07/11/12

Intervista a Jean D'Ormesson - "Sono un agnostico tentato di credere."



Celebra le donne e la Ragione, il sacro e il dovere, la Storia e il romanzo, in una trentina di libri come La Gloire de l’Empire, Histoire du Juif errant; la Douane de mer o Une fête en larmes: Jean d’Ormesson è uno degli scrittori francesi più conosciuti e soprattutto più amati dai suoi lettori. Entrato all’Académie française nel 1973, è stato, a 48 anni, il più giovane accademico da lungo tempo. Aristocratico, repubblicano, innamorato di Chateaubriand e di Venezia, è un erede dei Lumi per la sua cultura enciclopedica, un libero pensatore affermato e soprattutto un focoso innamorato della vita e dei suoi piaceri. Dall’alto delle sue 81 primavere piene di fascino e di vitalità, Jean d’Ormesson è, da solo, una parte del patrimonio letterario francese. Agnostico, flirta volentieri con il problema di Dio.

Si ritrova Dio nella maggior parte dei suoi libri. Come può spiegarlo quell’agnostico che lei dice di essere?

Infatti Dio è presente nei miei libri. Au plaisir de Dieu, per esempio, mette in primo piano il patriarca di una grande famiglia, ma in realtà, dietro il destino della sua discendenza, Dio appare come il primo personaggio del libro. Dio è una grande domanda, forse la sola, e mi abita da sempre. Dio e il tempo costituiscono un doppio tema che da molto tempo mi perseguita. Devo farle una confidenza: ho fatto degli studi che mi hanno portato alla Scuola Normale superiore, e poi all’aggregazione in filosofia. Ma segretamente ho sempre voluto studiare la storia delle religioni che mi appassionava fin dall’infanzia. Quando ero studente invidiavo i compagni che studiavano ebraico e che risalivano così alla fonte dei grandi testi religiosi. Per questo motivo rimpiango molto di essere stato troppo pigro per imparare questa lingua e l’arabo. D’altronde nella filosofia non mi piaceva molto la logica né la psicologia: mi piaceva la storia della filosofia. Così, non avendo studiato la storia delle religioni, ho fatto la storia della filosofia.

Da dove le proviene questo interesse per le religioni?

Prima di tutto è un interesse puramente intellettuale che parte non dal problema di Dio, ma da quello dell’uomo. Roger Caillois, questo scrittore ateo così difficile a capirsi, capace di scrivere sull’uomo e sul sacro come sulle meduse, mi aveva detto un giorno quanto era colpito nel constatare che l’evoluzione va sempre nello stesso senso e che il caso dell’evoluzione non ha mai distrutto la salita dell’uomo. Infatti si va sempre verso la crescita della complessità. Perché? Vi sono due risposte possibili: il caso e la necessità da un lato, la creazione del mondo da parte di un Dio buono dall’altro. Questo interrogativo non finisce mai di preoccuparmi.

Verso quale parte propende?

Non credo nel Dio rivelato delle religioni, ma l’ipotesi secondo la quale l’universo è frutto del caso e dalla necessità mi sembra un’idea folle. Accetto tutto dell’evoluzione, ma perché la necessità sfuggirebbe all’investigazione filosofica? Credo bene che la materia sia energia, ma il tempo? Il tempo è una realtà strettamente spirituale: dov’è l’avvenire se non nel nostro spirito? Dov’è il passato? Jaurès è esistito, Alessandro Magno è esistito. Ma dove si trovano? Soltanto nel nostro spirito! Tuttavia è formidabile, entusiasmante! L’avvenire si cambia in presente per trasformarsi in passato; viviamo continuamente in un presente che non esiste. Perché in fondo non c’è presente, ma piuttosto una frangia fra l’avvenire e il passato. E noi viviamo costantemente in questo spazio che non esiste. È come se Dio ci mostrasse che il mondo fosse metafisico. Per me, Dio e il tempo sono legati da uno stesso interrogativo. Un altro esempio che turba è la teoria del big bang, accettato quasi all’unanimità dalla comunità scientifica, la quale però non si accorda sulla domanda che segue: il big bang è all’origine del tempo o è ciò che avviene nel tempo? Da parte mia, io penso che è il big bang che ha creato il tempo. Ma è possibile anche che il big bang abbia preceduto l’universo. Aristotele ci ha insegnato che il mondo era eterno, infinito, immobile. Ora la scienza ci ha rivelato il contrario: l’universo ha una storia, quel che negava Aristotele. Da questo a dire che il big bang è la creazione… Capisco che i papi si siano impadroniti dell’idea: era allettante. La regolazione dell’universo è un argomento che perora la causa di una intelligenza superiore e trascendente che le religioni chiamano Dio. 
Oppure si può dire che il caso è un bravo ragazzo…

Lei dice che Dio prima di tutto per lei è una preoccupazione intellettuale. Le sue problematiche non sono state guidate dall’educazione religiosa che le è stata inculca dai genitori?

No. E con ragione : mio padre non mi ha fatto dare un’educazione religiosa. Era quel che oggi si chiamerebbe un cristiano di sinistra, un democratico popolare, come si diceva allora, uscito da una famiglia di parlamentari segnata dal giansenismo. Ricordo di averlo sentito dire quando ero bambino: “Oh, tutto questo… Non è molto sicuro.” Quel “tutto questo” era Dio, la Vergine Maria, gli angeli. Mi ha impressionato a quel tempo: bisogna fare attenzione a quel che si dice ai bambini piccoli… Ho avuto una vita incredibilmente protetta da una famiglia amante e coraggiosa. Devo a mia madre di aver imparato i rituali religiosi. Essa veniva da una famiglia reazionaria, molto di destra e molto cattolica, Mi hanno insegnato le preghiere, ma non ho mai avuto accanto un nonno, né ho frequentato i gesuiti. Non rientrava nell’educazione come mio padre la concepiva: lui era laico e ardentemente repubblicano. E la mia famiglia era evidentemente assai liberale, nel senso antico della parola, cioè molto tollerante.

Da bambino dunque non ha mai avuto la fede?

No, non sono mai stato pio. Quando mi dicevano di pregare, io non pregavo, ma pensavo alle stelle: “Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale nell’intimo di noi”, ha scritto Kant. Qualche volte ho avuto l’impressione che bisognasse sforzarsi. Andavo alla messa, ma era già un esercizio sociale. Dalla parte di mia madre, al castello di Saint-Fargeau, c’erano delle processioni che seguivamo, ma da parte mia non c’era alcun fervore.

Le capita però di sentire il desiderio di Dio?

Sì, e in modo pazzesco! Ho sete di Dio. Faccio fatica a credere e però credo che c’è qualche cosa d’altro. In questo la figura del Cristo mi affascina. L’incarnazione è Dio che si fa uomo: vi è obbligato, per farsi conoscere; e per reciprocità, se si fa uomo, l’uomo si fa Dio! In questo risiedono la forza e la bellezza della religione cristiana. Perché Dio non esiste. Se si può dire qualche cosa di lui, è che egli è. Ma non “esiste”. Esistere significa essere in questo tempo che passa, e significa dunque anche morire. Dio è fuori del tempo e delle forme alle quali noi, gli uomini, non possiamo sfuggire. Dio è, e basta. Noi non possiamo conoscerlo: come dice Heidegger, “c’è un essere da qualche parte”. In questo l’incarnazione è un’idea formidabile. Anche i Vangeli mi commuovono profondamente. Come pure il perdono o la comunione dei santi, che sono delle meravigliose invenzioni cristiane.

Lei parla da vero cristiano…

Non ho paura di dire che sono cristiano, ma mi domando se ho il diritto di dirlo, perché non sono praticante e non mi comunico. Ma ho sempre pensato che sarei seppellito da cristiano, e non per ragioni sociali, ma perché mi sento cristiano. Supponiamo che i cristiani siano perseguitati, per fortuna non è il caso nel nostro paese, io credo che dichiarerei a voce alta la mia identità, a meno di non essere un vigliacco. In compenso, nella società cattolica dominante che è la nostra, sono piuttosto un beffardo con i miei compagni atei. Non ho nessuna certezza, ma dopo tutto quello che ci siamo detto, se lei mi chiedesse di rispondere sì o no alla domanda “Dio esiste?”, io le risponderei sì!. Sono un agnostico tentato di credere.

È questa la ragione per cui nel suo ultimo libro, la Création du monde, il suo personaggio principale dialoga con Dio, ma soltanto nei suoi sogni?

Si potrebbe sognare di Dio, se non ci fosse? Io sogno molto di Dio. Questo romanzo è, in questo senso,quasi una autobiografia. In ogni caso questo libro, che non è assolutamente un libro religioso, è per me come una preghiera. Posso persino dire che è stato scritto attraverso di me: mi sembra talora che, come molti altri miei libri, mi sia stato dettato da fuori! Lei sa, quando scrivo, ho sempre l’impressione che si scriva attraverso di me. Non sono molto spiritualista, ma credo che si possa essere attraversati: pensi all’entusiasmo di uno sportivo che compie una gara, o anche all’uomo politico trasportato dal suo discorso. Dio è là. Spesso mi dico che tutto questo è troppo vago, che non faccio che andare a tastoni: sono agnostico e mi dico anche cristiano. In fondo continuo a interrogarmi. Ma non credo che potremmo porci tali problemi se veramente non ci fosse nulla.

Dopo la sua morte si aspetta o spera qualche cosa?

Spero qualche cosa. La resurrezione… Pensi come mi piacerebbe! Il mio destino mi tormenta. Ma è ancora un problema inestricabile. Per esempio, quando scompaiono le persone che amiamo, ci ricordiamo di loro. Quando l’avventura umana sarà terminata, nessuno si ricorderà di tutti gli esseri umani che sono vissuti? Non posso credere che non ci sia memoria nell’universo. E quando scomparirà l’universo, non posso credere che non ci sia una memoria trascendente dell’universo e che tutto questo cada nel nulla. In fondo per Dio non ci sarebbero che due catastrofi: la prima sarebbe di sparire per sempre nell’oblio, ma la seconda sarebbe che si scoprisse con certezza che esiste.

Perché?

Egli è nascosto! Dio è nascosto e deve restarlo, perché noi possiamo interrogarci sulla sua esistenza. Per me la libertà degli uomini sta nel fatto che essi possono negare Dio. Ed è una libertà sacra. Il mondo è fatto in modo che Dio possa passare per un'ipotesi inutile. Ma si può anche dire che, accettando tutto dalla scienza, quest’ultima è egualmente sottoposta a qualche cosa di oscuro che è lo spirito e che lascia continuamente aperto il problema di Dio.

(da Le monde des religions, 21, pp. 78-81 Risposte raccolte da Frédéric Lenoir e Karine Papillaud)

06/11/12

Che fine hanno fatto i "grandi atei" ?






Sono convinto che la progressiva scomparsa della grande fede individuale (cioè degli uomini con grande fede individuale, interiore e pubblica) sta portando nella nostra porzione di mondo, come contraltare alla progressiva scomparsa dei grandi atei. 

La corrente dei grandi atei ha prodotto nella storia delle idee, della letteratura, della filosofia, della teologia,  grandi intelligenze, capaci di analizzare con lucidità ed erudizione, con un pensiero realmente profondo, le buone ragioni della confutazione della credenza religiosa e dell'ateismo.

E il confronto con i grandi spiriti credenti ha prodotto il crogiolo delle idee che hanno alimentato per duemila anni  il pensiero Occidentale.

Anche oggi esistono grandi atei, capaci cioè di dimostrare di sapere ciò che si dice, che sanno argomentare, e che hanno fatto buone letture. Ma sono sempre di meno.

Un sintomo della scomparsa delle ragioni dell'ateismo - riguardo alla fede, e alla questione della/sulla esistenza di Dio/ di un Dio è ad esempio la pubblicazione di un grande gruppo editoriale, pubblicizzata in questi giorni, denominata: Le grandi domande della filosofia e curata da Maurizio Ferraris.

Le domande ci sono tutte - felicità, arte, uguaglianza, bellezza, senso, scienza, pensiero, potere, violenza - meno una: Dio. Esiste Dio o no ? Questo, a quanto a pare, secondo Ferraris non è un tema molto interessante, nonostante la Filosofia se ne occupi da circa 3.000 anni. Eppure sembrerebbe proprio che la quasi totalità della risposta a queste domande dipenda dalla risposta che diamo - o non diamo - a quella.

Scomparsi dunque i temi - e a quanto pare la stessa questione -  di/su fede/ateismo, si assiste invece alla proliferazione di uno pseudo-ateismo piccolo e posticcio, incolto e indistinto, fatto di convinzioni e convenzioni banali, senza nessuno spessore.

La maggior parte degli uomini di oggi non sono tanto atei o non credenti, quanto increduli, scriveva Norberto Bobbio,  ma colui che è incredulo non è fuori dalla sfera della religione. [...] Lo stato d'animo di chi non appartiene più alla sfera del religioso non è l'incredulità, ma l'indifferenza, il non saper che farsene di queste domande. Ma l'indifferenza è veramente la morte dell'uomo

Fabrizio Falconi


05/11/12

Bergman, il maestro raccontato.






«Durante la mia adolescenza Bergman è stato fondamentale. Leggere i suoi libri di memorie, vedere i suoi film e poi scoprire la sua meravigliosa vita teatrale mi hanno dato il coraggio di addentrarmi nei mondi più intricati del mio subconscio, senza per questo temerli o averne paura».

Scrive così Francesca Picozza, autrice romana ed esperta di drammaturgia nordica (ma anche attrice di prosa e di cinema), nella nota personale del volume che ha pubblicato con Sovera Edizioni. Titolo, Ingmar Bergman - Il maestro raccontato, ovvero una biografia contraddistinta dall'approccio personale, emotivo e individuale che la anima. Un libro «che vuole essere una testimonianza, un documento sul grande apporto artistico che Bergman ha donato non solo al teatro svedese ma al teatro in generale», scrive Picozza, precisando che «sebbene la sua fama in Italia sia maggiormente legata alla produzione cinematografica, la carriera di Bergman comprende più di un centinaio di allestimenti teatrali, una quarantina di radiodrammi e quindici produzioni televisive».

Nato ad Uppsala il 14 luglio del 1918 (e scomparso il 30 luglio di cinque anni fa), Bergman viene raccontato - nei tratti intimi, familiari e artistici - dai suoi attori e collaboratori più stretti, che lui ha amato e riconosciuto sempre come la sua unica vera famiglia. Il maestro raccontato consente di accedere alla sfera più personale del grande regista tramite un dialogo aperto “cuore a cuore” con ciascun lettore.

Il testo è arricchito da un’ampia documentazione riguardante le prove e gli allestimenti di numerose messinscene di Bergman, da fotografi del teatro e cinema svedese come Beata Bergström e Bengt Wanselius

Scrive Picozza: «Bergman è stato la presenza determinante seppur silenziosa che, sul set o durante le prove, ha dato l'opportunità all'attore di trasformare l'impossibile in possibile, creando personaggi indimenticabili».


04/11/12

La poesia della Domenica - 'Un pugno contro la porta chiusa' di Albert Ostermaier





Un  pugno contro la porta chiusa


Il tuo magazzino di felicità
fu presto vuoto il tuo cuore
senza sicura e tutto
esaurito per un 
attimo lui non
tornò a ricaricarlo
l'amore rende ciechi per la
forza di un battito del cuore
si è contratto
e batte come un pugno
contro la porta 
chiusa nel petto dell'altro
puoi prenderlo a calci
ma così non 
entrerai all'ombra dei boschi
dietro di lei in cui tu
vorresti sdraiarti a braccia
aperte sopraffatto dalla
delicatezza
dell'erba dai millimetri del 
cielo fra i rami
nel vento il suono attutito
quando le nuvole smettono 
di transitare e sotto
al peso del loro dolore
si dissolvono davanti agli 
ultimi raggi di sole prima
del tramonto regolare
come un'onda giunge
sul diametro dell'
orizzonte il tuo inaspettato
tardivo...


Albert Ostermaier (Muenchen, 30.11.1967)


02/11/12

Le ultime foto di Pier Paolo Pasolini.



Questa foto qui sopra è l'ultima in assoluto che ritrae Pier Paolo Pasolini in vita. E fu scattata da Dino Pedriali  all'alba del 29 ottobre 1975, tre giorni prima della morte. Le foto di Pedriali sono esposte per la prima volta in una mostra, alla Triennale di Milano. Qui sotto un articolo su Pedriali e sulla realizzazione di queste foto. 

Pier Paolo Pasolini nel suo studio, a Sabaudia.

In giro per Roma, alla guida della sua mitica Alfa 2000. Pasolini nel «rifugio» a Torre di Chia, vicino a Viterbo, in una casa immersa nella vegetazione mediterranea dove l'intellettuale scrive, disegna e si mette - letteralmente - a nudo. Sono scatti straordinari, e li ha firmati Dino Pedriali, allora venticinquenne. 


Attenzione alle date: le foto sono state fatte durante la seconda e la terza settimana di ottobre del 1975. Nella notte tra l'1 e il 2 novembre il poeta fu trovato morto sul litorale di Ostia. In quelle due settimane Pasolini commissionò al suo giovane amante un reportage intenso che, stando alle intenzioni dello scrittore, avrebbe dovuto illustrare «Petrolio», il romanzo cui stava lavorando (poi pubblicato postumo). 


La mostra «Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali» (fino al 28 agosto) raccoglie settantotto scatti in bianco e nero sulla quotidianità di Pasolini, ripreso mentre scrive con la sua Olivetti 22 (forse proprio qualche pagina di «Petrolio»), mentre guarda l'obbiettivo con i capelli scompigliati dal vento, mentre legge, mentre dipinge. 


E, soprattutto, mentre è nudo. In questa «consegna del corpo alla fotografia» emerge tutta la grandezza di Pedriali che, giovanissimo e sentimentalmente coinvolto, seppe catturare una sequenza dall'alto valore simbolico: è quella con Pasolini che si muove senza veli per casa, che poi si affaccia alla finestra, cercando quasi con stupore, in un gioco di sguardi con l'obbiettivo nascosto del fotografo, Dino Pedriali. 


I due si erano accordati per scegliere gli scatti migliori del servizio il 2 novembre del '75: sappiamo che Pasolini non ebbe più la possibilità di vederli. 

Che ne fu di tutti quegli scatti, segno di un fortissimo legame tra il giovane fotografo e l'intellettuale scomparso? L'allora sindaco di Roma Giulio Carlo Argan le usò per organizzare una mostra, altri scatti furono pubblicati («i giornali se ne appropriarono invocando il diritto di cronaca», racconta Pedriali). 

Si deve alla costanza di Giovanna Forlanelli, editore di Johan&Levi, la pubblicazione, per la prima volta in un volume, di questo reportage che nelle intenzioni di Pasolini doveva servire a illustrare il suo romanzo più discusso e che invece, beffardamente, vale ora come suo testamento artistico. 

Di questo ha parlato, ieri in Triennale, Dino Pedriali: «Sono l'unico custode del corpo del poeta», ha detto in un momento di estrema commozione, inveendo contro la politica («che non ha mai amato Pasolini») e contro un articolo di Walter Veltroni uscito sull' «Espresso» lo scorso febbraio («Tutti gli anni si parla di Pasolini e immancabilmente spunta fuori la tesi del complotto politico»). Poi si è tolto le vesti, rimanendo nudo davanti agli scatti, nudi, di Pier Paolo Pasolini, sotto lo sguardo di giornalisti e addetti al museo. 


In mano un coltello in una provocazione disperata, come la domanda contenuta nella sua introduzione al volume che accompagna la mostra: «Ero l'unico che aveva il corpo del poeta intatto. La cultura si è nutrita almeno del suo pensiero?».

2 novembre: Nabokov e la Morte.



La vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la morte non potrebbe esserne una anche più grande. 

Vladimir Vladimirovič Nabokov  (Pietroburgo 23 aprile 1899 - Montreux, 2 luglio 1977)

01/11/12

La celebrazione dei Santi - Fratel Konrad da Parzham.




Nel giorno in cui si celebrano i Santi, propongo qui un breve ritratto di un santo 'minore'. 

La foto qui sopra fu realizzata il 21 aprile del 1894. E’ un esemplare molto importante, per diversi motivi, uno dei quali è quello di rappresentare l’unico scatto originale esistente, di un santo tedesco, prima di Edith Stein, canonizzata da Giovanni Paolo II pochi anni fa, l’11 ottobre 1998, nata a Breslavia, città passata oggi in territorio polacco con il nome di Wroclaw.

Nessun altro santo, dei molti prodotti dal cattolicesimo tedesco, fu mai fotografato.

Nessuno, tranne San Konrad da Parzham, frate cappuccino, nato l’antivigilia di natale del 1818 a Parzham a pochi chilometri da Passau, nell’estremo lembo orientale della Baviera.

Fratel Konrad fu fotografato il giorno della sua morte. Il santo, che aveva allora 76 anni, è ritratto composto nel saio francescano, la barba bianca lunga, l’espressione serena, come se fosse dormiente, la testa poggiata su un voluminoso cuscino bianco, le mani serrate intorno ad un piccolo crocefisso di legno, e a un messale.

Sembra quasi incredibile: a questo umile frate cappuccino sono oggi dedicate, nei quattro angoli nel mondo, ben 175 chiese. Dagli Stati Uniti al Cile, dal Madagascar alla Nuova Guinea.

La vicenda di Fratel Konrad mi ricordava da vicino quella di un altro Santo della Chiesa, anche lui frate cappuccino, a me molto più familiare perché veneratissimo patrono del paese reatino dal quale la mia famiglia, da molte generazioni, discende: San Giuseppe da Leonessa, al secolo Eufranio Desideri, nato nel 1556, che dal piccolo borgo appenninico, finì addirittura a predicare a Costantinopoli, sotto il regno del sultano Amurat III. E sembra che proprio a causa di questa ambizione ‘sconsiderata’ di provare a convertire niente di meno che il Sultano, si debba il terribile supplizio del gancio al quale Eufranio fu sottoposto, riuscendo per il resto a sopravviverne, e a far ritorno vivo al suo paese.

Al Santo leonessano, fra l’altro, Konrad da Parzhan sembrava perfino somigliare nei tratti del volto, almeno a giudicare dalle molte raffigurazioni e dipinti che avevo visto durante la mia infanzia nelle molte chiese di quel borgo. Della storia di questi ‘santi minori’ è fatta la storia dell’Occidente, prima che della Chiesa. E a leggere la vicenda terrena di Fratel Konrad, si ha la conferma che la strada della santità non è per forza lastricata di miracoli, prodigi o stimmate.

Lo avrei capito meglio una volta arrivato ad Altotting, luogo in Italia non molto conosciuto, ma pur sempre il quinto santuario più visitato d’Europa, nonostante si trovi esattamente al centro di quella vecchia mitteleuropa ormai in avanzata fase di de-cristianizzazione.

Ad Altotting, Fratel Konrad arrivò quando aveva 31 anni. Era nato con il nome di Hans Birndorfer, un bimbo come tanti, figlio di contadini. Poi, l’incontro con la fede, come spesso succedeva in quegli anni conclamatosi nel corso di interminabili pellegrinaggi a piedi, per le chiese e gli eremi di preghiera di cui è disseminata la campagna di Passau. Fino ad Altotting, città da cui però Konrad non tornò più indietro.

Ad Altotting si fece cappuccino, diventando dapprima l’umile aiutante del portinaio. La soglia del convento segnò il suo destino: strinse ogni giorno le mani dei pellegrini, nutrì gli affamati e i poveri, diventò il punto di riferimento di tutti quelli che vedevano in quel luogo una possibilità di salvezza, un rimedio, anzi l’unico rimedio alle loro vite.

Alla morte del vecchio portinaio, ereditò lui il posto. E restò il titolare dell’umile mansione per qualcosa come 41 anni.

Una vita di straordinaria ordinarietà dunque, che pure, come detto, gli valse la santità, concessa da Papa Pio IX nella Pentecoste del 1934.

Tratto da Dieci Luoghi dell'Anima, di Fabrizio Falconi, ediz. Cantagalli, Siena, 2009. 

30/10/12

L'Egoismo è finito, serve la civiltà dello stare insieme. Un nuovo libro.





"Non si puo' essere felici da soli": cosi' ragionava Aristotele, anche se il suo insegnamento e' stato presto rimosso dall'uomo globalizzato. Piu' soli, piu' fragili, piu' lontani: ecco il buio del tunnel dove siamo finiti. Ma l'egoismo, per quanto radicato nei cromosomi, non può funzionare come bussola di civiltà, tanto piu' in tempi di crisi.

E' un vero e proprio manuale della felicita' quello di Antonio Galdo, giornalista e scrittore, autore di "L'egoismo e'finito" (Einaudi, 114 pagg., 12 euro). 

Un libro sull'amore, innanzitutto, come precisa lo stesso Galdo, "su quella parte di noi, di ciascuno di noi, che ha bisogno dell'altro, di una relazione che unisce laddove la solitudine separa". Ma anche un testo - interessante e originale - alla scoperta di nuovi modelli gia' in atto.

"La Grande Crisi marca la fine di un paradigma, di un pensiero unico, e ci spinge alla ricerca di nuovi fondamentali, non solo economici", annota l'autore, che parte dai ricordi della sua infanzia per riannodare un discorso sul se' e gli altri. 

A partire da "mia madre", "sempre lei" a "trasmettere nel silenzio delle sue scelte di vita la componente genetica della natura umana che contrasta, in una misteriosa e oscura lotta, l'egoismo: l'altruismo".

Del resto, osserva Galdo, persino la scienza sta sfatando il mito: egoisti non si nasce, hanno scoperto alcuni scienziati, individuando un gene dell'altruismo (si chiama AVPR1A) che regola un ormone del nostro cervello. Ad ogni gesto di altruismo, hanno verificato gli esperti, corrisponde una vera e propria sensazione di benessere fisico, e persino di gioia. 

Ma il 'viaggio' di Galdo non finisce qui perche' il cambio di paradigma e' non solo un'aspettativa del futuro; e' gia' in atto. Lo dimostrano le molte storie contenute nel volume e che insegnano la 'declinazione del noi', piccoli grandi pilastri della civilta' dello stare insieme. Storie di citta' pensate per condividere i luoghi, i trasporti e gli spazi, come lo 'shared space' della pioniera Zurigo. Concezioni nuove dell'abitare, attraverso le nuove frontiere del co-housing o dell'housing sociale. 

O, ancora, la riscoperta degli orti urbani e il lancio di quelli verticali, gli avveniristici 'grattaverdi' di New York. Per non parlare del fascino del baratto, tornato alla ribalta grazie a internet e ai moltissimi siti su e' possibile scambiare di tutto, dagli elettrodomestici ai vestiti, dalla musica agli appartamenti.

"Il benessere costruito attorno al moltiplicarsi di pulsioni individuali non garantisce stabilita'", avverte l'autore, che pero' confida in una nuova svolta epocale: dopo la 'febbre dell'abbondanza', "la necessita' del ritorno a stili di vita piu' sostenibili che la natura umana ci impone se non vogliamo arrenderci a un autodistruttivo delirio di onnipotenza". 

"Sono nato in una Paese, l'Italia, che ha compiuto il suo salto nella modernita' attraverso un'idea forte di comunita', in grado di comporre l'innato individualismo di un popolo - scrive Galdo - La famiglia, la fabbrica, la parrocchia, il partito, il sindacato, ma anche la piazza, il bar, il villaggio: tutti luoghi dello stare insieme. Entrati in cortocircuito sotto i colpi della civilta' dell'egoismo, e adesso riscoperti nella tempesta della Grande Crisi e nella consapevolezza che da soli e' tutto piu' difficile, forse impossibile". 

29/10/12

Nietzsche e la vita.




La vita consiste in rari momenti singoli di altissimo significato e in innumerevoli intervalli in cui nel miglior caso ci si aggirano intorno le ombre di quei momenti. L'amore, la primavera, ogni bella melodia, la montagna, la luna, il mare – tutto parla una sola volta veramente al cuore: seppure giunge mai a parlare. Giacché molti uomini non hanno affatto quei momenti e sono essi stessi intervalli e pause nella sinfonia della vita reale.

Friedrich Nietzsche, Umano Troppo Umano, Adelphi 2011, tomo I, pag.586


28/10/12

La poesia della domenica - 'Il cielo diviso in particelle' di Francesca Vitale.



15.

Il cielo diviso in particelle
ma il mare attrae di più
perderti poi staccarti.
Era l'incanto, il sogno
libero dai numeri
a resa scomparsa.

24.

Qualcosa che ci salvi
che dica ancora : vita è
un minimo consenso.



Francesca Vitale, da Microscritture, La camera verde, 2007.

26/10/12

31 ottobre: La Cappella Sistina compie 500 anni




Capolavoro assoluto di tutti i tempi, "lucerna dell'arte nostra", come la defini' Giorgio Vasari, ancora oggi meta (ogni anno) di 5 milioni di visitatori provenienti da ogni parte del mondo (e che ne mettono a rischio l'integrita'), la Cappella Sistina  (QUI IL SITO CON LA VISITA VIRTUALE), celebra il 31 ottobre i 500 anni dallo svelamento degli affreschi della volta. Il pontefice Giulio II della Rovere, che l'aveva commissionata a Michelangelo Buonarroti nel 1508, dovette aspettare ben 4 anni prima di ammirare quell'immane, insuperata opera popolata di centinaia di figure e scene delle Scritture, capaci di rivoluzionare la storia dell'arte influenzandola per secoli.

Solo nell'agosto del 1511, il 'papa guerriero' era riuscito a compiere una parziale visione degli affreschi, che andavano a sostituire nella volta della Sistina il magnifico cielo stellato dipinto da Pier Matteo d'Amelia, di certo ispirato dalla padovana Cappella degli Scrovegni. Una meraviglia che perfettamente si armonizzava con le decorazioni volute Sisto IV, anche lui un della Rovere, che aveva fatto edificare tra il 1477 e il 1483 la Cappella. A tal scopo erano stati chiamati i maestri indiscussi del '400 italiano da Botticelli al Ghirlandaio, da Signorelli a Perugino, il quale coordino' il lavoro dei ponteggi e realizzo' per la parete dell'altare 'La Nativita' di Cristo' e 'Mose' salvato dalle acque', nonche' la pala dell'Assunta.

La nuova commessa di Giulio II si rese necessaria per la grande crepa che si era prodotta sulla volta per un inclinamento della parete meridionale. Vasari racconta che fu proprio il Bramante, uno dei maggiori sostenitori di Raffaello Sanzio, a suggerire al pontefice il nome di Michelangelo, conosciuto soprattutto come scultore. Tra il Buonarroti e il genio urbinate si stava consumando un'aperta rivalita', e il primo architetto del papa, sicuro che Michelangelo non sarebbe stato in grado di eguagliare i capolavori di Raffaello, secondo l'autore delle Vite trovo' questo espediente per "levarselo dinanzi".

Anche per la soluzione di mettere a punto dei ponteggi idonei a quell'impresa (la volta e' a 20 metri da terra), Bramante elargi' consigli dubbi, tali da danneggiare lo stesso edificio. Capita l'antifona, prosegue il Vasari, l'artista fiorentino decise di costruirsi da solo l'impalcatura e affronto' quell'immane lavoro con pochi collaboratori fidatissimi. I problemi arrivarono subito con lo strato di intonaco steso sulla volta, che comincio' ad ammuffire perche' troppo bagnato. Michelangelo dovette rimuoverlo e ricominciare da capo, ma provo' una nuova miscela creata da uno dei suoi assistenti, Jacopo l'Indaco. Questa non solo resistette alla muffa, ma entro' anche nella tradizione costruttiva italiana.

Inizialmente il Buonarroti era stato incaricato di dipingere solo dodici figure, gli Apostoli, ma presto l'impegno cambio'. Su sua richiesta, ritenendo il progetto iniziale "cosa povera", ricevette da Giulio II un secondo incarico che lasciava all'artista la piena ideazione del programma. In solitudine Michelangelo si mise all'opera e concepi' una possente architettura in cui inseri' nove Storie centrali, raffiguranti episodi della Genesi, con ai lati figure di Ignudi, a sostenere medaglioni con scene tratte dal Libro dei Re. Alla base della struttura architettonica, ecco i dodici Veggenti, Profeti e Sibille, assisi su troni monumentali contrapposti piu' in basso agli Antenati di Cristo, raffigurati nelle Vele e nelle Lunette. Nei quattro Pennacchi angolari, l'artista rappresento' infine alcuni episodi della salvazione miracolosa del popolo d'Israele.

Durante l'impresa, Michelangelo pretese che nessuno vedesse il suo capolavoro, rifiutando regolarmente le richieste di Giulio II di ammirare, insieme alla sua corte, lo stato dei lavori. Il rivale Raffaello, che in realta' ne comprendeva il genio, riusci' nel 1510 a contemplare parzialmente la prima parte degli affreschi e ne rimase cosi' colpito da inserire un ritratto di Michelangelo (l'Eraclito) nella Scuola d'Atene. E quando fu necessario smontare parte dei ponteggi, anche il papa e il suo seguito videro quello che il Buonarroti stava realizzando. 

L'artista stesso si rese conto che doveva portare delle modifiche al suo modo di dipingere.

Nelle scene del Peccato originale e della Cacciata dal Paradiso Terrestre e nella Creazione di Eva la raffigurazione divenne quindi piu' spoglia, con corpi piu' grandi e massicci, accentuando la grandiosita' delle immagini. Ma non cedette mai alle pressioni del pontefice per aggiungere piu' oro e decorazioni. Nel tardo pomeriggio del 31 ottobre 1512, Giulio II inauguro' la conclusione della volta della Cappella Sistina celebrando la liturgia dei Vespri alla vigilia di Ognissanti. Lo stesso gesto che per omaggio al capolavoro assoluto di Michelangelo ripetera' a 500 anni di distanza esatti papa Benedetto XVI.

25/10/12

Tutto quello che un genitore può sbagliare - La 'Lettera al Padre' di Franz Kafka.




E' ancora oggi arduo giungere fino alla fine della lettura della 'Lettera al Padre', scritta da Franz Kafka - e mai consegnata al suo destinatario - nel 1919. 

Sono soltanto una cinquantina di pagine nelle quali lo scrittore praghese - all'epoca 36 enne - esprime lucidamente e ferocemente (ma con estrema pacatezza e perfino con molta compassione)  i suoi sentimenti al padre, quell'Hermann Kafka, morto pochi anni dopo, nel 1931 (sette anni dopo il figlio), ricco commerciante ebreo, padre dello scrittore. 

Sono pagine terribili perché - con lo strumento della sua grandezza di scrittore e con la sua perspicacia analitica - Franz traccia il profilo di una educazione devastante, di una figura di riferimento, autoritaria, tracotante e onnisciente che produrrà effetti nefasti sul bambino prima e sull'adolescente poi impedendogli di giungere ad una maturazione adulta, al compimento della propria personalità. 

E' una lettura, dicevo, impressionante, che pure ognuno, ognuno che si appresta a diventare padre o che è già, dovrebbe leggere con attenzione e meditare a lungo. 

Questo uomo, Hermann, così risoluto nelle sue certezze e così insensibile ai danni che procura alla formazione del carattere del figlio - per sempre minato nelle sue convinzioni, nella fiducia in sé, nello spirito con cui affronterà la vita e il mondo - viene così descritto nelle ultimissime pagine della lettera:  tutto ciò che io ho individuato in te, e tutto insieme, buono e cattivo, come è fisiologicamente riunito in te, quindi forza e disprezzo del prossimo, buona salute e una certa smodatezza, talento oratorio e inadeguatezza, fiducia in sè e insoddisfazione verso gli altri, senso del dominio e tirannia, conoscenza degli uomini e diffidenza verso la maggior parte di essi...  

Hermann demolisce ogni certezza o attitudine del figlio, individuandone i macroscopici e imperdonabili difetti nella sua inadeguatezza fisica, nel suo scarso impegno, nella sua incapacità materiale nel fare le cose, nella astrusa propensione per lo scrivere, nella incapacità totale di scegliersi una donna e di formare una famiglia. 

In fondo Hermann, senza saperlo, mette in scena un intero catalogo di tutto quello che si può sbagliare nella educazione di un figlio. 

Questo, paradossalmente, incoraggerà il talento del giovane Franz che diverrà - quasi senza volerlo, lasciando perfino scritto di "bruciare" tutti gli scritti dopo la morte (disposizione per fortuna non eseguita dall'amico Max Brod)  - uno dei più grandi scrittori del Novecento. 

E questa è una grande lezione. Anche dalla terra arida, dal deserto individuale nel quale si è costretti a vivere e a svilupparsi, anche senza nessuna cura spirituale o solidale (prima ancora che parentale), possono sorgere fiori duraturi e meravigliosi. 

Fabrizio Falconi


   



24/10/12

Crisi delle religioni e isolamento individuale (nelle questioni ultime).




Nessuno più parla del termine alienazione - così in voga nel Novecento - corollario che sembrava quasi indistinguibile da quello di modernità.

Eppure sintomi diversi di alienazione - il disagio dell'uomo nell'età moderna, ormai lontano dalle radici e dal contesto naturale - continuano a manifestarsi e riguardano l'essenza stessa dell'umano: le domande fondamentali alla base di ogni coscienza.  

La crisi delle religioni - soprattutto nell'aspetto della pratica collettiva - sta portando e porta infatti come effetto collaterale anche quello di sospingere ogni tema meta-fisico - la percezione di esso, nell'ambito strettamente individuale.

Ciascuno è incoraggiato, invitato - dal mondo in cui vive - e in certi casi perfino costretto a sbrigare questo radicale confronto nell'appartato mondo del proprio sé.  

Ciò comporta che di temi metafisici - che in definitiva sono quelli che più ci occupano mentalmente durante la vita (chi siamo, perché siamo qui, dove andiamo a finire, esiste dio) non è più conveniente parlare in pubblico. Anzi, questi temi sono caldamente banditi da ogni consesso pubblico e il nuovo conformismo prevede che debbano essere vissuti interiormente e individualmente.

Tale tendenza - è appena il caso di sottolineare che per molti secoli non è stato così, i temi metafisici venivano con-divisi socialmente - porta ad un sempre crescente isolamento e in definitiva ad una sempre crescente infelicità, perché ogni uomo è lasciato solo a ruminare i suoi dubbi, i suoi scoramenti, la sua inadeguatezza di fronte all'incomprensibile e all'infinito.

La nuova umanità - vagheggiata -  comincerebbe da qui: da una nuova possibilità che su queste vicende ultime, e essenziali, ogni uomo possa ritornare ad aprire - senza paura - il suo cuore (oltre che la sua mente) e la sua bocca. 

Fabrizio Falconi

22/10/12

Creare sotto le bombe.






Questo è dedicato a tutti coloro che pensano e sono convinti che per esprimere la propria creatività - qualunque essa sia - bisogna necessariamente rifugiarsi in un eremo, stare tranquilli, trovare il tempo, isolarsi da tutto e da tutti:

Ludwig Wittgenstein cominciò a scrivere la prima pagina del suo diario, nel 1914, appena entrato in trincea. Lo terminò alla fine della guerra.

Era il Tractatus logico-philosophicus, l'opera filosofica più importante del Novecento. Nel dicembre del 1914, imbarcato su un cargo militare, egli annotò: 

di notte i cannoni hanno fatto fuoco talmente vicino a noi, che la nave traballava. Ho lavorato molto e con successo.

Allora, forza: un po' di coraggio..  Coraggio: sembra essere quel che manca in questi tempi confusi e adagiati.  Qui le bombe non le abbiamo, ma ogni giorno ciascuno si carica di mille alibi per non fare nulla.



foto in testa: manoscritto originale del Tractatus, 1915.

21/10/12

Poesia della domenica - "Un'acre nostalgia" di Yehuda Amicai.






 Mi ha assalito un’acre nostalgia,
come la gente d’una vecchia foto che vorrebbe
tornare con chi la guarda, nella buona luce
della lampada.

In questa casa, penso a come l’amore
in amicizia muta nella chimica
della nostra vita, e all’amicizia che ci rasserena
vicini alla morte.
E quanto è simile ai fili sparsi la nostra vita
che piú non sperano di tessersi in altro ordito.

Giungono dal deserto voci impenetrabili.
Polvere che profetizza polvere. Passa un aereo
e ci chiude
sotto la lampo di un grosso sacco di destino.

E il ricordo di un viso amato di ragazza
trascorre per la valle, come quest’autobus
notturno: molti
finestrini illuminati, molto viso di lei.


Traduzione di Ariel Rathaus


da: Yehuda Amichai,  Poesie,  introduzione di Ted Hughes, traduzione di Ariel Rathaus, Crocetti Editore 1993, 2001

20/10/12

Pessoa, esoterismo e astrologia: fece "le stelle" perfino a Mussolini.




Esoterismo e astrologia non erano solo una passione per Fernando Pessoa ma un modo di guardare al mondo che ha influenzato la sua opera e la poesia dei suoi eteronimi, oltre che una fonte di guadagno per il poeta portoghese. 

E' quanto sostengono Jeronimo Pizarro, fra i massimi esperti di Pessoa, e l'astrologo Paulo Cardoso, autore di saggi sugli aspetti esoterici del poeta, ora curatori del libro, 'Fernando Pessoa. L'astrologo', che sara' pubblicato, con illustrazioni, il 15 novembre da Cavallo di Ferro. 

Finora totalmente inedito, il libro riunisce e interpreta per la prima volta le piu' significative carte astrologiche che Fernando Pessoa ha fatto su se stesso, sui suoi eteronimi e sui grandi personaggi della storia della letteratura, della cultura e della politica dell'epoca, tra cui il Re d'Italia e Mussolini. 

Poeta, saggista, narratore, drammaturgo, scrittore di gialli, filosofo, Pessoa sotto lo pseudonimo di Raphael Baldaya ha fatto dell'astrologia un'insolita professione e fonte di guadagno, secondo recenti scoperte biografiche sulle quali e' basato il libro di Pizarro e Cardoso. 

Grande studioso di stelle e astri - ai quali ha dedicato anche un trattato teorico - e' proprio a Pessoa e alle sue ricerche, spiegano i curatori del libro, che si deve l'introduzione del pianeta Plutone, scoperto nel 1930, nelle carte astrologiche. 

Nei suoi quaderni, il poeta ha addirittura calcolato, con una certa precisione, anche la data della sua morte, che era un'ossessione alla quale ha dedicato moltissime riflessioni, e previsto avvenimenti futuri come la Rivoluzione dei Garofani. 

fonte ANSA

18/10/12

1700 anni dalla Battaglia di Ponte Milvio - Celebrazioni in tutto il mondo.






  C’è una ragione che appare evidente a tutti del motivo per cui la Battaglia di Ponte Milvio è unanimemente considerata una delle più importanti della storia moderna: già dalle lezioni mandate a memoria sui banchi scolastici si è imparato a comprendere che la vittoria dell’esercito di Costantino I il Grande, il 28 ottobre del 312 d.C. contro le truppe rivali di Massenzio, segnò i destini non solo dell’Impero Romano, ma dell’Occidente intero, visto che già dall’anno seguente la Battaglia, nel 313, lo stesso Costantino promulgò il celebre Editto di Tolleranza o Editto di Milano, primo passo del rapido processo di cristianizzazione che contrassegnò la storia dell’Europa prima e dell’Occidente poi.

  Quella battaglia ha rappresentato a lungo un rompicapo per gli storici. Non ci sono infatti motivi razionali sufficienti per spiegare le ragioni per cui Massenzio, “l’usurpatore” – colui che aveva occupato, nel difficile periodo della tetrarchia nel quale il potere nell’Impero era massimamente frazionato – pur disponendo di forze superiori e comodamente asserragliato nelle mura mai violate della città di Roma, decise di affrontare il nemico, Costantino, in  campo aperto, andando così incontro ad una delle più cocenti sconfitte della antica storia bellica.

  Costantino arrivò alle porte di Roma dopo una dispendiosa campagna militare nel nord Italia contro le truppe avversarie e dopo aver attraversato l’Italia centrale discendendo lungo l’antico tracciato della Via Flaminia. Giunto in prossimità dell’Urbe, Costantino, il grande condottiero nato e cresciuto sui campi di battaglia, si accampò subito prima della collina di Prima Porta, ultimo rilievo prima della valle del Tevere che conduce a Roma.

  Ed è proprio in quel luogo – là dove sorge l’Arco di Malborghetto, un monumento che pochi romani ancora conoscono – che sarebbe stato testimone di quella visione dai  contorni leggendari: nella notte prima della battaglia, riferiscono due diverse fonti,  lo scrittore latino Lattanzio e il vescovo Eusebio di Cesareo, l’Imperatore avrebbe visto nel cielo notturno quel segno – la Croce – insieme al volto di Cristo, che gli assicurava protezione e vittoria contro l’avversario pagano.

 Sui contenuti di questa Visione si è molto discusso, nei secoli. Illusione, suggestione, realtà, abile strategia ? Insieme a Bruno Carboniero in un recente saggio pubblicato per Edizioni Mediterrenee (‘In Hoc vinces’, 2011) abbiamo fornito i risultati di una sorprendente scoperta (che ha già avuto risonanza in ambito scientifico e accademico) che legherebbe la visione  ad un preciso ed eloquente fenomeno astronomico visibile proprio in quella notte.

 Il resto della storia è noto: Costantino, persuaso dalla visione – che tutto il mondo conosce con la sigla ‘In hoc signo vinces’ – fece iscrivere il segno della Croce criptato nel simbolo del Labarum sulle insegne del suo esercito e il giorno dopo la clamorosa vittoria gli arrise: le truppe di Massenzio, fuoriuscite dalla città affrontarono quelle di Costantino nella piana di Saxa Rubra. Con una manovra a tenaglia le seconde ebbero subito il sopravvento, costringendo l’esercito di Massenzio ad indietreggiare fino all’argine naturale del Tevere, nelle cui acque l’usurpatore stesso finì per annegare insieme al suo cavallo.

  Costantino, con questa schiacciante vittoria, divenne il più importante pretendente al potere assoluto imperiale, che assunse di lì a poco, nel 324 d.C., dopo la morte di Licinio,  restando l’unico regnante fino alla morte che avvenne nel 337.

  Nel giro di soli due decenni dunque, l’Impero Romano cambiò totalmente pelle, diventando cristiano, nacquero le prime grandi basiliche romane, il culto fu istituzionalizzato, l’Impero conobbe una nuova stagione di enorme e stabile prosperità.
  Di tutto questo Flavio Valerio Costantino fu il fautore, e a coloro che oggi vivono a Roma questa vecchia storia millenaria dovrebbe comunque essere molto familiare, se non altro per la stessa etimologia dei luoghi che si attraversano, in particolare nel territorio del XXmo Municipio:  Labaro, Malborghetto, Saxa Rubra, Ponte Milvio.

  Luoghi costantiniani che parlano ancora oggi, di una storia vera e concreta che ci riguarda da vicino e che racconta non solo dei nostri padri ma anche di  noi, per capire chi siamo e come siamo arrivati ad essere quello che siamo.


Fabrizio Falconi 

in testa: Piero della Francesca, Vittoria di Costantino su Massenzio, ciclo della Leggenda della Vera Croce, Basilica di San Francesco, Arezzo.