognuno, come scrisse Saint-Exupéry – è responsabile di tutti. Ognuno da solo è responsabile di tutti. Ognuno è l’unico responsabile di tutti.

Fabrizio Falconi

foto di Francesco Rosa - 2011. 

04/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 4 - AMORE



Ricomincerò ogni giorno dall’inizio.

E l’inizio è il primo sorriso ricevuto sepolto nella mia infanzia. Ogni inizio è un sorriso di infanzia e se non saprò ritrovarlo nei giorni che vivo, il mio tempo sarà del tutto sprecato.

Un no non è uguale a un sì, e un concedersi non è uguale a un negarsi.

Quel che ho imparato potrò restituirlo in forma d’amore soltanto se avrò imparato a stare da solo. 
Il silenzio e la prudenza sono le costellazioni che mi guideranno da te.

Quando arriverà la notte, forse saremo pronti. 

E lo saremo soltanto se il mio fuoco avrà bruciato quel che c’è da bruciare ed io sarò pronto a ricominciare con te.

Dovrò ricordare che ogni amore, in questa vita, nascerà dall’essere svegli.

La situazione paradossale per un gran numero di persone, oggi, scriveva Erich Fromm, è quella di essere mezzo addormentate quando sono sveglie e mezzo sveglie quando vogliono dormire.   Essere ben desti è condizione indispensabile per non annoiarsi e in verità, non annoiarsi e non annoiare è una delle condizioni principali per amare.  Essere attivi nel pensiero, nel sentimento, con gli occhi e con gli orecchi, durante tutto il giorno, evitare di perdere tempo, è condizione indispensabile per la pratica d’amare.

Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo. 

01/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 3: NATURA.


Devo essere consapevole del momento storico, sempre.  La mia vita è inserita nella storia del mondo. 

 E la storia del mondo – lo dicono i fatti che solo i ciechi non  vogliono vedere – è a un punto cruciale: l’uomo, che ha colonizzato tutta terra, la sta barbaramente sfruttando fino alla fine, rischiando di distruggerla definitivamente.

Il tempo rimasto è pochissimo.

Il seminario di Oxford di aprile ha constatato che per gli oceani e i mari del mondo è iniziata una estinzione di animali senza precedenti.  Inquinamento, acidificazione, pesca selvaggia, riscaldamento.

Sulla terraferma non va molto meglio, anzi. Cementificazione, deforestazione, distruzione degli ecosistemi, megalopoli, povertà diffusa, mancanza di materie prime, fame.

Cosa potrò mai fare io per tutto questo, contro l’avidità sfrenata e l’ingiustizia ?

Dovrò soltanto assistere ?

No, la mia parte di mondo – che è il mio materiale biologico e il mio spirito, cioè la parte di me che non è visibile -  mi spinge e mi spingerà continuamente a fare il possibile, l’umanamente possibile ora, e nel futuro, per salvare il salvabile. Per salvare e proteggere la meravigliosa bellezza della terra.

Debbo farlo per consegnare un futuro ai miei figli e alle generazioni che verranno dopo di me, che hanno diritto a vivere in un pianeta abitabile, e bello.

Per far questo, so già che non basterà migliorare me stesso. Dovrò uscire fuori, unirmi ad altre persone, comprendere insieme quanto tutto ciò è importante. Non potrò più stare fermo.

Come scrive James Hillman ne Il linguaggio della vita, credo che lavorare solo su se stessi, o al massimo sui rapporti personali, non sia affatto sufficiente.  Se le stanze in cui viviamo hanno una forma sbagliata e sono costruite con materiali scadenti; se indossiamo vestiti sintetici e respiriamo aria inquinata, con un contenuto ionico sbagliato; se dormiamo tra lenzuola sintetiche studiate per non doverle stirare invece che per aiutarci a dormire bene, e i cibi sono alterati, le conversazioni insulse e le città rumorose... Se il mondo intero è ammalato, non possiamo illuderci di guarirlo instaurando un buon dialogo terapeutico e andando in cerca dei significati profondi.  Non è più una questione di significato, ma di sopravvivenza.

29/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 2: DOMANDE.


Dovrò ricordarmi di non smettere mai di farmi domande.

Dovrò ricordarmi che ogni crescita, ogni apprendimento, ogni saggezza,  nasce da una domanda.

Dovrò ricordarmi che i bambini crescono facendo domande, e possono crescere solo e soltanto se qualcuno risponde alle loro domande, e soprattutto le prende in considerazione.

Il silenzio dopo una domanda può ferire, ma la domanda va posta lo stesso.

E le domande, sono, spesso – se sincere – più importanti delle risposte.

Quando si smette di farsi domande, si perde umanità.  Quando si smette di farsi domande  l’uomo diventa dis-umano. 

Non è un caso, forse, che le domande sono del tutto assenti nei discorsi degli uomini di governo, e nei dogmatici di ogni credo o bandiera, capaci di fornire solo risposte.

Invece le domande servono per ‘allenare’ la coscienza a riconoscere sempre cosa è bene e cosa è male. 

Come scriveva Don Giussani, “La domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà… E se è vera (cioè sincera) aggiunge bellezza anche alla bellezza più grande.” 

28/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 1- UMILTA’.


Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

19/06/11

Imparare a stare soli per prepararsi ad amare veramente.




L'uomo moderno crede di perdere qualcosa – il tempo – quando non fa le cose in fretta; eppure non sa che cosa fare del tempo che guadagna, tranne che ammazzarlo.

Così scriveva Erich Fromm in quel fortunatissimo libro - quasi una sorta di Bibbia per una intera generazione - che è L'arte di amare (pag.119).

Osservando i tempi confusi, la confusione di pensiero (che genera confusioni di emozioni e di sentimenti)  si resta colpiti dalla pre-veggenza di Fromm, del quale molte sentenze sembrano oggi chiarissimamente evidenti.

In quell'altro suo 'testo capitale' che è L'arte di vivere, Fromm partiva dall'analisi delle regole compulsive che regolano la società dei capitali, la società dei profitti.


È un dato di fatto che la maggior parte degli uomini siano oggi impiegati o simili di livello più o meno alto, che fanno ciò che qualcuno dice loro di fare o che è imposto dalle regole, evitando di provare sentimenti, perché i sentimenti disturberebbero il funzionamento armonico della macchina.

Il tratto distintivo di ogni società industriale è il suo corretto funzionamento, giacché ogni intoppo, ogni frizione nel meccanismo della macchina è uno spreco di denaro. Così gli uomini devono esercitarsi a provare quante meno emozioni sia possibile, perché le emozioni costano denaro.


Questa dis-abitudine alle emozioni alla quale abbiamo ridotto le nostre vite, è per Fromm la causa anche della nostra incapacità di amare, e di costruire relazioni stabili nel tempo, in un lungo tempo d'amore.

Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d'amare. Ma essere soli vuol dire imparare a conoscersi. Cioè fare i conti con le proprie disarmonie, con le ombre, con i lati peggiori, con le aperture e le risorse inaspettate, che costano fatica.  

E' però l'unica strada, avverte Fromm.

Perché se si gioca tutto sul piano del possesso, del tutto e subito, del 'meno emozioni possibili', la strada non potrà che essere lastricata di delusioni. Perché tutte le forme di unione sessuale hanno tre caratteristiche: sono intense, e perfino violente; coinvolgono tutto l'essere, mente e corpo; sono periodiche e transitorie.

Perché L'amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo. 

Ma chi, oggi, ha la forza e la pazienza, e l'educazione mentale di ascoltare se stesso, i propri desideri, ma soprattutto la capacità di essere e di dare ?  Senza questo, non si va lontani. La girandola delle passioni ci lascia l'amore in bocca, stancamente ci lascia naufragare nel lago di un tempo insensato.

Eppure ogni bellezza è lì, nella conoscenza di sé, nel canto liberato della nostra psiche. Che solo si completa -   quello che una volta si chiamava il gioco delle anime - nel prudente avvicinamento, nell'addomesticamento, nella conoscenza reale reciproca.

La psiche non ha mai detto che il sesso è la radice di tutto - scrive James Hillman ne il Linguaggio della Vita - è stato Freud a sostenerlo. La psiche dice di essere 'lei' la radice; 'lei' le sue immagini' .

Fabrizio Falconi

16/06/11

'Considerate ciò che c'è sulla terra !'


Nei giorni scorsi il Vicariato di Roma ha diffuso due dati che, mi sembra, siano passati un po’ sotto silenzio e che invece forse vale la pena di meditare. Sono due dati piuttosto eloquenti che riguardano la città simbolo del cattolicesimo:
1. i matrimoni celebrati con rito religioso a Roma si sono, nel giro del ventennio 1990-2010 quasidimezzati (da circa 8,500 a 5000), mentre quelli civili sono rimasti invariati.
2. 1 bambino su 2 che nasce oggi a Roma, non viene battezzato (14.000 battezzati su 25.200 nel 2010).   Questi dati vanno ad aggiungersi ad un terzo, secondo il quale poco meno del 10% della popolazione partecipa più o meno saltuariamente alla messa domenicale.
I dati potrebbero essere tranquillamente allargati al resto del paese e manifestano quel che già appare evidente e cioè una scristianizzazione in atto – già piuttosto avanzata – della società italiana.
I numeri sono importanti ma di per sé non spiegano tutto. Qualcuno, analizzandoli, anzi vi troverà perfino aspetti positivi: meglio pochi cristiani ma convinti, si dirà, pochi cristiani che credono veramente e che ricominciano daccapo, piuttosto che un cristianesimo ‘di massa’, ma costruito su formalismi, non sentito, e tutto sommato dannoso perché ipocrita.
E però, comunque la si rigiri, i dati sono inequivocabili: Cristo è scomparso – anche come problema, come questione, come interrogativo – per una grande parte di persone, che stanno diventando rapidamente maggioranza.
Ecco: ma perché questo è successo ?  Certamente non è questo un luogo dove si possa tentare un’analisi seria di un fenomeno che ha radici antropologiche, culturali, sociali, complessissime.
Per quanto mi riguarda poi, non vorrei dare risposte – che non ho, ma suscitare domande.
La mia domanda è questa: ma non sarà che il mondo – il nostro mondo – sta diventando meno cristiano perché, molto semplicemente, Cristo è scomparso dalle nostre vite ?
Non sarà che sta finalmente trionfando quel sistema secondo cui la fede è sostanzialmente un fatto privato (il contrario, mi sembra di quanto è stato fondamentalmente e storicamente il cristianesimo) ?
Non sarà che la scristianizzazione dipende semplicemente che il nome di Cristo – e le parole che lui ha professato – sono scomparse dai comportamenti collettivi, pubblici, sociali ?
“Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni” – constatava amaramente Lev Tolstoj nelle sue‘Confessioni’ – “è assolutamente impossibile  capire se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi.”
Se una persona si professa ‘di fede’, e cioè cristiana, diceva in sostanza Tolstoj, ma non è intelligente, non è onesta, non è buona, non è retta, non ha sentimento etico (tutte manifestazioni che si sostanziano in comportamenti pubblici), costui, che cristiano è ?
Se il nostro cristianesimo serve a farci stare bene, a farci sentire migliori, più buoni,  ma non produce nullaper il mondo, per il resto della collettività – se addirittura lo stesso nome di Cristo è tabù (io stesso lo sento pronunciare pochissimo anche dagli stessi religiosi, fuori dai riti e dalle messe), cancellato dal consesso della vita comune – a cosa serve ?
Sono le stesse domande che si poneva Dietrich Bonhoeffer in anni cruciali, nei quali il nome di Cristo oltre ad essere tabù rischiava di generare di per sé, una condanna a morte.
Bonhoeffer la sua scelta la fece, e già nel 1932, intravvedendo che la semplice scelta di un cristianesimo timido e individuale avrebbe portato conseguenze tragiche per l’intera società in cui viveva.  Togliere Cristo di mezzo, infatti, relegarlo nei nostri spazi privati, gli sembrava una limitazione colpevole, una rinuncia che tradiva lo spirito stesso dei Vangeli, la parola più rivoluzionaria mai udita su questa terra, per l’uomo e per il mondo.
“Considerate ciò che c’è sulla terra !” scrisse “Da ciò dipendono molte cose: se noi cristiani abbiamo forza sufficiente per testimoniare al mondo che non siamo visionari o sognatori.  Che non lasciamo che le cose rimangano come sono, che la nostra fede non è veramente quell’oppio che ci rende felici in un mondo ingiusto.  Ma che noi, proprio perché tendiamo a ciò che è lassù, protestiamo tanto più ostinati e risoluti su questa terra.”
Fabrizio Falconi

10/06/11

Ervin Laszlo: "Stiamo provocando il divorzio uomo-natura. Siamo a un bivio: o una svolta sostenibile o sarà autodistruzione."



Credo sia molto istruttivo ascoltare la voce di Ervin Laszlo, grande filosofo ungherese, fondatore della teoria dei sistemi.

Ormai, secondo il filosofo, siamo completamente interdipendenti a livello planetario - potremmo dire che si è realizzata la profezia di Lao-Tse secondo cui un battito d'ali qui può provocare un terremoto dall'altro lato del pianeta - ed è quindi necessaria la formazione di una coscienza planetaria che attui la svolta verso un'economia sostenibile. L'uomo va infatti verso l'autodistruzione, continuando ad introdurre elementi non naturali nel mondo, come il nucleare.

Stiamo provocando, insomma, una sorta di divorzio uomo-natura nonostante non vi siano mai state nella storia tante possibilità a livello economico, manageriale e tecnologico per cambiare veramente il modello di sviluppo. Per Laszlo, allora, la rivoluzione deve partire dalla società, dai cittadini, che anche singolarmente grazie al web, possono aiutare a creare questa nuova coscienza planetaria.


Qui l'originale dell'intervista a Laszlo realizzata dal sito Affari Italiani nel corso del convegno dell'8 giugno a Milano intitolato: "Nutrire il pianeta di immaterialità".