30/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (5./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (5)


Le ultime pagine del 1961, prima della morte, sono straordinarie.
      Il giorno del giovedì santo (30 marzo), Hammarskjold davvero profeticamente, scrive:
    
     La morte si avvicina
     Tutta la volontà di un uomo Quantum Satis ?
     Egli è Deus Caritatis.
 
     Ragionavo per intendere questo,
     ma era troppo complicato per me:
    finché non sono entrato nel santuario di Dio. (14)

     Le prime tre righe di questo scritto sono tratte dal dramma di Ibsen, Brand.  E davvero l’invocazione del  pastore ibseniano che grida a Dio, devono apparire ad Hammarskjold, in quei giorni di terribile solitudine, un pre-sentimento fortissimo.   Poche settimane dopo, il 21 maggio, il giorno di Pentecoste, scrive quel brano di diario destinato a diventare un piccolo classico della spiritualità, brano nel quale, in poche righe, in scarne parole, è contenuto il significato di una vita intera e di una ricerca. Una traccia di cammino,  testamento esemplare da consegnare ai posteri:
   
      Io non so chi - o che cosa - abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno - o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l'esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d'Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l'impegno nella vita è l'oltraggio, e che l'umiliazione più profonda costituisce l'esaltazione massima che all'uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto. Proseguendo il cammino imparai, passo dopo passo, parola per parola, che dietro a ogni detto dell’eroe dei Vangeli, vi è un essere umano e l’esperienza di un uomo.  Anche dietro la preghiera che il calice gli fosse allontanato e dietro la promessa di vuotarlo.  Anche dietro ogni parola sulla croce.  (15)

      La consapevolezza che nulla può essere tolto.  Una pienezza nuova e sconosciuta e finalmente raggiunta. Nella umanità divina, nella sottomissione del Figlio, nel compimento di un , egli trova la risposta tanto agognata.  La domanda è stata posta nel modo giusto, la risposta è arrivata prima di comprendere pienamente la domanda, sulla base di una fiducia totale, di una sottomissione senza pretese, nella certezza di essere nel giusto.  Il 2 agosto del 1961, 40 giorni prima dell’incidente scrive:

Onnipotente…
Perdona
il mio dubbio,
la mia ira,
il mio orgoglio.
Piegami
con la tua grazia.
Innalzami
con il tuo rigore.

     Nel Getsemani personale di Hammarskjold l’ora è giunta.    E’ un nuovo paese,  scrive nell’ultima pagina del suo diario, il 24 agosto, in una realtà diversa da quella del giorno ? Oppure ho vissuto io lì, prima del giorno ? …. Eppure è lo stesso paese. E comincio a riconoscere la mappa e i punti cardinali. 
     I contorni del nuovo paese  sono forse quelli di una nuova Gerusalemme.  O almeno così piace immaginare, quando si giunge al termine della lettura delle fitte pagine di Markings, il Diario di Hammarskjold.   Il sacrificio, come tutto lasciava presagire, si compì.
     Riguardo la sua morte oggi sappiamo che si trattò, con ogni probabilità di un omicidio, voluto dalla compagnia franco-belga Unione Miniere,  una eliminazione motivata dall'opposizione dell'allora segretario generale dell'Onu alla secessione di una regione, goloso obiettivo di una delle società minerarie più potenti del pianeta. Scrive Luciano Canfora: “E ora, dopo quarant’anni, nelle pagine molto interne dei giornali, leggiamo quello che abbiamo sempre saputo: che l’Unione Miniere condannò a morte (per "incidente aereo") anche Hammarskjold, il segretario generale dellOnu, colpevole di opporsi alla secessione del Katanga, preda avita dellUnione Miniere”.  (16)
       Quel viaggio doveva servire al Segretario Generale per raggiungere il villaggio di Ndola, al confine tra Katanga e Rhodesia del Nord ed incontrare i secessionisti, convincerli a intavolare subito una trattativa di pace. 
       All’aeroporto di Leopoldville, prima di salire sulla scaletta dell’aereo, per l’ultimo volo fatale, Hammarskjold aveva confidato all’amico Sture Linner di aver appena intrapreso una propria personale traduzione dell’opera capitale di Martin Buber, l’Io e il Tu.
       Per l’uomo che aveva fatto della sua vita – al prezzo di una personale solitudine e di una devozione estrema - un inno alle possibilità della relazione, di ogni relazione, umana e divina, davvero non poteva esserci un testo programmaticamente più scelto di questo.

       “Lo scopo della relazione”  scrive Buber in una delle pagine più intense di quel libro, “è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un  alito del Tu, cioè della vita eterna.” (17)     (5-FINE) 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

14. Op. cit. pag. 224 
15. Op.cit. pag.225 
16. Luciano Canfora, “Critica della retorica democratica”, Laterza, 2002. 
17. Martin Buber, Io e Tu, in Principio Dialogico, Comunità Milano, 1958, pag. 57.

29/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (4./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (4)


Il coraggio non manca, dunque, a quest’uomo che sembra davvero aver posto un obiettivo ambizioso, davanti a sé: quello della santità, dell’avvicinarsi quantomeno alla santità, nella certezza di aver fatto tutto quel che si poteva, di aver dato tutto quel che si aveva.
      Un coraggio che da solo, servirebbe comunque a poco. E’ soltanto nell’accettazione, nel piegarsi ad una volontà superiore, e semmai proprio nello sforzo continuo di identificare questa volontà – cosa vuoi tu da me ? – che il cammino può proseguire, e giungere fino al termine.  In questo, il percorso di Hammarskjold ricorda da vicino quello di un altro gigante del Novecento, Dietrich Bonhoeffer.  Scrive nel suo quaderno Dag:

     Dinnanzi a te, padre
        In rettitudine e umiltà
     Con te, fratello,
        In fedeltà e coraggio !
     In te, spirito
        In quiete.

   Tuo, perché la volontà è il mio destino,
votato perché il mio destino è di essere usato e
consumato secondo la tua volontà.  (11)

    Rettitudine, umiltà, fedeltà, coraggio, quiete.  Parole semplici che nella teodicea di Hammarskjold rappresentano le strade convergenti per uniformarsi alla volontà di Dio. La fede, in fondo, appare soltanto che questo:  lo scomponimento delle proprie aspettative egoistiche, lo scioglimento di se stessi, delle proprie velleità individuali, in un disegno più grande, in un servizio più grande.
    
La fede è l’unione di Dio con l’anima, scrive Hammarskjold citando San Giovanni della Croce, La fede è: dunque, non può essere afferrata, né tantomeno identificata con formule usate per parafrasare ciò che è.      …. In una notte oscura. La notte della fede tanto oscura che non si può cercare nemmeno la fede.  E’ nella notte del Getsemani che l’unione si compie, quando gli amici dormono, gli altri tramano la rovina e Dio tace.
     Essere guidati da quel che vive quando “noi” più non viviamo come parti in causa o “saccenti”. Saper ascoltare e vedere ciò che dentro di noi è nel buio. E nel silenzio. (12)
     
      Negli ultimi tre anni, dal 1958 alla fine, il linguaggio nei Diari di Hammarskjold si fa sempre più rarefatto, sempre più diluito, quasi in obbedienza a questa legge del silenzio che sembra avvicinarlo sempre di più a Dio.  Aforismi e considerazioni, riflessioni e meditazioni sul proprio mestiere, sugli incontri e le circostanze, lasciano il posto ormai a veri e propri piccoli componimenti poetici, fatti di rapide terzine, di versi brevi tagliati, densi di immagini delicate e forti, di impressioni e combattuti sentimenti difficili da esprimere,  di considerazioni che appaiono davvero ultime, in cui si avverte spesso il peso di un destino:

Il cammino degli altri
ha soste
al sole
dove si incontrano.
Ma questo è  il tuo cammino,
ed è proprio ora,
ora, che non puoi tradire. (13)
      
      Ma davvero questo cammino particolare è anche un duro privilegio. Mi desti forse questa solitudine senza scampo affinché più facilmente io potessi darti tutto ? Scrive nel giorno del suo cinquantatreesimo compleanno. 

      Il Tu a cui si rivolge in modo sempre più accurato negli ultimi tempi della sua vita Hammarskjold, non è più così silenzioso. Una risposta arriva, è una risposta confermativa, ma – è la scoperta più radicale – una risposta che dipende molto (anzi, che dipende tutto) dalla domanda.    (-segue 4./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


11. Op.cit. pag. 141
12. Op. cit. pag. 114 
13. Op. cit. pag.233

27/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (3./)

      


Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (3)


E’ questo un primo orientamento importante,  sul quale Hammarskjold ritorna quando in una pagina del 1952 citando nuovamente Joseph Conrad e i personaggi del suo Lord Jim, scrive: Al limite dell’inaudito. L’inaudito; forse solo l’ultimo incontro di Lord Jim con Doramin, quando egli è giunto all’assoluto coraggio, e all’assoluta umiltà, in assoluta lealtà verso se stesso.  Con vivi sensi di colpa, ma cosciente a un tempo di aver assolto il debito, per quanto possibile in questa vita, attraverso quanto ha fatto per coloro che ora chiedono la sua vita.   Tranquillo e felice. Come quando si vaga solitari in riva al mare. (4)
    Assoluto coraggio dunque, assoluta umiltà, assoluta lealtà verso se stesso.  Sono queste le condizioni per consentirsi di giungere con animo tranquillo e felice all’appuntamento con la morte.  Hammarskjold ci pensa da sempre.  Lo scrive eloquentemente nel 1955 – e mancano soltanto sei anni alla fine della sua vita: Un tempo la morte faceva sempre parte della compagnia. Ora è la mia vicina di tavola: me la devo fare amica. In questa “riscoperta” intuitiva divenuta il filo di Arianna della mia vita – passo per passo, giorno dopo giorno – ora la fine è divenuta altrettanto palpabile quanto il dovere che mi spetta per domani. (5)
    E il dovere per Hammarskjold è mettere le ali ad un organismo internazionale – le Nazioni Unite – ancora giovane, sprovvisto di poteri e fragile, in un mondo diviso in grandi blocchi contrapposti.  E’ proprio durante il doppio mandato di Hammarskjold che per la prima volta nella storia dell’ONU – il 10 dicembre del 1954 -  viene votata una risoluzione per conferire un mandato diretto al Segretario Generale per gestire una crisi internazionale.  (6)
      Sarà un crescendo di impegni e fatiche per Dag, che passano attraverso l’invasione sovietica dell’Ungheria e la crisi di Suez (1956), la creazione, per iniziativa del Segretario Generale della prima forza armata di peace keeping delle Nazioni Unite, e  la riconferma con il secondo mandato nel 1958 (ctrl.), fino all’ultima crisi, quella congolese, che costerà la vita ad Hammarskjold, apertasi nel luglio 1960 e culminata nelle richieste di dimissioni arrivate direttamente da Nikita Chruscev.  (7)
     Rimarrò al mio posto per quanto resta del mio mandato come un servitore dell’Organizzazione - risponde orgogliosamente al presidente sovietico Hammarskjold, in un celebre discorso tenuto all’Assemblea Generale, il 3 ottobre del 1960 -  nell’interesse di tutte le altre nazioni, fin quando esse vorranno che io faccia così.  (8)  
     E’ nell’attraversamento di queste dure prove che si esprime, in parallelo, il peculiare misticismo di Hammarskjold.  La sua ricerca di Dio diventa il cammino in controluce di una carriera, di una vita, perennemente esposta alla luce dei riflettori del mondo Già da bambino, Hammarskjold ha fatto l’abitudine al silenzio, alla meditazione. Sa che questo e soltanto questo può salvarlo, in definitiva, dall’assordante chiasso del mondo.  Viene da terre fredde, ha trascorso lunghi anni, bambino, al seguito del padre, prima capo del governo, poi governatore di Uppsala, in una grande e bellissima casa da cui si domina la città.  La sua famiglia di provenienze nobili, è conosciuta e ammirata in tutta la Svezia. Il padre è intimo amico dell’arcivescovo Nathan Soderblom, grande teologo
svedese, uno dei fondatori del movimento ecumenico moderno, e vincitore a sua volta del premio Nobel per la Pace nel 1930. Dag cresce in questo clima, e non è difficile immaginarlo come una sorta di Alexander, il protagonista del celebre film di Ingmar Bergman (9), ambientato proprio a Uppsala.  Riceve i rudimenti della fede luterana, sviluppa un carattere timido, introverso, la passione per l’arte, la letteratura, la musica. Non si sposerà mai, non metterà su famiglia, forse anche  obbedendo a quel pre-sentimento di avere di fronte a sé una vita breve.
      La solitudine interiore, l’isolamento, sempre e comunque, anche nonostante una vita convulsa, diventano l’habitat necessario per una ricerca che non si interrompe mai, per il dialogo più difficile con un Interlocutore presente, ma  silenzioso.
      Basti pensare che alla quiete Dag Hammarskjold edificherà un vero e proprio monumento: la stanza per la meditazione fu infatti fortemente voluta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne seguì personalmente ogni fase, dalla progettazione (al centro della stanza un raggio di luce proveniente dall’alto colpisce la nuda superficie di una pietra), all’arredamento, fino all’inaugurazione, nel 1957, occasione per la quale Hammarskjold scrisse un testo, intitolato Una stanza di quiete, che ancora oggi compare nel depliant distribuito alle migliaia di persone che ogni anno visitano il Palazzo delle Nazioni Unite di New York.  Nelle intenzioni questo doveva essere un luogo “le cui porte possano essere aperte agli spazi infiniti del pensiero e della preghiera. “  Hammarskjold fu uno dei primi statisti a rendersi conto che uno dei maggiori rischi per l’uomo politico è quello di distaccarsi dalla realtà e da se stesso.  Di non avere tempo per stare solo e riflettere.  Una esigenza simile è stata sottolineata ed espressa recentemente da Barack Obama, prima della sua elezione, in un incontro a Londra con l’allora primo ministro inglese Tony Blair.  La quiete come presupposto ultimo per cercare se stessi,  per rimanere un “humus aperto, umido nel fertile buio dove cade la pioggia e cresce il grano.”
      E’ questo del resto, anche il senso di ogni ricerca mistica, che per Hammarskjold non è mai fuga dal mondo.       
       “L’esperienza mistica”.  Sempre qui e ora… in quella libertà che è tutt’uno con il distacco, in quel silenzio che nasce dalla quiete. Ma questa libertà è una libertà nell’azione, questa quiete è quiete tra gli uomini. Il mistero è perenne realtà per chi è libero da se stesso nel mondo, è realtà in una tranquilla maturità nell’attenzione ricettiva e acconsenziente. 
      Nel nostro tempo la via della santità passa necessariamente attraverso l’azione.
      Bisogna dare tutto per tutto.  (10)   (-segue 3./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

4. Op. cit. pag.97
5. Op. cit. pag.125
6. Si tratta della vicenda degli aviatori americani dipendenti dalle forze ONU in Corea, fatti prigionieri e condannati poi dalla Cina per spionaggio, che verranno rilasciati il 1. agosto dell’anno seguente – 1955 – grazie proprio alla paziente opera di Hammarskjold che visita diverse volte Pechino, ricavando dal governo cinese ripetuti rifiuti fino alla improvvisa liberazione, esattamente due giorni dopo il cinquantesimo compleanno di Dag Hammarskjold (29 luglio 1955).
7. Il 30 giugno 1960, a solo un anno e mezzo dai primi violenti scontri con Bruxelles, il Congo divenne stato indipendente. Iniziò un lungo e sanguinoso periodo di lotte tra fazioni e guerra civile, culminante con la presa del potere da parte del colonnello Mobuto, dopo l’arresto e la condanna a morte nel gennaio del 1961 di Patrice Lumumba, colui che era stato uno degli artefici principali della liberazione e della lotta per la indipendenza dal Belgio.
8. Cit. tratta da Foote, Wilder, ed., Servant of Peace: A Selection of the Speeches and Statements of Dag Hammarskjöld, Secretary-General of the United Nations 1953-1961. New York, Harper & Row, 1962. 
9. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander), film del 1982 di Ingmar Bergman, con Pernilla Allwin e Bertil Guve, vincitore di 4 premi Oscar. In Italia è edito su dvd dalla Sanpaolo Audiovisivi. 
10. Op. cit. pag. 139.

26/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (2./)




1. (Dieci grandi anime) - Dag Hammarskjold (2) 


Quel che appare certo è che in un certo senso Dag Hammarskjold aveva un destino già scritto, se è vero che egli era l’ultimo dei quattro figli maschi di Hjalmar Hammarskjold, eminente politico del dopoguerra svedese, che fu anche primo ministro e membro dell’Accademia Reale di Svezia.   Quando Dag, alla sua morte,  è chiamato a prenderne il posto, alla fine del 1953, pronuncia un celebre discorso in memoria del padre. E ricordando il se stesso diciannovenne che seguiva dalla tribuna la cerimonia di insediamento del padre, dice: le parole che lui pronunciò riassumevano, per me, una vita di fede nella giustizia e di servizio compiuto nella negazione di sé, sotto una responsabilità che ci unisce tutti.
       Negazione di sé, sottomissione, darsi agli altri, sono le parole d’ordine che risuonano quasi in ogni pagina del Diario di Hammarskjold.  Sembrano coniugare la personale teodicea di quest’uomo che pronuncia la parola ‘fede’ con molta esitazione, e che con la stessa prudenza e attenzione si rivolge a Dio.
       Eppure, Hammarskjold, soltanto a scorrere il suo Diario, appare un assiduo frequentatore delle Scritture.   Quasi ogni pensiero è scandito di echi, magari anche lontani, anche non espliciti, all’Antico e al Nuovo Testamento.
        E quando i soccorsi raggiungono in Africa il luogo dell’incidente aereo,  in quel giorno d’estate del 1961, scoprono, non lontano al cadavere di Hammarskjold, la copia tascabile del De Imitatione Christi di Tommaso da Kempis, uno dei testi più popolari della spiritualità cristiana. La stessa copia che Hammarskjold teneva abitualmente sul comodino del suo appartamento di New York,  che portava sempre con sé e che era accompagnata da un segnalibro molto particolare: una cartolina su un lato del quale era battuto a macchina il giuramento formulato nella cerimonia di insediamento come Segretario Generale delle Nazioni Unite.
        Un uomo di fede, dunque, si direbbe senza alcun dubbio.
        Eppure, scorrendo le brevi frasi, le rapide illuminazioni contenute nelle pagine dei Diari, si scoprono gli angoli di un negoziato con Dio vissuto al prezzo di dubbi, lacerazioni del cuore, paure, incerti scaturiti da notti insonni, o da pause meditative durante le quali il compito di operatore di pace tra popoli e genti che non volevano saperne di ragionare, dialogare, smettere di guerreggiare, doveva apparirgli improbo, disperato.
        Chi ama vuole la perfezione dell’amato, scrive la vigilia di Natale del 1955,  la quale esige l’essere liberi persino da chi ama.   Dio vuole la nostra indipendenza e in essa noi “ricadiamo” in Dio, quando smettiamo di cercarla da soli.
       Ma questa libertà, questa indipendenza che Dio lascia all’uomo è forse anche pericolosa.  Hammarskjold la avverte come un campo aperto, dove è molto facile perdersi, ancora di più per un uomo come lui esposto a tentazioni umane molto tangibili e suadenti: il potere, l’autoaffermazione, il riconoscimento degli altri, il narcisismo, l’interesse personale.
      Il cristiano Hammarskjold procede allora su un altro piano,  che è quello della totale sottomissione ai disegni di Dio, una sottomissione che viene avvertita anche nei toni di un destino personale, forse pre-sentito.  E’ infatti curioso constatare come riecheggino per tutto il diario presentimenti di una possibile fine imminente, di un annientamento. Basti pensare che ogni nuovo anno del taccuino personale, si apre con la stessa frase: “e presto verrà la notte”…
      La condizione umana è quella, per come viene sperimentata da Hammarskjold, di un viaggio senza ritorno, di un cammino che una volta intrapreso ha un solo possibile epilogo, quello del sacrificio e del grande salto nell’Oltre.   Tornare indietro non è possibile. Vi è un punto in cui tutto diviene semplice, in cui non c’è più alternativa, poiché tutto quello che hai puntato è perso se ti guardi indietro. Il punto di non ritorno, proprio della vita. (3)

      Il cammino della vita procede su coordinate fisse, soltanto in parte decise ab origine. E una di queste coordinate, quella zenitale, è la responsabilità personale.  Responsabilità personale che consiste, in primis, nel non deludere le aspettative.  Nell’essere all’altezza.  Dag ha fatto propria una massima di Joseph Conrad che ripete spesso: Vivere secondo le aspettative dei propri amici. (-segue 2./). 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


3. Op. cit. pag. 83.

25/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (1./)





1. (Dieci grandi anime) - Dag Hammarskjold (1) 

Chiedo l’assurdo:  che la vita abbia un senso.
    Così scriveva nel 1952, nel suo diario intimo, Dag Hammarskjold.  La sua vita breve volgeva già al termine. Altri nove anni, poi in una notte  di settembre del 1961 – tra il 17 e il 18 – l’aereo che lo trasporta per una nuova missione di pace per risolvere la drammatica crisi congolese, nel cuore della martoriata Africa, e che è partito nella serata da Leopoldville, si schianta a Ndola, nello Zambia.
     Hammarskjold muore, la notizia fa il giro del mondo.  E’ morto un operatore di pace, un grande uomo.  Un uomo, che come disse John Steinbeck, faceva tutto per passione.
     E come è immancabile quando a morire è un uomo politico, specie se questo uomo è un grande diplomatico, anzi, un Segretario Generale delle Nazioni Unite, le “notizie sulla morte” sono imprecise, sospette, lacunose, piene di oscurità: è stato un attentato ?  Quasi certamente, ma non si saprà mai con precisione. Gli uffici istruttori nell’ex Africa coloniale, nei primi anni ’60 sono tutt’altro che preparati per una evenienza del genere.
Poco importa: l’oscurità della morte di Hammarskjold diventa, in poco tempo luce.  Due fatti, principalmente. Appena due mesi dopo la morte l’Accademia di Svezia concede all’unanimità il Premio Nobel per la Pace alla memoria del grand’uomo svedese.  Quasi contemporaneamente, nell’appartamento abitato a New York da Hammarskjold, vengono ritrovate alcune carte, tra cui un diario minutamente e ordinatamente segnato, con brevi riflessioni riportate anno dopo anno, dal 1925 al 1961.   Insieme al diario c’è una lettera, indirizzata ad un caro amico, Leif Belfrage.       Hammarskjold gli ricorda che qualche volta ha accennato a questo diario, gli scrive che vorrebbe che sia lui ad occuparsene, in vista di una possibile pubblicazione.  
      Se trovi che valga la pena di pubblicare le mie note, scrive nella lettera, ti autorizzo a farlo, come una specie di “libro bianco”, sul mio negoziato con me stesso… e con Dio.
     La parola ‘negoziato’ per un diplomatico, non può essere un caso.
     Cosa intendeva Hammarskjold con “negoziato” ?  Perché sentì l’esigenza di intavolare questa trattativa con Dio ?  Chi era, in definitiva, questo uomo che le fotografie d’epoca ci mostrano distinto ed elegante, gli occhi azzurri, l’onda dei capelli biondastri sull’alta fronte, lo sguardo luminoso e buono ? Cosa sappiamo di lui ?
     Gli archivi del Palazzo di Vetro dell’ONU dispongono di montagne di documentazione sul lavoro e sulla frenetica attività diplomatica del terzo segretario dell’ONU (1). Ma certamente per chi oggi voglia conoscere qualcosa dell’uomo Hammarskjold assai più significative di quelle cataste di documenti, appaiono essere le poco più di duecento pagine del ‘Diario’ intimo, tradotto in tutto il mondo con diversi titoli (2).       (-segue 1./). 

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1.      Dag Hammarskjold (1905-1961) fu il terzo Segretario Generale delle Nazioni Unite – che furono fondate il 24 ottobre 1945 -  dopo il britannico Sir Gladwyn Jebb (1945-46) e il norvegese Tryvge Lie (1946-1952).       2.     In Italia i diari di Hammarskjold sono pubblicati con il titolo Tracce di cammino da Qiqajon – Comunità di Bose, 1992, a cura di Guido Dotti. A questa edizione si è fatto riferimento per le citazioni riportate nel testo. 

23/09/13

Cosa diciamo quando diciamo 'Mi piace' (o 'Non mi piace) ?





Sento spesso dire, ultimamente: questo Papa mi piace (o non mi piace);  eppoi sento dire Matteo Renzi ? Non mi piace (o mi piace);  E ancora: Napolitano ? mi piace, Balotelli ? Non mi piace. La Kyenge ? Non mi piace. 

Ecco ma mi viene da chiedere: ma cosa è questa cosa che ci fa dire 'mi piace'?

Mi sembra fin troppo facile dire che il  format di un social network a diffusione planetaria sta condizionando pesantemente anche il nostro modo di pensare.

Cosa diciamo esattamente quando diciamo mi piace ? Cosa vogliamo dire ? Cosa vogliamo comunicare ?

Il mi piace è il compito ordinativo, fondativo cui siamo chiamati oggi. Un rituale dell'interrogazione -monocorde, vieto - che sembrerebbe l'unico modo per vestirci di una personalità.

Attraverso i mi piace e i non mi piace, possiamo illuderci di vestire una identità precisa, o più o meno precisa che ci differenzi - si spera - dagli altri. O ci uniformi, il che va bene lo stesso.

Ma il piacere o non piacere deriva appunto e soltanto dal piacere: puro godimento esteriore. Diciamo mi piace se qualcosa o qualcuno ci dà una sensazione di piacere, di soddisfazione.  Diciamo non mi piace, se ci disturba, o non ci soddisfa o non ci gratifica. 

E spesso, sempre più spesso, non abbiamo nemmeno il bisogno, non sentiamo nemmeno l'esigenza di dover giustificare (non parliamo poi di argomentare) questo mi piace o non mi piace: è così è basta.  Cosa vuoi spiegare. Puro istinto, pura formulazione transitiva o non transitiva. La mia epidermide me lo dice, non mi star a chiedere perché.

Ma davvero il pensiero, il pensiero umano può ridursi a questo ?

Dovremmo forse interrogarci cosa (ci) dice questo mi piace e questo non mi piace.
Le cose che non ci piacciono nascondono mondi che nemmeno immaginiamo, quelle che ci piacciono, forse, paludi delle quali non siamo nemmeno consapevoli. 
E come sempre, è tutto dentro di noi (e non sulla superficie).
Solo che, come sempre, non vogliamo vederlo.


Fabrizio Falconi



18/09/13

Il video dalla Thailandia che ha fatto commuovere il mondo. 3 minuti di puro incanto.


   



Poche immagini, pochissime parole.  3 minuti di puro incanto, di pura poesia.  E' la vita, semplicemente.  Se questo piccolo video è nato per un intento puramente commerciale, anche il commercio mondiale ha forse una speranza. 



17/09/13

"Roma significa il mondo" di Ingeborg Bachmann (inedito).




Roma significa il Mondo.


A Roma ho visto che il Tevere non è bello, ma trascurato nelle banchine, da dove spuntano rive a cui non c'è chi metta mano.  Nessuno usa le navi da carico brunite dalla ruggine, nemmeno le barche.  ..  A Roma ho visto nel ghetto che non bisogna lodare il giorno prima della sera.  Ma nel giorno dell'espiazione a ciascuno sarà perdonato in anticipo per un anno..

Ho visto a Campo de' Fiori che Giordano Bruno continua ad essere bruciato. Ogni sabato, quando smantellano le bancarelle intorno a lui restano solo le fioraie, quando la puzza di pesce, cloro e frutta marcita va disperdendosi sulla piazza, gli uomini raccolgono sotto i suoi occhi i rifiuti che sono rimasti dopo che di tutto è stato fatto mercato, e danno fuoco al mucchio.

Sul Campidoglio l'alloro e nel foro l'erbaccia proditoria, e quando l'erba sulle colonne chiuse con assi e sulle mura spezzate piombava nel crepuscolo, ho udito il rumore della città, ingannevolmente lontano, e soave lo scivolare delle automobili.

Ho visto, dove le strade di Roma finiscono, insinuarsi in città il cielo trionfante che non si chinava sotto nessun portone e si estendeva sopra i sette colli, azzurro dopo le scorrerie sulle coste della Sicilia e pieno dei frutti delle Isole del Mar Tirreno, illeso dopo gli assalti nei briganti d'Abruzzo e nero di grappoli di rondini, sopra gli Appennini.

A Roma ho visto che tutto ha un nome e che bisogna conoscere i nomi.

Alla stazione Termini ho visto che a Roma i commiati sono presi più alla leggera che altrove. Perché quelli che partono lasciano a quelli che restano lo scontrino della nostalgia.


Ingeborg Bachmann - inedito, dal Messaggero del 17 settembre 2013, anticipazione del libro Quel che ho visto e udito a Roma, di Ingeborg Bachmann pubblicato da Quodlibet. 

Ingeborg Bachmann
Quel che ho visto e udito a Roma
Presentazione di Giorgio Agamben
Con una nota di Jörg-Dieter Kogel
Traduzioni di Kristina Pietra e Anita Raja

Vai alla nuova edizione economica nella collana "Bis"

Le corrispondenze da Roma di Ingeborg Bachmann per la radio di Brema (1954-'55), qui pubblicate insieme agli articoli da lei scritti nello stesso periodo per alcuni giornali tedeschi, sono un ritrovamento recente e testimoniano sia di un aspetto sconosciuto di questa ormai celebratissima scrittrice, sia di uno spaccato dell’Italia postbellica visto da una angolatura di eccezione. La Bachmann conosceva perfettamente l’italiano e si orientava con sicurezza nella politica e nella cultura locali. Dietro lo pseudonimo Ruth Keller, ella riferisce sugli argomenti più scottanti del periodo: su misteriosi eventi criminosi negli ambienti altolocati romani (il caso Montesi), su presunti tentativi di eversione da parte dei comunisti italiani, sulle catastrofi naturali che colgono di sorpresa i già provati popoli della Campania, sulle inquietanti manovre della mafia, sull'’ascesa alla ribalta della Lollobrigida e sulla ratifica dei “trattati di Parigi”. Un’occasione per ripercorrere la vita italiana degli anni ’50, meno distante da quella odierna di quanto si pensi, e per comprendere meglio l’attività di una scrittrice che ancora non ha finito di svelare tutti i suoi segreti. Assieme alle “Cronache”, pubblichiamo una breve prosa coeva, che dà il titolo all’intero volume, e che parla a sua volta di Roma. Associamo al grado meno letterario e più “fattuale” della scrittura bachmanniana una prosa intrisa di ispirazione conforme allo stile più noto e più felice della scrittrice. Si apre così lo spazio totale entro cui si muove l’occhio della Bachmann e da cui affiora il suo ritratto di Roma, e molti dei motivi che popolano le altre sue opere letterarie. 

16/09/13

Occursus noster (Il nostro incontro) - di Fabrizio Falconi (traduz. latina).





Occursus noster

Occursus noster
in rebus agendis non erat, nigro
scribebatur muris, nubes erat
fluxa, cantus erat
e lumine, prospectus erat
parvus infinitus qui forium silentio
se abdit.

Occursus noster
vesperi proximus erat
diei ante, tropicis hiemabat
sicut avis extra cursum,
eum pudebat sui,
sicut communem locum,
vel in verborum exordio questionem.

Occursus noster
vana possessio erat,
vel fascinata nota,
et tamen occursus noster
apparuit olim, aliquo die,
vitam vi illuminavit,
et nondum evanuit.

Fabrizio Falconi - traduz. di Filomena Bernocco.
Testo originale qui

13/09/13

Attrazione fatale (esiste una attrazione fatale dell'amore?) - Lectio Magistralis di Remo Bodei oggi a Modena. Il testo integrale.



Remo Bodei, professore di filosofia presso la University of California a Los Angeles terrà oggi una Lezione magistrale dal titolo Attrazione fatale. L'appuntamento è a Modena, in Piazza Grande alle ore 16,30

Ecco il testo integrale. 


E siste un’attrazione fatale dell’amore?
È davvero impossibile non ricambiare l’amore di chi ci ama? Esiste un amore irresistibile, contagioso e cieco? Se amati, si deve riamare "per forza"? Tutti questi interrogativi rinviano a una domanda preliminare: Perché, quando si ha la fortuna di incontrarlo, si dovrebbe rinunciare all’amore, a una delle esperienze più piene e appaganti nell’esistenza di ciascuno? Esso rappresenta, infatti, un’energia di radicale rinnovamento, un nuovo inizio, quasi una rinascita: incipit vita nova.

Si gode dell’esaltazione che produce, dell’inafferrabile, luminosa espansione della vita, un allargamento dell’io che sente di non bastare più a se stesso e trova il propriocompletamento nell’altro. Si avverte allora la sensazione di innalzarsi al di sopra della banalità della vita quotidiana e di essere strappati alla solitudine dell’io.

È felicità e tormento che risveglia il desiderio di ignoto, assieme al dubbio di non essere corrisposti e al connesso timore di perdere ciò a cui oscuramente si è sempre aspirato.

È una riscoperta di noi stessi in vesti altrui, l’incontro con quel nucleo di noi stessi, da cui viviamo spesso lontani, assorbiti dall’esteriorità e dalla dissipazione delle nostre energie.

Quando si prova amore per qualcuno, il desiderio più grande è che tale affetto sia ricambiato, superando una doppia difficoltà, poiché è già improbabile trovare tra milioni di persone qualcuno di cui innamorarsi, ma è ancora più improbabile esserne ricambiati.

Gli amori asimmetrici,in cui si ama non riamati, possono finire tragicamente,come sappiamo anche dalla cronaca, con l’uccisione di chi non vuole iniziare o continuare una relazione.

A partire dal celebre verso dantesco «Amor che nullo amato amar perdona», mostrerò,come sostenere questo principio possa in certe culture, da un lato, sfociare nella morte,dall’altro rappresentare un’attenuante e una rivendicazione dell'adulterio.

continua a leggere QUI.

11/09/13

La Lettera del Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio a Eugenio Scalfari, pubblicata oggi su "Repubblica."

ecco il testo della Lettera che Jorge Mario Bergoglio ha inviato a Eugenio Scalfari, e che Repubblica pubblica oggi in prima pagina, sui temi della fede e della ragione.




PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth". Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

10/09/13

Siria: Adonis: "Finché ci sarà poesia, ci sarà voglia di pace."





Finche' ci sara' l'amore ci sara' la poesia e finche ci sara' la poesia ci sara' voglia di pace. 

Prima di lasciare Capri per fare ritorno a Parigi, il poeta Adonis, candidato al Nobel e vincitore del Premio Internazionale Capri è tornato a parlare dei temi che gli sono cari ed ha auspicato che Obama receda dal desiderio di lanciare l'attcco alla Siria.

Adonis (il cui vero nome e' Ali' Esber) nacque in un villaggio siriano 83 anni fa e, pur essendo vissuto in Libano e poi a Parigi, non nasconde che il suo cuore di poeta e di libero cittadino batte per il suo paese d'origine.

Non certo per il regime di Assad chiarisce, ma per un popolo che ha una storia antica e per una terra che ha una civilta' antichissima. Fu la Siria a inventare il nostro alfabeto e fu la Siria a creare la parola Europa; spero che l'Europa si ricordi di questo e freni l'America. La guerra e' un non senso; bisogna dare spazio al dialogo; l'uomo deve parlare e non uccidere. 

Adonis ha ricevuto il riconoscimento "Capri Arwards", che in passato e' stato attribuito ai più importanti poeti del mondo. 

Quindi ha letto alcune sue liriche, tra cui spicca quella intitolata "Pace": 

Pace ai volti che, soli, vanno nella solitudine del deserto
all'oriente vestito d'erba e fuoco
Pace alla terra lavata dal mare
al tuo amore, pace. 

fonte ANSA


09/09/13

E' morto Alberto Bevilacqua. Il torto di essere poliedrico.





La scomparsa di Alberto Bevilacqua rende un po' più povero il panorama - già di per sè non particolarmente esaltante - della produzione culturale italiana.  

Bevilacqua, che esordì giovanissimo, a soli 19 anni, con la raccolta di racconti La polvere sull'erba, ha scritto molto (secondo alcuni, troppo), ma soprattutto ha commesso un 'errore' che non gli è stato mai perdonato dalla critica militante italiana (quella che esisteva fino a qualche anno fa e che poi si è dissolta, insieme a quella che una volta veniva definita cultura alta, disciolta in mille congreghe perlopiù virtuali e perlopiù irrilevanti, come è quasi del tutto irrilevante, tranne poche eccezioni, almeno a livello internazionale, la cultura italiana): quello di assecondare il proprio talento poliedrico.  

Se infatti in Italia viene già perdonato a fatica il fatto di avere un talento, specie in campo culturale, viene invece ritenuto del tutto imperdonabile avere più talenti, un tipo di figura intellettuale che di contrario nel mondo anglosassone o in Francia, per esempio, viene ben considerata. 

Bevilacqua ha avuto la presunzione di scrivere molti romanzi, di scrivere racconti e piccoli e lunghi saggi, di scrivere poesia e addirittura di dedicarsi al cinema con la realizzazione di ben otto film, tra i quali i primi due, La Califfa (1970) e Questa specie d'amore (1972) che erano tratti da suoi romanzi e che ottennero premi e riconoscimenti importanti, fuori e dentro l'Italia. 

Ha poi avuto anche l'ulteriore torto,  probabilmente dovuto al narcisismo che accomuna molti intellettuali, e questo ancora più grave e imperdonabile di concedersi al trash di trasmissioni televisive (ah, la televisione!) in qualità di ospite e di opinionista.

Questo pesa e peserà non poco - in Italia funziona così - sulla valutazione del Bevilacqua scrittore. E di quello regista o di quello di intellettuale a tutto tondo.  

Bisognerà aspettare, come è successo molte volte in passato, il transito del tempo, il trascorrere magari di una generazione o due, e forse anche su Bevilacqua sarà possibile esprimere un parere più serio, più obiettivo.

E magari scoprire una dote piuttosto rara che ha permeato molte delle sue opere: la sincerità.

Fabrizio Falconi.

06/09/13

Una bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il "Gesù" di Pasolini - di Marco Cicala.





Sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica, Marco Cicala ha pubblicato questa bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il Gesù di Pasolini (nel Vangelo Secondo Matteo).  La riporto qui integralmente perché oltre ad essere scritta benissimo è piena di aneddoti e di ricordi di un personaggio singolare, quale è appunto Irazoqui, praticamente scomparso dalle scene dopo quel clamoroso esordio.  La vicenda appare realmente una sorta di film nel film. Buona lettura. 

Cadaqués. 

Gesù non beve. Fu­mava, ma ha smesso. Era marxista. Ha smesso. Da giovane, l'ha stracciato a scacchi il princi­pe del dadaismo; ha rubato la scena al pa­dre della beat generation; ha mangiato i tortellini in trattoria con Elsa Morante. Eandava da Rosati assieme a quelli che an­davano da Rosati: Guttuso, Moravia, Maraini: «Ma se c'era Elsa, Dacia non veniva». 

Vabbè però adesso basta col giochetto: Gesù si chiama Enrique Irazoqui e nella sua vita avanti Cristo era uno studente di econo­mia all'università di Barcellona. Militava pure nel sindacato giovanile. Comunista. Clandestino. Perché al volante della Spagna c'era Francisco Franco. Per via della madre (nata, quasi un presagio, a Salò) Enrique sela sbrogliava bene con l'italiano, e così il Par­tito lo spedì a Firenze e Roma in missione speciale. Si trattava di cercare appoggi tra i big della politica e della cultura. Sostegno pecuniario, ma non solo: «Volevamo invitar­li in Spagna a tenere conferenze contro ladittatura. Se li lasciavano parlare, bene. Se li arrestavano, pure meglio. Lo scandalo ci avrebbe fatto ancora più gioco». 

Era il feb­braio 1964. Irazoqui aveva 19 anni e un bel volto angoloso da antico eresiarca. In Italia venne preso in consegna da un gentil accompagnateur del Pci. Gli fecero vedere La Pira, Pratolini, Nenni, Bassani... Per ultimo lo por­tarono all'Eur, da Pasolini. Avvertendolo: «Guarda che è poeta. E omosessuale». Enrique Irazoqui sedeva a casa di PPP e quello lo ascoltava in piedi, girandogli intor­no senza spiccicare parola. Alla fine disse: «D'accordo, verrò in Spagna. Ma prima tu devi farmi un favore». Quale? «Interpretare Gesù nel mio prossimo film». Pardon? «Sarà un racconto epico-lirico, in chiave nazional-popolare, sai Gramsci? Dobbiamo restituireCristo al popolo. Perché gli è stato rubato dalla classe dominante». Irazoqui era allibito. «Risposi di no. Per me la religione significava il cattofascismo franchista. Ero un ateo militante. Fedele al motto di Kropottón secondo cui L'unica chie­sa che illumina è quella che brucia». Parole sante, «ma non ti hanno mandato in Italia anche a raccogliere soldi?» gli bisbigliò, luciferino, l'emissario del Pci. «Guarda che se accetti sono m-i-l-i-o-n-i». Eh già. Allora affa­re fatto. Prodigi del materialismo dialettico. Tempo pochi giorni, Enrique, ancora mino­renne, ottiene il nihil obstat dei genitori. Sarà sua madre a negoziare il contratto col pro­duttore Alfredo Bini. 

Le riprese del Vangelo secondo Matteo lo porteranno a Barletta, Crotone, Matera... Un Meridione dove «i vol­ti degli uomini parevano scavati nel diaman­te e nel carbone». Un sud «molto, ma moolto più sud di quello spagnolo». Nelle pause di lavorazione, donne di nero vestite gli chie­devano miracoli. Così, a la carte. Ma poi sor­prendendolo con la cicca in bocca, si ritira­vano sdegnate. Perché Cristo non fuma. Temendo che a quasi mezzo secolo dal film non lo riconoscessi, Irazoqui mi è venuto incontro benedicendo. Porta un panama si­gnorile e scarpe minorchine. 

Da anni vive qui a Cadaqués, che fu la Saint-Tropez catalana e il Vittoriale mediterraneo, ora casa museo, di Salvador Dalí. «Quel fascistone» dice En­rique accenando alla (brutta) statua del Divi­no, che domina la baia e lo ritrae molto più ricciuto del vero: diresti Sor Pampurio. Sediamo nel bar accanto a quello dove Irazoqui, giocatore precocissimo e temibile, batteva a scacchi Duchamp: «Era stato un asso, ma ormai aveva i suoi anni. Alla fine, la moglie Teeny mi pregò: Evita le partite con Marcel, che poi la notte sta lì a rimuginare e non mi dorme». C'era anche John Cage: «Simpa­ticissimo. Mai visto scacchista peggiore» sogghigna Gesù. E punzecchia: «Vediamo se anche lei mi farà la domanda che tutti mi ri­volgono nelle interviste. Quale? Glielo dirò alla fine». 

intervista pubblicata dal Venerdì di Repubblica e ripresa da Pasolini.net

03/09/13

Il conto delle disillusioni e delle illusioni.






Quelli che vivono di disillusioni, sono gli stessi che coltivano le illusioni.  O che le inanellano nelle loro vite, senza nemmeno accorgersene, perché è nella natura stessa della loro anima. 

Vivono apparentemente meglio i cinici, che si proteggono dalle disillusioni illudendosi di fare a meno delle illusioni, ma poi li trovi di notte a mendicare uno spicciolo di qualcosa da un pusher di passaggio, uno straccio di flebile illusione che aiuti anche loro a passare una notte senza guardare il soffitto. 

E in realtà non v'è soluzione. Perché, come dice Demostene, nulla è più facile che illudersi e l'uomo crede vero ciò che desidera. 

Alla fine però il conto delle disillusioni e delle illusioni è sempre in parità. Ed è giusto che sia così. La tara è l'essenza stessa del gioco, cioè la vita.

E alla vita, al suo stretto, difficile fascino irresistibile, a quanto pare, è molto difficile rinunciare.


02/09/13

Carlo Cassola, un autore dimenticato.


In tempi in cui è così difficile fare critica letteraria in Italia - pochi che leggono, pochissimi che posseggono gli strumenti della critica, ancora di meno che ricordano, può essere indicativa la vicenda di Carlo Cassola, nato a Roma il 17 marzo 1917, un narratore oggi sparito - o quasi - dalle librerie e che pure conobbe un grande successo commerciale, il che gli attirò le furie della critica di allora, che invece pretendeva di decidere tutto - oggi non decide più niente - e di stabilire una volta per tutte i valori assoluti in un campo scivoloso come quello della produzione letteraria.

                                       
(Carlo Cassola con Pasolini)

Cassola, riletto oggi sembra molto meno ingenuo di come appariva allora (implacabilmente impallinato da Calvino e soci) e soprattutto messo a paragone con molta della narrativa che si fa e si stampa oggi in Italia, appare perfino un gigante.

Questo è il ritratto che traggo dal sito Italialibri, forse una occasione per tornare su un autore oggi quasi del tutto dimenticato.

Carlo Cassola nasce a Roma nel 1917. La madre è originaria di Volterra mentre il padre è lombardo, ma vissuto a lungo anch’egli nella cittadina toscana. E infatti, proprio la Toscana, in particolare la Maremma, diventerà la patria poetica e spirituale dello scrittore, che vi si trasferirà nel ’40, partecipandovi anche alla Resistenza.

L’attività letteraria era già cominciata negli anni ’30: tra il ’37 e il ’40 Cassola aveva composto una serie di brevi racconti, in parte pubblicati sulle riviste «Meridiano di Roma» e «Letteratura» e poi raccolti in un volume dal titolo La visita. 

Dopo l’interruzione della guerra, durante la quale il lavoro di scrittura era stato quasi completamente interrotto, Cassola si dedica con continuità alla narrativa, affiancata all’insegnamento di filosofia in un liceo di Grosseto. Pubblicò i racconti lunghi Baba (1946), I vecchi compagni (1953), Fausto e Anna (1952), tutti di argomento partigiano e ambientati in quel particolare paesaggio letterario che per Cassola fu la zona compresa nel triangolo Volterra - Marina di Cecina - Grosseto: una terra arida, avara, crudele, che nelle pagine dei suoi romanzi diventa un simbolo della condizione umana, quasi un “correlativo oggettivo” della fatica di vivere.

 (Carlo Cassola)

Lo ha detto in modo efficace il poeta Mario Luzi quando, riferendosi allo sfondo geografico dell’opera di Cassola, afferma: «Per affetto e per organica intelligenza di poesia, Cassola ne ha fatto non una provincia, e sia pure la sua provincia, ma un luogo, anzi il luogo dell’anima».

Con il racconto lungo Il taglio del bosco, scritto tra il ’48 e il ’49, ma pubblicato nel 1954, la prosa cassoliana si allontana dalle tematiche storiche per assumere un tono più dimesso e intimistico, che rimarrà tipico dell’autore anche nella sua produzione successiva.

Cassola mette a punto la sua poetica del “realismo subliminare”, ossia uno sguardo letterario attento a cogliere le vibrazioni più sottili e umbratili della realtà, spesso nascoste dalle apparenze banali del quotidiano, relegate «sotto la soglia della coscienza pratica» ma che racchiudono il significato vero e profondo della vita umana.

In questa sua ricerca, Cassola tende ad isolarsi dal panorama letterario italiano, riconoscendo il suo unico maestro in Joyce, particolarmente nel Joyce di Gente di Dublino. «In Joyce — dice — scoprii il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della vita che per me erano sempre stati i più importanti e di cui gli altri sembravano non accorgersi nemmeno» .

Questo netto distacco dal naturalismo tradizionale segnerà d’ora in poi tutte le opere dello scrittore, determinando anche una nuova visione della storia, considerata sempre meno come il teatro di grandi eventi e di ideali alti, ma piuttosto sempre proiettata nella dimensione interiore e privata dei soggetti che in essa si trovano a vivere, spesso loro malgrado.

Così, se Il soldato (con cui Cassola vince il Premio Salento nel 1958) tratta il tema della solitudine e dell’elegia amorosa, nella raccolta di racconti La casa di Via Valadier (1956) il motivo politico si colora di forti implicazioni esistenziali, in un quadro che all’elemento storico contingente, si tratti della condizione operaia (come nel racconto Esiliati) o della caduta degli ideali della Resistenza (come nel racconto eponimo dell’intera raccolta), sempre viene anteposto lo stato d’animo che ne scaturisce, spesso segnato da un senso di inerzia ed abbandono dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. In questa scia si viene a collocarsi anche il romanzo La ragazza di Bube, pubblicato nel 1960 ed insignito del Premio Strega.

Le scelte poetiche di Cassola non mancarono di suscitare numerose ed accese polemiche, e si attirarono a più riprese l’accusa di sfuggire all’impegno letterario e civile rifugiandosi in un vuoto lirismo e in un realismo facile, idilliaco, privo di conflitti. Rimangono emblematiche le parole a cui ricorse un Calvino particolarmente caustico per rispondere ad alcuni interventi di poetica pubblicati da Cassola sul «Corriere della Sera»: «La poetica dell’ineffabilità dell’esistenza è e resterà legata a esperienze individuali rare, a particolari congiunture storiche. Cassola dice che ha trionfato: non si rende conto che questo trionfo è una sconfitta? Cosa può voler dire questo trionfo, oggi? Romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto dei sentimenti ricucinati».

Nonostante l’animosità a volte carica di acrimonia evocata dalla sua opera, il lavoro di Cassola si mantenne fedele alla propria poetica chiusa, minimale e volutamente astorica, anche nella produzione degli ultimi anni che, tra romanzi e racconti, si mantenne regolare e costante:

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